Sulla blasfemia: De spiritu blasphemie
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Con un racconto inedito di Ivano Porpora
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Anteprima del libro
Sulla blasfemia - Riccardo di San Vittore
Porpora
Breve storia dell'offesa
Ignoriamo, forse, quanti sono stati esiliati e proscritti
per aver pronunciato una parola imprudente, o scritto cose
empie e profane, e che molti tra loro non hanno saputo
trarre insegnamento neanche dalla loro sventura?
J. Dinouart, L’arte di tacere
1. Vizio di parola, virtú di concetto
Il diritto di parola nasconde un diritto di offesa. Eppure, nella società contemporanea, nella mischia di personaggi e ruoli, alcune parole non devono essere dette né sussurrate. Maldicenza e ingiuria verbale non sono però rischi per la parabola mentale, per il concetto o per la parola detta in coscienza. Costituiscono, invece, materiale per trascinare chi le pronuncia davanti a un tribunale. Ne scaturiscono inibizioni e divieti, impugnabili davanti a un giudice meno severo di quello divino e capaci di un ordine collettivo fragilissimo.
Quando pubblico e privato si fondevano in atti estremi e inquisitori, la parola ancorata, richiamata al giudizio, resa pubblica per ammissione (o sfinimento), misurava la tolleranza dell’orecchio. La sua capacità era così la misura del dire legittimato. Chi preferiva ascoltare evitava di dire. La rottura di questo silenzio, di lega recentissima, assicura certe abilità e destrezze ma non libera dal concetto. Che ne resta del dire e del pensare saldamente coesi?
Traducibile nella più generica professione di empietà (lat. impietas; gr. ¢σέβεια), la blasfemia è una circostanza specifica e appartenente alla nozione di odium dei come forma di ribellione contro Dio. Nella determinazione verbale o linguistica, l’odium dei raccoglie l’imprecatio, la maledictio[1] o, appunto, la blasfemia (lat. blasphemia, gr. βλασφημειν), tutte espressioni di vituperio e infamia che affrontano il concetto di Dio: il maledicere Deo è il parlarne in modo empio (impie loqui) per il quale, a seconda degli statuti giuridici e dell’organizzazione politica, sono previste pene severissime. In Lev 24, 11-16, a colui che bestemmia il nome di Dio spetta la pena di morte per lapidazione. Nel lessico giuridico, la radice del termine rinvia al falsare, al dichiarare il falso, come a proposito di un giudizio (blasphemare iudicium): negli stessi termini, e soprattutto dalla fine del XII secolo, il termine ha connotato la falsa dichiarazione a proposito del divino, risultando parametro di scandalo e condanna. Tra i primi a sollevare il problema, sono proprio i maestri della parola, i predicatori, che dovevano mettere in guardia da abusi linguistici come esecutori materiali del messaggio evangelico e, al tempo stesso, infallibili osservatori e giudici del comportamento dei fedeli.
In ambito agostiniano,[2] la parola assunse la valenza di menzogna come insimulatio, quando cioè il bene viene erroneamente tradotto in male. Allo stesso modo, affermare il falso riguardo a Dio[3] significava, già con Agostino, aprire la strada del rifiuto degli attributi divini, poiché l’affermazione mendace poteva spaziare dalla negazione dell’esistenza a quella della potenza. Ma in questi termini, l’insulto rivolto a Dio, riassunto nelle parole più tarde di Aimone d’Auxerre,[4] restava soltanto una manifestazione verbale ed enunciativa di un’avversione che avrebbe potuto, invece, mirare alla sostanza e scaturire dalla constatazione di una differenza di grado tra creatore e creatura.
Tra la seconda metà del XII secolo e la prima del XIII l’interesse rivolto a uno specifico e perturbante ‛peccato di lingua’ esplose con una produzione smisurata di opere che ponevano al centro degli interessi dei loro autori l’errore derivante dall’uso della parola: maldicenza, spergiurio, turpiloquio, taciturnitas, adulazione, erano soltanto alcune delle declinazioni osservate e discusse per tracciare il profilo del perfetto credente. Una trattatistica con ogni probabilità incentivata dall’euforia delle dispute universitarie e bisognosa di un normario che potesse sancire regole e limitazioni.
Che questi interessi si siano intensificati in modo particolare tra la fine del XII secolo e la prima metà del XIII non significa certamente che le molte annotazioni prescrittive, già rintracciate nella trattatistica di inizio millennio (prima ancora del De spiritu blasphemie di Riccardo, il De vitio linguae di Pier Damiani), non conservassero più alcun valore teorico, ma che, al contrario, il dicere de deo, sottratto alla spontaneità espressiva, costituirà un avamposto ammonitivo per direzionare e redarguire secondo definizioni, classificazioni, genealogie: nelle prime liste di peccati capitali comparivano infatti la menzogna, la bestemmia, la detrazione, la falsa testimonianza come peccati di lingua.[5] Anche nel De peccato linguae di Guglielmo Peraldo o nel De lingua di autore anonimo, alla bestemmia veniva riservato il primo posto tra i peccati che offendono direttamente Dio.
Tommaso d’Aquino nel De malo (q. 12, a. 4) passò in rassegna le diverse declinazioni dell’ira in rapporto alla più generica definizione di odio: a distinguere le due tipologie di comportamento resterebbe il fatto