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Passioni svelate
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Passioni svelate

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About this ebook

L’assassinio di un noto chirurgo in un tranquillo borgo della riviera ligure è il nuovo caso per il commissario Paola Franchi. Mentre le indagini faticano a orientarsi, una giovane donna viene stuprata e uccisa. Quando scompare il geometra responsabile del cantiere che il chirurgo e un socio hanno impiantato in Sicilia, e l’ispettore lì inviato cade vittima di un agguato, si apre un terzo fronte di indagine. Solo il misterioso percorso di una borsa condurrà il commissario a smascherare l’assassino.
LanguageItaliano
PublisherEDIZIONI EVE
Release dateJan 14, 2016
ISBN9788899394400
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    Passioni svelate - Patrizia Petruccione

    Patrizia Petruccione

    Passioni svelate

    EDIZIONI EVE

    Patrizia Petruccione

    Passioni svelate

    Edizioni Eve

    www.edizionieve.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Edizioni Eve è un marchio editoriale di Editrice GDS

    www.gdsedizioni.it

    Ogni riferimento a cose, luoghi, persone descritto è da ritenersi del tutto casuale

    Capitolo 1

    Alassio, Riviera ligure di Ponente

    19 giugno, ore 8:30

    Quella mattina il cielo era di un grigio novembrino. Sul mare una nebbia che neppure si vedeva l’isola. Una barca a vela scivolava sulla superficie dell’acqua facendo appena ondeggiare l’albero nudo. Dalla spiaggia venivano voci come ovattate. Il commissario Paola Franchi si dirigeva verso il commissariato. Le strade di Alassio cominciavano ad animarsi: i fornitori con i furgoni semiaperti stazionavano per scaricare le merci destinate ai negozi, ai bar e ristoranti della via Dante; i turisti più mattinieri si muovevano senza fretta, sostando davanti a vetrine di gioiellerie e boutique ancora chiuse, per poi entrare in polleria o nell’unico market della zona. Alcuni si fermavano nei dehors dei bar, ancora ordinati e immersi nel silenzio della prima mattina, e si sedevano ai tavolini a leggere il giornale, sorseggiando un caffè, e alzando di tanto in tanto gli occhi a vedere se il sole usciva dalle nuvole. Ma il sole non spuntava. Paola Franchi non aveva tempo di indagare se fosse quell’oppressione del clima a condizionare il suo umore. Qualcosa non andava. Le sembrava che i pensieri si accumulassero e le gravassero il petto di un’ansia indeterminata.

    Quello si presentava come un giorno difficile: aveva discusso con Marco appena alzata, perché Fosca, dopo che non si era fatta sentire per diversi giorni, quando il padre la sera precedente l’aveva chiamata, si era lamentata di tutto: faceva troppo caldo a Mikonos, si mangiava male, c’erano solo ragazzini spinellati. Insomma sua figlia, a vent’anni, in vacanza in Grecia, non riusciva a divertirsi. Paola si sentiva pulsare la giugulare. «Ma non lo sa Fosca quanto ci è costato il viaggio?», aveva chiesto a suo marito Marco. «Ti ricordi quante sere abbiamo passato su Internet alla ricerca di un’offerta conveniente?».

    Fosca non aveva ancora capito che ormai potevano contare solo sullo stipendio di commissario che lei percepiva, perché la palestra di Marco se ancora non rappresentava un debito era perché negli anni buoni lui era riuscito ad acquistare il locale. Comunque erano mesi che da lì non portava a casa un euro: i pochi frequentatori con le loro quote mensili gli permettevano giusto di pagare il mutuo. E lei e Marco di andare in vacanza non ne parlavano da anni. Non bastava. Marco - e questo pensiero le accelerava ancora i battiti - riferendole la telefonata, aveva concluso che era sua la colpa della costante insoddisfazione della loro figlia. Non riusciva a calmarsi: perché fanno presto i padri a scaricare le responsabilità sulle madri che lavorano. E soprattutto perché con la propria unica figlia non sapeva proprio come comportarsi: se affrontava il problema, Fosca si chiudeva a riccio e rifiutava ogni discussione; se non prendeva in considerazione direttamente la questione e cercava via traverse per arrivare a chiarirne l’origine, era Marco a criticare il suo intervento, sostenendo che in quel modo non faceva che avvallare i comportamenti della figlia.

    «Perché allora non ci pensi tu a darle una regolata?», gli aveva detto lei quella mattina.

    «Ma cosa dici? Te ne sei sempre occupata tu. A me non darebbe ascolto», aveva risposto Marco.

    Lei era avvampata. «Ma chi me l’ha fatto fare di sposarmi?», aveva quasi gridato, come tra sé, ma in modo che lui la sentisse. «Se volevo una figlia, potevo farla e poi crescerla da sola, visto che di fronte ad ogni difficoltà tocca sempre a me intervenire.» Poi era uscita sbattendo la porta.

    Respirò forte: ora doveva staccare perché stava arrivando in ufficio. Anche se era proprio il commissariato la sua valvola di sfogo. C’era l’ironia della Consoli, la sua vice, che le serviva a sdrammatizzare, la Consoli che le studiava l’espressione del viso quando varcava la soglia e le leggeva in faccia l’umore. «È di nuovo in crisi la nostra Fosca? Per forza. Con quel nome», le diceva. Oppure: «È tornata mammà», con una certa napoletanità che il marito le aveva trasmesso. Sì, perché Paola a crearle problemi aveva anche la madre, la quale giustificava ogni pretesa sostenendo di avere un’età difficile: lei non capiva perché proprio settantatré anni fossero un’età difficile, chiedendosi d’altra parte se ci fosse un’età facile nella vita. In effetti cominciava a fare qualche bilancio, e non si sentiva del tutto soddisfatta. C’era uno specchio nella vetrina di Spinnaker. Forse serviva a far sì che i passanti si convincessero ad entrare vedendo nella loro immagine riflessa che era opportuno si rifacessero il look. Si guardò di sfuggita. Era proprio il suo caso. I capelli - eppure una volta erano lunghi e morbidi - si erano come inselvatichiti. Perciò li portava, come oggi, quasi sempre legati. Il viso che forse un giorno era stato piacevole, se non bello, ora cominciava ad essere segnato: ogni anno che passava toglieva luminosità alla pelle, oltre che caricarla del peso della gravità. Il fisico, quello era ancora discreto. Ma avrebbe dovuto indossare un vestito, una gonna, portare scarpe coi tacchi per metterlo in evidenza; invece con quei pantaloni e la camicia di taglio maschile anche il suo corpo risultava del tutto insignificante. Sì: doveva proprio comprarsi qualcosa. Ma entrare lì significava lasciarci lo stipendio: non era il negozio per lei. Comunque non aveva tempo neppure per guardare: era il giorno in cui riceveva gli extracomunitari per le richieste dei permessi di soggiorno.

    Quando entrò in ufficio, le fu subito chiaro che la negatività di quella giornata era generalizzata: il sostituto Luisa Consoli sembrava addirittura depressa. «‘Giorno, commissario», furono le uniche parole che riuscì a pronunciare.

    «Sta male, Consoli? Ha una faccia…».

    «No, no. Una mattinata così...»

    Erano diversi giorni, però, che la Consoli era come spenta e, nonostante le insistenze di Paola, che più volte aveva tentato di scoprire le cause del suo umore malinconico, si rifiutava di parlarne.

    «Dai, qualcosa che non va c’è. Non che io sia particolarmente attenta, ma lei ce l’ha scritto in faccia. La conosco bene.»

    «Niente, commissario. Sto alla grande. Non si preoccupi.»

    Ma la Franchi intuiva cosa ci fosse che non andava: quando Luisa era così mogia il problema era la famiglia. Doveva solo aspettare che fosse lei a decidere di confidarsi. Però le mancavano le intuizioni della Consoli, e anche gli sguardi, le espressioni e i gesti che le permettevano di capire più delle parole cosa avesse in testa la sua collaboratrice. Soprattutto aveva bisogno della capacità di sdrammatizzare con cui Luisa era sempre riuscita ad affrontare i problemi e che spesso riusciva anche a trasmetterle.

    Ore 15:30

    L’esame delle richieste di soggiorno per quel giorno si era concluso. Paola Franchi si allontanò dalla scrivania per avvicinarsi alla finestra. Faceva caldo. C’era traffico, sull’Aurelia, e i motori accesi nel procedere lento delle auto sembravano riscaldare ancora di più l’aria. Intravvedeva uno scorcio di mare. E un frammento di spiaggia, ora baluginante ai raggi del sole che finalmente era uscito dalla cappa di nubi. Mentre di nuovo meditava un sistema per indurre la Consoli a rivelare quale fosse la causa del suo disagio, lo squillo della linea interna la distrasse.

    «Co-cocommissario! C’è stata una ch… una ccchiamata. Ho gi… ho gggià avvisato la volante...».

    Il sovrintendente Fumagalli da sempre s’impuntava sulla c, ma ora anche sulla g. Inoltre aveva il fiato grosso, come fosse reduce da una corsa. Era un ansioso e a volte bastava il fatto di doverle comunicare un problema ad agitarlo. Ma quando balbettava così, e all’incepparsi su alcune consonanti aggiungeva l’affanno del respiro, avveniva perché quello che era successo era tanto forte da sconvolgerlo.

    «Posso sapere qualcosa di più preciso?».

    «C…cccerto, commissario. Sempre ai suoi ordini. Un morto... Hanno ucciso il dottor Ca… cacarbone».

    «Carbone il chirurgo?».

    «Sì, ccco… co... cccommissario, il chi… ccchi...».

    «Ho capito, Fumagalli. Chiami Selvaggio e gli dia l’indirizzo. Scendiamo subito. Avvisi la scientifica, e la giudiziaria, naturalmente. Consoli! Si scuota... dobbiamo andare».

    La Consoli si scompose appena. «Cos’è commissario?».

    «Il dottor Carbone. Lo conosceva? Pare lo abbiano assassinato.»

    Borgo di Salea (Albenga)

    Riviera ligure di Ponente

    19 giugno, ore 14:30

    Arrivando, Davide Gandini si stupì che il cancello d’ingresso dell’abitazione delle zie fosse aperto. Entrò con la sua auto, spingendo lo sguardo oltre il viale di cipressi che conduceva alla villa. Al di là dei cipressi c’era la soluzione sicura al suo problema. Oltre quei cipressi abitava Fulvio, il cugino a cui le zie da sempre si ostinavano a paragonarlo: Fulvio, l’uomo di successo, il chirurgo affermato. Ma prima di affrontarlo, voleva tentare: zia Esmeralda forse questa volta avrebbe capito; forse l’avrebbe finalmente perdonato e, se Dio voleva, aiutato.

    Esmeralda rimase sconcertata nel vederselo davanti. Certo non aspettava lui, quando, al suono del campanello, si era precipitata ad aprire senza chiedere chi fosse alla porta.

    «Sono Davide, zia. Non mi riconosci?».

    La donna lo osservò facendo un passo indietro, con un leggero sussulto. «Quanto sei cambiato!», disse poi, avvicinandosi e offrendogli la guancia. «Assomigli sempre di più a tua madre.»

    Davide immediatamente recepì il tono della critica. Già il fatto di ricordare fisicamente la madre lo rendeva un nipote di secondo grado. Poi c’era il resto: le sue scelte di vita, il confronto inevitabile con Fulvio. L’atteggiamento di Esmeralda lo infastidì al punto che il sorriso con cui si era presentato alla porta si irrigidì in una smorfia. Ma fu solo un momento, perché subito reagì impostando sul volto un secondo sorriso, forse un po’ meno convinto del primo, quasi di accomodamento.

    Nel frattempo si era avvicinata zia Clelia ad abbracciarlo, anche lei con una nota di rimprovero nella voce: «Non ti fai mai vedere»

    «Ho una famiglia, zia. Poi il ristorante», rispose Davide.

    «Stai sempre con quella cuoca?», gli domandò Esmeralda.

    Questa volta Davide si morse le labbra, per non risponderle. E ancora adottò quel sorriso faticoso che si era imposto e riprese il discorso. L’ansia cominciava ad assalirlo, rendendo nelle sue parole una sorta di affanno. «Sì. E ora c’è una novità».

    Esmeralda lo guardava fredda. Clelia, accanto al nipote, con sguardo interrogativo attendeva che lui continuasse. Poi, visto che non si decideva: «Aspettate finalmente un figlio vostro?», gli chiese.

    Davide trovò nella domanda, che di per sé gli pareva infelice, l’occasione che aspettava e ne approfittò. Ma la notizia che a venire al mondo sarebbe stato il bambino di Dolores, sua figlia ancora ragazzina, suscitò la reazione che temeva: Clelia ammutolì, mentre Esmeralda proruppe in uno sfogo di tutto il rancore accumulato. Gli rinfacciò tutte le scelte che aveva compiuto nella vita, ma a lui parve che lo accusasse quasi anche di essere nato. Improvvisamente la zia si interruppe. «E chi sarebbe il padre?», chiese.

    Davide trasse un respiro profondo, come per calmarsi. Sapeva bene perché Esmeralda volesse conoscere il nome del padre: se si fosse trattato di un nome di rilievo non ci sarebbero stati problemi. L’ansia che gli chiudeva la gola ora lasciava posto a un’ira sorda e le parole gli uscivano come spezzate. Disse che lui l’aveva appena conosciuto, che si trattava di un ragazzo. Ma non si sarebbero sposati, no. Il bambino lo avrebbero tenuto lui e Silvia, con Dolores.

    «Bravi.» Esmeralda diventava ironica.

    Davide continuò, ora con più coraggio, perché ormai non aveva più niente da perdere. Doveva almeno provarci. «Il problema è quello economico...», disse.

    «Ah! Ecco perché sei venuto. Lo immaginavo. Ma puoi anche tornartene a casa», gli rispose Esmeralda irrigidendosi.

    Davide ebbe bisogno di qualche istante per capire che zia Esmeralda gli aveva negato il suo aiuto. Sì: era proprio quello il motivo per cui era venuto. Lei non solo rifiutava di dargli una mano, ma voleva anche umiliarlo.

    Intanto Clelia cercava di mediare: «Zarri, l’amministratore, dice che la situazione economica non è buona. La borsa è scesa. Non è il momento, insomma», mentre Esmeralda incalzava: «Se tu avessi studiato medicina, come Fulvio, ora non saresti qui a...»

    Ecco: di nuovo il biasimo che si appuntava contro il suo interesse per la letteratura. Si sentiva quasi soffocare dall’ira. Ma si controllò. Riacquistò la lucidità e si chiese perché dovesse accettare ancora di sottostare alla presunzione arrogante di sua zia, che non era stata mai disposta a dare affetto a nessuno, capace di amare solo se stessa. Comunque prima o poi glieli avrebbe lasciati i soldi che ora gli negava.

    Erano trascorsi pochi minuti. Esmeralda e Clelia non l’avevano neppure fatto entrare nel soggiorno che si affacciava sul giardino, ma l’avevano tenuto lì, nella stanza piccola dell’ingresso. Sentì di odiarle. «Va bene! Me la caverò da solo. Come ho fatto finora, del resto», disse. «Voi avete vicino il nipote prediletto; di me non sapete cosa farvene».

    Se ne andò senza permettere alle zie il tempo di una risposta.

    Ancora sulla soglia si trovò di fronte un individuo che riconobbe a stento. Il volto atteggiato a un sorriso di circostanza, l’abito incolore come il viso, teneva in mano una scatola di cioccolatini. Davide lo scontrò nella fretta di allontanarsi, ma non pensò a scusarsi. L’altro parve neppure averlo visto, né aver avvertito il contatto.

    Davide uscì nel giardino, cercando di calmarsi. Lo aveva previsto, in fondo, di trovare Esmeralda ostile. Ma ora, a tormentarlo, la collera si univa allo sdegno e all’ansia di trovare quei soldi maledetti che gli servivano assolutamente. La pagherai, pensava. Dovrai soffrire anche tu, che ignori i dolori degli altri. E quella storia sulla situazione economica che non era buona non poteva essere altro che una scusa. A meno che anche le rendite di sua zia non cominciassero ad avvertire gli effetti della crisi. Del resto non era importante per lui sapere per quale motivo Esmeralda gli negava il suo aiuto: quello che doveva fare ora era di sfruttare l’ira che il rifiuto aveva scatenato. Gli serviva quell’ira per affrontare la seconda parte del piano. Attraversò il viale: al di là dei cipressi c’era l’abitazione di suo cugino Fulvio, il nipote perfetto. Se lo avesse trovato, sarebbe stato un segno del destino: le indicazioni della sorte gli garantivano sicurezza. Ma se Fulvio non fosse stato in casa, allora avrebbe dovuto ripensare tutto.

    Si guardò attorno, cercando un varco tra i cipressi e le siepi che dividevano i viali d’entrata delle due abitazioni. Alcune siepi erano così folte da costituire una cinta naturale. Ma c’era un’apertura, proprio vicino alla casa, un passaggio comodo per arrivare all’ingresso della villa di Fulvio. Fu attraverso quel sentiero che Davide si introdusse nella proprietà di suo cugino, il chirurgo Fulvio Carbone.

    Il giardino appariva deserto, la Mercedes Cabrio parcheggiata davanti alla scala che saliva alla terrazza. Davide provò la porta del pianterreno che dava accesso allo studio. Chiusa. Significava che non c’erano pazienti. Fulvio doveva essere di sopra.

    Quindi si volse a guardare il viale che conduceva alla villa: nessuno a percorrerlo. In distanza il mare baluginava nei riflessi argentei di un bagliore senza confini nel quale si confondeva col cielo. La campagna intorno e il borgo di Salea, come vinti dal calore dell’ora, erano immersi in un silenzio immobile. Sotto il rilievo della collina la piana beveva la luce. Poi il canto di una cicala lo distolse: non era un richiamo, ma solo una voce. Non era per lui. Due rampe della scala lo condussero al piano superiore e alla terrazza. Tentò la porta. Era aperta.

    Capitolo 2

    15 giorni prima e i giorni successivi fino al 19 giugno

    Sestri Levante

    Riviera ligure di Levante

    Seduto al tavolo del computer, aperto il file, Davide Gandini fissava la pagina bianca che avrebbe dovuto segnare l’inizio del suo romanzo. Non gli riusciva proprio di cominciare quella storia, anche se l’aveva in testa. Magari difettava un po’ nei particolari, ma nell’insieme la vicenda c’era. Sarebbe stato un romanzo a sfondo storico: protagonista del primo capitolo un araldo dell’esercito di Alessandro Magno, fedele al sovrano e pronto al sacrificio. L’esercito stava per raggiungere l’Indo, quando l’araldo consegnava un messaggio al suo re. Alessandro fermava la marcia. L’idea piaceva a Davide, ma non sapeva trovare un motivo di questo arresto: tutta la vicenda aveva il suo fulcro nella ricerca delle cause che avevano determinato la scelta del re e lui doveva inventare un contenuto per quel messaggio, un impedimento, un ostacolo creato da qualcuno per impedire che il mondo si aprisse al più grande conquistatore della storia. Era necessario attribuire una causa al pianto di Alessandro dall’occhio azzurro come il cielo e da quello nero come la morte.

    «Papà, ho una cosa da dirti. Puoi ascoltarmi?» Sua figlia Dolores era entrata nella stanza.

    «Cinque minuti. Fammi scrivere almeno due righe: non riesco a iniziare questa storia. Aspetta solo cinque minuti, Dolores.»

    La guardò, allontanando gli occhi dallo schermo del computer. Il viso di sua figlia ogni volta lo incantava.

    «È sempre così, papà. Da un anno sei su questo romanzo. E ti manca il tempo per tutto. Ma ora devo parlarti sul serio. Si tratta di un problema grave.» Poi, di getto, come avesse dovuto assecondare quelle nausee che già da qualche giorno la tormentavano, gli vomitò addosso la notizia. «Sono incinta.»

    Davide non ricordava più il nome dell’araldo. «Ah. Incinta. Dimmi un nome per un araldo. Hai detto incinta? Bel modo per attirare la mia attenzione. Ci sei riuscita. Dai, mi fermo. Allora qual è il problema?».

    Di nuovo alzò lo sguardo verso di lei. Si era fatta bella. I lineamenti del suo volto tradivano l’origine india e la rendevano più interessante.

    «Il problema è proprio questo. Come te lo devo dire?» E abbassò gli occhi a guardarsi il piccolo ventre.

    Aveva diciassette anni Dolores, solo diciassette anni. Nella sua ingenuità poteva forse essere convinta di essere incinta. Ma allora doveva essere successo qualcosa. Glielo chiese.

    «Chiaro che ho avuto dei rapporti», rispose lei. «Comunque ho fatto il test.»

    Davide si domandò se fosse questo il modo con cui una figlia confidava al padre di aver concepito una creatura. Oddio: non era pronto ad affrontare la situazione. Non aveva mai pensato che potesse accadere; e poi lei era una bambina. Ora ci sarebbero state delle cose da fare, ma lui non sapeva quali. Forse doveva arrabbiarsi. No, non era collera quella che sentiva, ma stupore; no, di più, ansia; di più ancora, angoscia. «Dolores, e ora cosa facciamo?» le chiese. Ma subito si pentì di averlo detto, perché vide che lei quasi si spazientiva. Come se i padri, e per di più adottivi, sapessero sempre come reagire quando le figlie, senza un preavviso, smettevano di essere bambine e non solo proclamavano di essere donne, ma addirittura gridavano di essere incinte. «Dolores, maledizione, chi è stato?» Anche quest’espressione non era del tutto opportuna. Era difficile però controllare le parole ora che allo stupore, all’ansia, all’angoscia, si aggiungevano la gelosia e il possesso. Un uomo aveva violato la sua bambina. Non lo sfiorava il pensiero che lei potesse essere stata consenziente.

    Finalmente lei rispose: «Un ragazzo che lavorava in un cantiere... L’ho conosciuto quando sono stata dalla mia amica...».

    «Un muratore?».

    «No. Ha una impresa di carpenteria.»

    Avrebbe voluto dire qualcosa di leggero, per sdrammatizzare, ma gli venivano solo battute sarcastiche a sfogare quella morsa che gli stringeva lo stomaco. Invece doveva tenere a freno le sue reazioni, di qualunque tono fossero: non c’era spazio per considerazioni inutili che servivano solo ad inasprire il discorso. Si stupiva anche che ora si rivelasse lei quella matura, padrona della situazione, e lui l’inesperto. La guardava con l’espressione - se la sentiva sul volto – di chi aspetta un suggerimento, una via da seguire.

    «La mamma come ha reagito?» le chiese allora. Divagava per eludere la questione che non voleva affrontare. Dolores era la sua bambina. Che, insieme al fratello Juanito, fosse stata adottata non faceva differenza: era stata sua figlia dal momento in cui l’aveva vista attraversare a piedi nudi la sala di ricevimento dell’orfanotrofio per avvicinarsi a lui. Gli si era aggrappata alle gambe e non si era staccata finché non l’aveva presa in braccio.

    «Alla mamma non l’ho detto ancora. Vorrei farlo con te.»

    «Così dividiamo il peso della responsabilità, se le viene un infarto.»

    Ecco. Riusciva ad essere ironico: voleva dire che cominciava a vivere la situazione con distacco. L’angoscia era superata, l’ansia si placava, lo stupore era vinto. Allora fu finalmente in grado di chiedere quali intenzioni avesse il ragazzo.

    «Non se la sente di affrontare la paternità» rispose Dolores. «Però teme la reazione dei suoi. Comunque io il bambino lo tengo.»

    Sua figlia aveva le idee chiare: manifestava una fermezza che lo rassicurava. Ora si trattava di parlarne a Silvia. «Allora ci andiamo insieme in cucina?» le chiese.

    «È meglio aspettare che la mamma finisca di preparare. Anzi, è ora di scendere per il servizio in sala: oggi ci sono parecchie prenotazioni.»

    Dolores finalmente sorrideva e lui la strinse a sé. Ecco, un padre doveva comportarsi così: trasmettere sicurezza, dare appoggio. Ma lui vacillava. Il coraggio glielo dava lei.

    Scesero insieme nella trattoria allestita da Silvia al piano terreno della casa che aveva ricevuta in eredità dai suoi genitori. Una terrazza affacciata sul mare: in estate un paradiso per i turisti, per la vista sul golfo di Sestri Levante, il pergolato di vite vergine, lo stile familiare dell’ospitalità, e la delicatezza delle proposte del menu, come vantava il sito web. In inverno, invece, o nelle giornate più fresche, la sala ristorante era un doppio soggiorno con copertura a volte. Silvia aveva voluto dipingerlo di bianco, come aveva fatto con i tavoli che poi ricopriva con tovaglie in tinta.

    «Abbiamo un matrimonio?», le chiedeva Davide ogni volta che entrava in quella sala.

    Silvia cucinava: con una passione e una fantasia talmente creative che lui gliele invidiava. Dai piatti liguri tradizionali, come le lasagne alla Portofino, a elaborazioni più personali, nelle quali associava i prodotti del pescato locale alle verdure di stagione, dai calamari con carciofi e pinoli, alla pescatrice con fave e pomodorini, alla frittura di acciughe con bastoncini di zucchine e melanzane. «Vorrei avere anch’io un’ispirazione così feconda», le diceva.

    Silvia lo consolava: «In cucina è facile», diceva. «La materia commestibile è più duttile e produttiva delle parole». Ma lui non ne era convinto.

    Juanito entrava e usciva dalla cucina, portando ad ogni passaggio qualcosa tra le mani. Stava apparecchiando i tavoli. Si muoveva veloce, agile e scattante.

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