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La Calandria: Commedia e festa nel Rinascimento
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Ebook531 pages7 hours

La Calandria: Commedia e festa nel Rinascimento

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“La Calandria” di Bernardo Dovizi da Bibbiena fu rappresentata per la prima volta a Urbino il 6 febbraio 1513. Tutto contribuisce a fare di questo evento un archetipo di teatro, nei valori globali che il teatro assume nella civiltà del Rinascimento. Tutto sullo sfondo della corte di Urbino, crocevia tra la cultura lombardo-padana e quella toscano-romana.
LanguageItaliano
PublisherCue Press
Release dateJul 19, 2015
ISBN9788898442683
La Calandria: Commedia e festa nel Rinascimento

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    Book preview

    La Calandria - Franco Ruffini

    LA CALANDRIA

    © 2015 Cue Press

    via Aspromonte 16a, 40026 Imola, Italia, cuepress.com

    ISBN 978-88-98442-68-3

    Direzione

    Mattia Visani

    Copertina

    Marco Dente

    Nascita di Venere

    © 1986

    il Mulino

    Più che la nuova edizione d’un vecchio libro, questo è un libro nuovo. Lo dedico a Fabrizio Cruciani. Ringrazio per primi Ludovico Zorzi ed Eugenio Barba. So che non se ne avranno a male per essere passati da dedicatari a creditori, sia pure primi nella lista. Senza la spietata perspicacia di Ferdinando Taviani non avrei potuto ripensare – e riscrivere – il libro dopo averlo scritto. Claudio Meldolesi e Nicola Savarese sono stati interlocutori continui. Arnaldo Bruschi e Rocco Sinisgalli mi hanno aiutato a chiarire alcuni problemi di architettura teatrale. Vittorio Casale mi ha facilitato l’accesso, non solo in senso fisico, alla Stufetta. Preziosi i consigli di Giovanna Sapori, Bruno Toscano e Anna Ottani Cavina. Elvira Garbero Zorzi mi ha fornito il suo generoso sostegno nel campo della scenografia; a Daniele Seragnoli devo alcune importanti segnalazioni bibliografiche; Clelia Falletti ha dedicato al volume ben più che una semplice cura redazionale. Aggiungo un particolare grazie a Mattia Visani per aver riportato in vita con forcipe digitale il mio vecchio libro.

    Indice

    Pazienza, è la verità

    Spettacolo, rappresentazione, festa

    «Historie» e immagini: la Stufetta del cardinal Bibbiena

    Preliminari

    L’amore in conflitto: il progetto

    L’amore in conflitto: la realizzazione

    Livelli di cultura e lavoro ermeneutico

    L’amore in teoria

    Tra parentesi

    Il teatro della Stufetta

    Quadri, segreti e prospettive della Calandria

    Promemoria

    Quadri dalla commedia

    Il quadro della commedia

    Eziologia della commedia: il problema Plauto

    La difesa della commedia: il plagio da Plauto

    Sulla commedia: anomalie di Calandro

    Dietro la commedia: identikit di Calandro

    Il paradosso di Calandro

    Dentro la commedia: il cardinal Bibbiena e Socrate

    Tra parentesi

    Dopo la Calandria: prospettive sulla commedia nel Cinquecento

    La prima rappresentazione della Calandria: il luogo teatrale

    La sala-città

    Gli ornamenti

    Il palco

    Il pubblico

    Verso la scena

    La prima rappresentazione della Calandria: gli intermezzi

    L’eco e il suono

    L’eco

    Il suono

    Giunone punita

    La discordia degli elementi

    Il fuoco di Venere

    Il suono e l’eco

    Ermafrodito e merdafiorito

    La prima rappresentazione della Calandria: la scena

    Scena nella festa e scena della festa

    Il teatro da guardare

    La città eterna

    Il presente nell’antico

    L’antico nel presente

    Il teatro in scena

    La città in scena

    Verità e validità

    Congedo: lo sguardo del Bibbiena

    Appendice

    Documenti

    Schede

    Immagini

    Indice dei nomi

    Note

    Pazienza, è la verità

    In un tempo in cui sono in molti a credere che basti un piccolo cambiamento – qualche ruga e qualche chilo in meno, qualche capello in più, convenientemente corvino – per far rinascere la giovinezza, si può ben dire che l’edizione Cue Press della Calandria, più che una nuova edizione, è una vera e propria rinascita dell’originale su pagina. Il cambiamento è tutt’altro che piccolo. È cambiato il supporto, da cartaceo a digitale. Sono cambiati il titolo e l’immagine di copertina. Soprattutto, è cambiato l’autore.

    Si chiama sempre Franco Ruffini. Ma nel 1986 – quasi trent’anni fa! – era un professore relativamente giovane che guardava con ansia al futuro. Oggi è un professore in pensione, che può concedersi il lusso di guardare al passato. Con piacere, sincerità, e senza indulgenza. C’è più di quanto Borges chiedesse ai Chisciotte di Cervantes e del suo Pierre Menard, scritti con le stesse parole ma da due autori e in tempi diversi, per essere considerati a tutti gli effetti opere diverse. Nel caso della Calandria, sono rimasti immutati sia le parole del libro sia il nome di chi le ha scritte. Ma è passato il tempo. Il tempo è cambiato, il tempo ha cambiato. Ci sono due Calandria, la vecchia e la nuova. Quella che segue è l’Introduzione alla nuova Calandria. La vecchia Calandria era dedicata a Ludovico Zorzi e ad Eugenio Barba. La nuova Calandria è dedicata a Fabrizio Cruciani.

    Al di là dell’ammirazione professionale e umana per le due persone, che rimane inalterata, all’epoca Zorzi e Barba erano anche, se non soprattutto, i miei garanti per il futuro. Zorzi aveva apprezzato pubblicamente il mio primo contributo sulla Calandria urbinate del 1513, uscito nel 1976. In sindrome da carriera – è questo il futuro, per i professori relativamente giovani – la dedica a lui era anche un monito ai colleghi di prima fascia potenziali membri in una commissione di concorso. Oggi lo confesso con sincerità, senza indulgenza. Laddove Zorzi garantiva per la mia figura di studioso, Barba garantiva per la mia figura di militante. Nel riferimento Odin, militare non è militare per. È militare con: sapere della scena e sapere dei libri, l’uno al servizio dell’altro, insieme: come le due gambe d’un unico corpo. Tutt’altra cosa rispetto ad essere un semplice fan o fiancheggiatore.

    Zorzi, Barba. E Fabrizio Cruciani? Fabrizio era semplicemente il mio maestro. L’Introduzione alla nuova Calandria si propone di rileggerne le parole restate identiche per portare alla luce l’insegnamento del maestro.

    Fabrizio se n’avrebbe a male a sentirmi pronunciare la parola ‘insegnamento’. Diceva spesso – credo citando da qualcuno, non so chi – che insegnare è impossibile, si può solo imparare. La pedagogia è un problema dell’allievo, diceva. Compito del maestro può essere solo quello di obbligare l’allievo a imparare. Come? E, prima ancora, cos’è un maestro?

    Innanzitutto, il maestro non è colui che di per sé ha sempre ragione: è colui che ha sempre ragione perché l’allievo gli dà sempre ragione, soprattutto quando gli sembri d’essere lui dalla parte della ragione. È l’allievo che fa il maestro. Ne discende un corollario fondamentale. Tanto è legittima, e persino auspicabile, la cautela nello scegliere un maestro, altrettanto la propensione a cambiarlo dev’essere guardata quasi come un interdetto. Nella scelta del maestro, il metodo ‘per tentativi ed errori’ è più che una contraddizione in termini. L’offesa alla logica ne mette allo scoperto il risvolto etico. La logica è astratta, dunque è spietata. Parla dell’universo, dunque parla di ognuno di noi, e non guarda in faccia nessuno. Riconoscere che il maestro non ha avuto sempre ragione – e che per questo è bene cambiarlo – equivale a riconoscere che non si è stati capaci di dargli sempre ragione. Non si è stati capaci di avere un maestro, e forse non se n’è capaci tout court. In definitiva, non si ha un vero desiderio di imparare.

    Assorbire nozioni ed eseguire ordini – gli ordini sono solo nozioni in forma imperativa – è un conto. Basta un buon professore per farlo, e si può essere persino autodidatti. Altra cosa è imparare. Imparare significa convertire nozioni e ordini, da risposte trovate da altri, in domande rivolte a noi stessi. È un lavoro duro, crudele: le risposte acquietano le domande inquietano. Non lo si fa se non c’è qualcuno che ci obbliga a farlo.

    Naturalmente, a parlare così è l’autore della nuova Calandria. L’autore della vecchia Calandria non aveva una coscienza altrettanto chiara della questione. Però, una cosa sapeva con certezza: Fabrizio Cruciani era il suo maestro. Con il corollario che ne segue.

    Il primo ordine di Fabrizio fu che mi occupassi della Calandria, testo e scena. In questo caso, non ebbi difficoltà a dargli ragione. Fino ad allora mi ero occupato quasi esclusivamente di semiologia dello spettacolo. Era urgente consolidare il mio curriculum con qualche titolo di carattere storico. Niente di meglio del Rinascimento, età d’oro per il teatro, e nel Rinascimento, niente di meglio della Calandria, commedia che, a detta di Fabrizio, tanto era famosa quanto poco e mal conosciuta.

    Nell’accettare l’ordine, mi confortava il fatto che la Calandria fosse l’unico testo scritto dal Bibbiena, non avrei dovuto fare i conti con una ponderosa opera omnia. Dovette leggermi nel retropensiero. Precisò che, in realtà, c’era un altro testo del Bibbiena, e cioè il programma iconologico per il suo studiolo al Vaticano, la famosa Stufetta. Le parole del testo, indirizzate a Raffaello, erano andate perdute ma esistevano ancora – sulle pareti e in disegni preparatori – i dipinti che le avevano tradotte in immagine. Aggiunse che nel Rinascimento una commedia non è poi molto diversa da un programma iconologico. Gli detti ragione, era il mio maestro, ma stavolta non potei evitare la domanda: perché? Come può un programma iconologico essere confrontato con una commedia, per di più senza disporre di parole ma solo di immagini? La domanda, naturalmente, non la rivolsi a lui. Mi misi al lavoro.

    Quanto alla commedia, ne leggevo e rileggevo il testo, senza riuscire a trovarvi niente d’altro o di più di quanto vi avessi trovato a prima occhiata. Una commedia sboccacciata, nelle situazioni e nel linguaggio, una vera festa dei sensi, con al centro – un po’ inopinatamente – un povero scemo di nome Calandro, oggetto di beffe anch’esse a sfondo sessuale. Quanto alla Stufetta, a dar prova del mio impegno, basti dire che, mobilitando conoscenze e raccomandazioni d’ogni tipo, riuscii addirittura a forzare le porte del Vaticano per un proibitissimo sopralluogo di persona. Che non mi rivelò niente più di quanto già non avessero fatto le immagini contenute negli studi sull’argomento degli storici dell’arte.

    La Stufetta è una piccolissima stanza a pianta quadrata. Più che uno studiolo, era un calidarium, una specie di sauna per rilassarsi dalle fatiche cardinalizie. Sulle pareti, otto dipinti, due per parete. In quello che chiaramente fissa il tema del ciclo, si vede Venere nuda, in piedi sopra una conchiglia, che sorge dalle acque. Le nuotano accanto due pesci. In alto, tra le nuvole, due divinità maschili: una con il fallo in evidenza, e l’altra con un minaccioso falcetto in mano. È la raffigurazione del mito in cui si racconta che Saturno castrò il padre Urano, lasciandone cadere i genitali in mare. Le acque fecondate generarono Venere. Più precisamente: Venere Urania, distinta da Venere Pandemia, nata per normale accoppiamento tra Giove e Dione.

    I dipinti che fanno da contorno all’immagine principale rimandano tutti a miti ben conosciuti. Ma, a parte i riferimenti eruditi e il protagonismo di divinità in luogo di comuni mortali, il ciclo della Stufetta si imponeva allo sguardo per la presenza di giovani donne discinte dalle forme procaci: in assoluta ed evidente consonanza con il clima godereccio della commedia. Il Bibbiena poteva ben essere accreditato come l’autore di quei due ‘testi’. Missione compiuta.

    Invece no. Nella scena della ricerca, che ritenevo ormai al riparo da qualsiasi turbamento, fece irruzione il ‘fascio di spighe’. La divinità che sta per essere evirata – Urano, secondo il mito – tiene in mano un fascio che nelle illustrazioni edite non si vede bene da cosa sia composto. Né potevo fare appello alla mia visita sul posto. Era stata velocissima, supercontrollata, i dipinti non sono in perfetto stato di conservazione, ma soprattutto non avevo posto nessuna attenzione a quel dettaglio che m’appariva, e continuava ad apparirmi, del tutto inessenziale. A me, non a Fabrizio. Sentenziò che si doveva controllare sull’originale del disegno preparatorio, di Marco Dente. Tentai una debole resistenza – che importanza poteva avere l’identità di quel fascio? – ma senza nessuna speranza che servisse a qualcosa.

    Col prezioso reperto in mano, alla Vaticana, potei verificare che il fascio incriminato era incontestabilmente composto da spighe di grano. Una catastrofe! Il fascio di spighe di grano è l’attributo identitario di Saturno, dio delle messi e patrono dell’agricoltura. Quello che credevo essere il castratore, era niente meno che il castrato. Non si trattava di una svista del Bibbiena o del traduttore in immagini del programma iconologico. Semplicemente, come risultò da un approfondimento della mitologia sul tema, esiste una variante del mito, in cui a fecondare le acque da cui nascerà Venere non sono i genitali di Urano castrato da Saturno, ma quelli di Saturno castrato da Giove. Provai a tirare un respiro di sollievo: il Bibbiena, notorio buontempone amante delle facezie, aveva sostituito la più nota Venere Urania con la meno nota Venere Saturnia, quale esempio ammonitorio che ‘chi la fa l’aspetti’. Tutto qui.

    Ma che l’allarme non fosse rientrato, non servì neanche una sentenza del maestro a farmene certo. Ormai la domanda del fascio di spighe di grano, dell’intrusione di Saturno al posto di Urano, quella domanda era diventata una mia domanda. Avevo cominciato ad imparare. La faccio breve, il lettore digitale potrà trovare tutti i dettagli sul display della Calandria rinata. Nelle formulazioni dell’amor platonico, riferimento d’obbligo per la mitologia di Venere, ci sono tre Veneri, delegate ognuna a rappresentare un livello dell’amore: la Pandemia, tutrice dell’amor ferinus, che impegna solo la sfera dei sensi; la Saturnia, tutrice dell’amor humanus, che coinvolge anche la sfera della ragione; e infine l’Urania, tutrice dell’amor divinus, che nell’intelletto trascende sensi e ragione. Il Bibbiena non poteva non saperlo, l’amor platonico era pane quotidiano nella sua cerchia culturale.

    Il ciclo della Stufetta era dedicato a Venere Saturnia, narrava dell’amor humanus: di quanto sia facile farlo sprofondare al livello ‘ferino’, e di quanto sia difficile invece farlo ascendere al livello ‘divino’. Gli altri dipinti si lasciarono interpretare agevolmente in questa prospettiva. Altro che buontempone in vena di scherzi! Se pure uno scherzo il Bibbiena l’aveva fatto, era agli esegeti futuri, i sodali contemporanei non avrebbero di certo abboccato. Fabrizio aveva ragione. Ovvero, avevo avuto ragione a dargli ragione: il programma iconologico della Stufetta era un vero testo. Chiuso nel suo studiolo, il Bibbiena lo leggeva non per eccitare i sensi, né per mettersi in comunicazione col divino ma, al contrario, per meditare sulla debolezza dell’uomo che, se pure è capace d’amore, lo è solo al suo livello umano.

    Il bello delle vere domande, quelle che inquietano, è che appena trovano risposta generano altre domande. È proprio vero che ‘non si finisce mai d’imparare’: se finisce, non era imparare. A questo punto, cosa c’entrava col testo della Stufetta il testo della Calandria? Al livello dell’amor ferinus, i due testi si somigliavano. Ma cosa c’entravano con l’amor humanus i pruriti di Lidio e Santilla, di Fulvia e soprattutto di quell’erede del Calandrino boccaccesco che già nel nome si presenta come il grullo per antonomasia? La domanda s’era spostata dal Saturno della Stufetta al Calandro della commedia. Dietro la scena grottesca d’un’incombente castrazione, con tanto d’attributi a rischio in bella mostra, Saturno s’era rivelato l’emblema solenne del conflitto tra sensi e intelletto. Tra il richiamo della carne e l’aspirazione al divino, nella disperata mediazione della ragione. Anche la beffa a Calandro - al quale, dopo averla eccitata, s’impedisce di soddisfare la foia animalesca – è a suo modo una castrazione. Incruenta, temporanea, ma non meno crudele. Ma dietro la beffa, chi è Calandro?

    A suggerirmi la risposta fu l’edizione Zoppino, 1530, della commedia. Nel frontespizio è raffigurata una scena di caccia. Cacciatore con cavallo al seguito e cani al guinzaglio, e in alto due uccelli: un rapace che insegue una ‘calandra’, com’è scritto sotto il secondo volatile. Un’immagine che non trova alcun riscontro, per quanto remoto, nella commedia. Salvo per quella inequivocabile scritta ‘calandra’. L’edizione era prestigiosa, la commedia già quasi un classico. Quell’incongrua scena di caccia, e però integrata con non più d’un ammicco come si fa tra intenditori, all’interno della commedia, doveva essere di immediata lettura. Dalla simbologia olimpica la ricerca fu obbligata a spostarsi alla simbologia zoologica. Cioè ai ‘bestiari’ – diffusissimi dal medioevo in poi – che rappresentano un’allegoria del mondo in chiave animale. La calandra non è un semplice uccello tra gli infiniti altri: insieme al nibbio, o altro rapace equivalente, ne è l’architrave. Rappresentano rispettivamente – calandra e nibbio – la virtù, fino alla suprema incarnazione in Cristo, e il vizio fino alla suprema incarnazione nel demonio. In un tale universo, incardinato sulla lotta tra bene e male, l’uomo è il terreno dello scontro. Come l’amor humanus tra amor ferinus e amor divinus: come la Venere Saturnia tra Pandemia ed Urania. Né più né meno.

    E finalmente, come il Calandro protagonista della commedia: tra il bestiale Calandrino del Boccaccio e la divina calandra dei bestiari. In mezzo alle frenesie viziose di servi e padroni e agli appelli alla virtù del precettore Polinico, in segreto la commedia racconta la storia di un povero cristo come, al di là della battuta, è ogni essere umano. Un poveraccio, ma a immagine e con la nostalgia di Cristo: che, prima di trionfare al terzo giorno, ha patito ed è stato sbeffeggiato come un poveraccio. Anche Calandro porta la croce, come mostra il frontespizio dell’editio princeps del 1521. È piegato sotto il peso della cassa che racchiude l’«orrida scanfarda» con la quale si vuole castrare la sua fame d’amore. Fa ridere e fa pena. È il segno grafico d’un episodio della commedia e, allo stesso tempo, ne rovescia il segno.

    La commedia c’entrava, eccome, con il ciclo della Stufetta. Calandro c’entrava, eccome, con Saturno. I due testi si specchiavano addirittura l’uno sull’altro.

    Poi arriva il momento in cui l’allievo ha imparato a imparare. Da quel momento lui e il maestro possono giocare a scambiarsi l’un l’altro le domande-risposte nate dal buon lavoro in comune, ognuno nel proprio ruolo. Se dico che lo faccio ancor oggi che Fabrizio non è più con noi vivi – e non solo sul Rinascimento e nemmeno solo sul teatro – lo so che sembrerà retorica. Pazienza, è la verità.

    Spettacolo, rappresentazione, festa

    Il 6 febbraio 1513, durante i festeggiamenti per il carnevale, a Urbino, viene posta in scena per la prima volta la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena. Organizzatore dell’apparato e ideatore degli intermezzi fu Baldassar Castiglione, la scena è accreditata a Girolamo Genga.

    Questo libro si occupa, appunto, della Calandria e della sua prima rappresentazione. Sull’evento siamo relativamente ben documentati. Non ci sono disegni relativi alla scena genghiana, ma abbiamo una lettera di Baldassar Castiglione al Conte Ludovico di Canossa, in cui l’apparato complessivo e gli intermezzi della Calandria sono minuziosamente descritti. Esiste inoltre una relazione anonima (Ms. Vat. Urb. Lat. 490), attribuita recentemente a Urbano Urbani segretario di Francesco Maria I della Rovere duca di Urbino, che si sofferma anche sull’Eutichia e sulla commedia sconosciuta di Guidobaldo Rugiero «alhora di anni quatordici» (messe in scena insieme alla Calandria) e su uno dei loro intermezzi. La collazione tra la lettera del Castiglione e il Ms. 490 sarà uno degli strumenti più usati nella nostra indagine sulla rappresentazione urbinate. Praticamente uguale al Ms. 490, un frammento della Vita di Francesco Maria della Rovere, anonimo (Ms. Vat. Urb. Lat. 1037). La lettera del Castiglione e il Ms. 490 sono riportati integralmente in appendice; il Ms. 1037 verrà richiamato solo ove necessario (1).

    Documenti primari del nostro oggetto di ricerca devono essere considerati, ovviamente, anche il testo della Calandria e il Palazzo Ducale di Urbino, nel quale venne realizzato il luogo teatrale.

    Documenti indiretti a vario titolo, come la bibliografia relativa all’argomento e le opere dei protagonisti atte a fornire informazioni sulla festa urbinate (e si pensi solo, esemplarmente, al Cortegiano), verranno chiamati in causa di volta in volta.

    Lo spettacolo urbinate è analizzabile in componenti: la sala, la commedia, gli intermezzi, la scena. A ognuna di queste è dedicato un capitolo del libro.

    Abbiamo parlato, intenzionalmente, di rappresentazione, festa e spettacolo urbinate. Ma spettacolo rappresentazione e festa sono dei sinonimi stretti, intercambiabili tra loro, oppure esiste una differenza significativa? E, in questo caso, la differenza è tale da incidere sull’impostazione e sui risultati dell’indagine?

    L’«evento» urbinate è, come tutti gli eventi di teatro del Rinascimento, un fatto unitario. Ed è in rapporto alla nozione di unità che si evidenzia lo scarto tra spettacolo rappresentazione e festa. Precisiamo che qui unità esprime un dato fenomenologico e non una qualifica: l’aggettivo derivato dovrebbe essere unito, più che unitario. Ciò premesso, si può dire che esiste un’unità more chemiae: tale cioè che in essa si dissolvono l’identità e l’autonomia delle singole componenti, come per l’idrogeno e l’ossigeno quando si siano combinati a formare l’acqua; e c’è un’unità more physicae: tale cioè che, come per due forze rispetto alla loro risultante, vengono salvaguardate l’identità e l’autonomia delle singole componenti.

    In prima istanza: l’unità della rappresentazione, anche implicando le stesse componenti dello spettacolo, è un’unità more physicae, mentre quella dello spettacolo è un’unità more chemiae. Il testo dello spettacolo è in funzione della scena (e viceversa, naturalmente); il testo della rappresentazione è insieme alla scena. I costumi dello spettacolo sono in funzione del testo e della scena; quelli della rappresentazione sono insieme al testo e alla scena e all’apparato del luogo teatrale.

    Essere in funzione significa che ogni componente si definisce in dipendenza dalle altre; essere insieme significa, invece, che ogni componente si definisce per se stessa, pur componendosi alle altre. Nella rappresentazione, la scena non è la scena del testo (e della recitazione, e delle luci, ecc.) ma è una componente autonoma, al pari del testo.

    Da questo punto di vista, l’evento urbinate non è uno spettacolo ma una rappresentazione. Le ragioni storiche per le quali si debbono considerare autonome le componenti della rappresentazione sono ben note. Nell’ambito definito di anni, luoghi, contesti culturali, che è corretto chiamare Rinascimento in senso non generico, le abilità che si aggregano nella rappresentazione non sono ancora professioni dello spettacolo: l’autore di scene non è lo scenografo, così come lo scrittore del testo non è il drammaturgo, e così come il cortigiano o il dilettante che si mostra sul palco non è l’attore. Ogni abilità (dipingere scene, scrivere testi, gestire e declamare in pubblico) proviene da altri ambiti di cultura e di prassi: in questi definisce e finalizza la propria consistenza. La rappresentazione le assume e le mette insieme: le compone, accogliendone e salvaguardandone l’originaria autonomia.

    Guardando dallo spettacolo teatrale (cioè dal dopo), le abilità della rappresentazione vengono travisate in professioni dello spettacolo; e la rappresentazione stessa, da composizione di entità autonome ed eterogenee (di nascita diversa), viene travisata in combinazione di entità mutuamente dipendenti e omogenee (della stessa nascita).

    A parte la matrice evoluzionistica di un simile sguardo, vanno qui considerate due conseguenze particolarmente gravi.

    Primo: l’identificazione abilità = professioni porta a inserire il prodotto delle abilità esclusivamente dentro l’evoluzione del genere che corrisponde alla relativa professione: la scena dentro la storia della scenografia, il testo dentro la storia della drammaturgia, e così di seguito.

    Lo sradicamento di prodotti dal loro reale contesto genetico e, parallelamente, il forzato trapianto in contesti estranei, fanno emergere distonie o consonanze che di fatto non esistono e che diventano problemi fecondi solo di soluzioni altrettanto problematiche.

    Secondo: identificando la rappresentazione con lo spettacolo, il tempo della rappresentazione viene a configurarsi come un taglio sincronico attraverso un fascio di storie diverse ma convergenti e parziali: il che comporta la indebita commisurazione dei singoli tempi intrinseci a un unico tempo oggettivo (dato che le storie sono convergenti), oltre che la commisurazione dei singoli tempi intrinseci tra loro (dato che le storie sono parziali).

    I protagonisti della rappresentazione urbinate sono personaggi eminenti del Rinascimento, ma significativamente nessuno di loro è un professionista dello spettacolo: non solo nel senso specialistico del termine, ma neppure per una continuità di prestazioni che, sebbene a posteriori, possa qualificarlo come tale.

    Girolamo Genga, a cui è attribuita la paternità della scena, al 1513 registra solo due precedenti documentati di genere affine: l’apparato per le esequie di Guidobaldo I nel 1508, e archi di trionfo per l’entrata di Eleonora Gonzaga sposa di Francesco Maria I tra il 1509 e il 1510. Il Vasari per quell’occasione parla anche di «scene di commedie»; ma nulla si sa di quelle commedie e, in ogni caso, l’accento è posto più su Urbino addobbata in modo da «assimigliare a una Roma trionfante» che sugli spettacoli teatrali. In questo periodo l’attività principale del Genga è quella di pittore. Fino al 1523, data dalla quale l’artista si occuperà quasi solo di architettura, sono registrati solo tre archi trionfali effimeri in Urbino nel 1522. La scena satirica descritta dal Serlio come di «tanta bellezza nelle cose fatte, quanto in altra opera fatta dall’arte, che da me sia stata veduta giamai», e per la quale il Genga entra con Peruzzi e Raffaello nella triade degli inventori della scenografia, si riferisce forse al 1525, quando stavano per cominciare (o forse erano appena iniziati) i lavori per l’aggiunta di Villa Rovere alla preesistente Villa Sforza.

    Se per il Genga tuttavia, malgrado la scarsità di documenti specifici, esiste la testimonianza a futura memoria di un «addetto ai lavori» come il Serlio, per il Castiglione la situazione è ancora più avara di reperti. Escludendo il Tirsi, composto e recitato insieme a Cesare Gonzaga nel carnevale del 1506, non ci sono altre testimonianze di un suo coinvolgimento diretto nelle attività dello spettacolo. Anzi, se il Tirsi può essere considerato un precedente significativo, è proprio perché evidenzia il carattere «cortigiano» dell’impegno del 1513, che pure vide il Castiglione ideatore degli intermezzi per la Calandria, autore delle Stanze conclusive e di un Prologo, delle iscrizioni latine che ornavano la sala e delle cosiddette Ottave d’Italia declamate in uno degli intermezzi della commedia di Guidobaldo Rugiero, nonché coordinatore dell’apparato complessivo. Ma «cortigiano» qui non è attributo dequalificante: esso indica, e massime per il Castiglione, un sistema di cultura in cui la rappresentazione è momento centrale e fondante, che però non si identifica con lo spettacolo. Se pure lo assume, pariteticamente ad altre componenti, in un quadro organico e integrato.

    E veniamo a Bernardo Dovizi da Bibbiena, l’autore della Calandria, certo una delle commedie più celebrate del Rinascimento. Scavando nel suo ricco epistolario sono stati estratti frammenti, piccoli brani: il racconto di un’avventura galante del duca di Calabria è stato amorosamente titolato, espunto dall’epistolario e pubblicato isolatamente, come una reliquia, l’unico reperto latamente drammaturgico da affiancare all’exploit della famosa commedia.

    Un pittore-architetto utilizzato anche per apparati celebrativi; un letterato cortigiano; un diplomatico faceto e prossimo cardinale: ecco che lo sguardo dal dopo li trasforma di fatto in professionisti dello spettacolo, «scenografo», «regista» e «drammaturgo», rinchiudendo i prodotti delle loro abilità e della loro cultura dentro le storie dei (futuri) generi teatrali.

    E si tratta, per di più, di prodotti esemplari. La Calandria è ritenuta il capostipite della commedia rinascimentale e, in assoluto, un capolavoro. La scena del Genga, per i materiali iconografici e per la composizione figurativa, presenta tali elementi di qualità da essere considerata il primo vero documento della scenografia prospettica: un evento fondamentale del teatro nel Rinascimento. La sala, in assenza di descrizioni specifiche, è stata forzatamente (ed erroneamente, come vedremo) configurata come un vero teatro, anch’esso esemplare della futura evoluzione verso il teatro all’italiana. Quanto agli intermezzi, si registra negli studi un generale disinteresse, certo anche a causa del fatto che il relativo genere risulta all’epoca poco consolidato: tanto da legittimare, per retroazione, il silenzio su un episodio qualificabile a priori «fuori tempo» e di scarso interesse.

    I raffronti operati sono tra la Calandria e la Mandragola, ad esempio; oppure tra la scena del Genga e le scene del Peruzzi; tra il vero teatro del Salone di Urbino e la Sala del Palazzo della Ragione a Ferrara. Mai, a nostra conoscenza, tra la scena del Genga l’apparato del 1513 e il testo della Calandria. E mai, a nostra conoscenza, tra l’apparato del 1513 e il Cortegiano, o tra gli intermezzi della Calandria e gli Asolani, come documenti affini di una stessa cultura.

    Certo, è corretto confrontare la scena del Genga con le più tarde scenografie cinquecentesche anche all’interno dell’evoluzione del genere, ma non è da confronti di questo tipo che si può ricostruire la composita unità dell’evento urbinate. Dato che, giova ripeterlo, le componenti della rappresentazione non provengono dai generi dello spettacolo: nei quali, se pure, possono essere collocate solo in una visione retrospettiva e tesa a individuare le grandi linee di un processo, comprese le sue prime, ‘incerte’, manifestazioni.

    È fenomeno frequente che un evento artistico si presenti in un tempo oggettivo che non gli è proprio come tempo evolutivo del genere. Il fenomeno tende ad accentuarsi in ragione dell’esemplarità degli eventi considerati e soprattutto (com’è il nostro caso) in ragione della loro ‘irregolarità’ rispetto ai parametri canonici del genere. L’evento esemplare e/o anomalo tende a verificarsi o quando il tempo evolutivo è già superato (e si dice allora che l’evento è in ritardo), o quando il tempo evolutivo non è ancora maturato (e allora si dice che l’evento è in anticipo).

    Ciò che ne risulta è un effetto di parallasse storica. L’evento è nel posto in cui non dovrebbe essere: esattamente come quando, per parallasse ottica, vediamo un oggetto in un punto in cui di fatto non si trova. L’anticipo e il ritardo sono le ‘spiegazioni’ con cui il tempo intrinseco di un genere viene messo in fase con il tempo oggettivo. In realtà, a causa di queste spiegazioni-problemi, il percorso evolutivo di un genere risulta disseminato di eventi fuori fase.

    Consideriamo, ad esempio, la scena del Genga. I documenti ce la descrivono come una scena di città prospettica. Gli edifici che vi compaiono, nella loro enfatica magnificenza, non sono sufficientemente specifici da indicare una città in particolare. L’Argumento della Calandria parla, è vero, di Roma, ma la stessa scena servì anche per l’Eutichia la cui azione si svolge a Mantova. Il Castiglione riferisce di «strade, palazzi, chiese, torri, strade vere: et ogni cosa di rilievo, ma aiutata ancora da bonissima pittura, e prospettiva bene intesa». La costipazione di «strade, palazzi, chiese, torri» richiama le parole con le quali il Vasari esprimerà la sua ammirazione verso la scena del Peruzzi, indicata come «prima», per la Calandria romana; e così pure l’accento sulla prospettiva come tecnica quasi miracolosa per costringere in uno spazio reale ristretto una grande estensione illusionistica. Indubbiamente da questo punto di vista la scena del Genga è in anticipo: si presenta prima, rispetto a quando si presenterebbe se l’evento fosse in fase con l’evoluzione del genere.

    Ma si confrontino le parole del Castiglione, anziché con quelle di Vasari, con queste altre: «quello che è stato il meglio in tutte queste feste [...] è stato la sena [...] ch’è una contracta et prospectiva de una terra cum case, chiesie, torre, campanili e zardini». A scrivere è Bernardino Prosperi, e la scena di cui riferisce è quella per la prima Cassaria. Il luogo del raffronto si sposta da Roma a Ferrara, il tempo dal 1514-15 al 1508, l’artista dal Peruzzi a Pellegrino da Udine, non annoverato certo tra i maestri della scenografia prospettica: ma l’assonanza descrittiva rimane forte, anche se l’indagine più recente ha mostrato che la parola «prospettiva» ha in Bernardino Prosperi un senso diverso e ben più generico che non nel Castiglione o nel Vasari. Il riferimento ‘minore’ è rafforzato dal sottopalco, che nella scena genghiana simulava un muro di cinta, come in tante scene anteriori anche, e di molto, al 1508. Anzi, il muro di cinta frontale è uno degli elementi caratterizzanti della cosiddetta «città ferrarese», che nell’evoluzione della scenografia precede la città prospettica. Potremmo concluderne che, dal punto di vista dello schema figurativo, la scena per la Calandria urbinate è in ritardo: come esempio (per quanto più elaborato) di «città ferrarese», si presenta dopo, rispetto a quando si presenterebbe se l’evento fosse in fase con l’evoluzione del genere.

    Analogo discorso può essere fatto per il testo della commedia. Malgrado la marcata componente boccacciana, la complessità dell’intreccio e il tipo di personaggi pongono la Calandria come un frutto maturo nell’evoluzione della commedia rinascimentale: decisamente in anticipo sui tempi.

    Gli intermezzi, una volta esplorati adeguatamente, porrebbero problemi di sfasamento ancora più intricati. Il genere intermezzi ha una definizione imprecisa. Se ne comincia a parlare con proprietà quando gli intermezzi si presentano collegati l’un l’altro da un filo conduttore: la data canonica per questa inaugurazione oscilla tra il Commodo del 1539 e la Talanta del 1542. La continuità tematica finisce con l’esigere un proprio spazio e una propria strumentazione scenica indipendenti dalla commedia, che troveranno compimento nella scena mutevole e nelle macchine degli intermezzi buontalentiani, allo scorcio del secolo. Il parametro definitorio del genere oscilla così tra l’unità tematica, a prescindere anche dalla relativa strumentazione tecnica, e la strumentazione tecnica, a prescindere anche dall’unità tematica: che non è più guardata come fattore causante ma come un parametro parallelo, che può esserci o non esserci. Le rubriche possibili aumentano in proporzione: unità tematica senza mutamenti di scena, unità tematica con mutamenti di scena, mutamenti di scena senza unità tematica. Ognuno di questi generi ha la sua origine e il suo percorso evolutivo; e restano, comunque, gli intermezzi-riempitivo, privi di unità tematica e di strumentazione tecnica propria. Gli intermezzi della Calandria non comportarono mutamenti di scena, e le «macchine» si limitarono a tradizionali carri allegorici; quanto all’unità tematica, si è dato per scontato che non vi fosse. Il che li ha normalizzati come riempitivi, tutto sommato in fase con i tempi.

    Ma l’unità tematica, come si vedrà, c’è ed è fortissima: del tutto conforme alle parole del Castiglione che definiva la significazione degli intermezzi «una cosa continuata». Inutile dilungarsi sull’effetto di parallasse che una simile acquisizione comporterebbe: qui l’anticipo rispetto al tempo evolutivo accreditato sarebbe di quasi un trentennio.

    Lasciamo da parte le considerazioni, che pure si potrebbero fare, circa la sala e la sua sistemazione (presunta) a vero teatro.

    Si dovrà notare, piuttosto, che i vari effetti di parallasse non hanno tutti lo stesso segno e la stessa entità. Così la rappresentazione risulta in ritardo rispetto allo schema figurativo della scena, in anticipo rispetto all’uso della prospettiva, in maggiore anticipo rispetto agli intermezzi e alla loro unità tematica: e così di seguito.

    Il risultato di questi sfasamenti è un complessivo effetto di illusionismo, per il quale la rappresentazione perde addirittura la sua consistenza concreta: diventa uno stenogramma (Urbino-1513) per indicare la porta di passaggio di storie diverse colte nello stesso istante oggettivo, ma responsabili, in sostanza, solo di fronte ai propri tempi evolutivi.

    Questa situazione, che può apparire un sofisticato paradosso, risalta nettamente dallo stato degli studi. La rappresentazione urbinate del 1513 è unanimemente citata come uno degli eventi più significativi del teatro nel Rinascimento: ma non esiste nessuno studio realmente complessivo. Al contrario, esistono molti studi sulle singole componenti: li si citerà abbondantemente nelle pagine che seguono. La predilezione va alla commedia del Bibbiena: ne sono state, con grande perspicacia, esplorate le ascendenze boccacciane, ariostesche e plautine, e ne sono stati messi in luce gli aspetti (soprattutto lessicali e stilistici) di diversità. La scena del Genga e il complessivo apparato della sala sono stati anch’essi oggetto di attenta, anche se talora preconcetta, considerazione; e non sono mancati tentativi di cogliere, al di là dell’evidenza iconografica, il senso e la funzione dell’impianto scenico. Inutile ricordare ancora la generale evasività sugli intermezzi.

    A prescindere dal valore specifico di questi studi, va sottolineata ancora una volta la loro parzialità: che, se è certo legittima in quanto scelta di campo, ha finito con il rafforzare a posteriori (essendone a priori incentivata) quello che chiamavamo più sopra il carattere illusionistico della rappresentazione urbinate del 1513.

    Pur continuando a essere, in quanto rappresentazione unitaria, uno dei riferimenti d’obbligo nei discorsi sul teatro nel Rinascimento, la si deve assemblare sommando analisi letterarie della commedia, considerazioni scenografiche sulla scena e, per la sala e la sua sistemazione, aprioristiche descrizioni di un vero teatro ante litteram. L’unità che se ne ricava è più un assioma di similia cum similibus, posto per riallineare su un generale anticipo i tempi intrinseci delle singole componenti, che un’organica composizione. Dato che la Calandria è il capostipite della commedia rinascimentale ed è un capolavoro, la scena dev’essere di pari rango e così pure la sala, non a caso inventata ex novo come un teatro in anticipo sui tempi.

    Di accoppiamenti di questo tipo è tanto prodiga la storiografia quanto avara la storia. Non si vuol dire, con questo, che la Calandria non sia il testo inaugurale della commedia del Rinascimento, o sottacere l’importanza della scena genghiana. È piuttosto che il criterio del similia cum similibus, oltre a determinare forzature interpretative (com’è il caso della sistemazione della sala) o reticenze diplomatiche (com’è il caso degli intermezzi, rimossi anche in base all’ipotesi di un loro ‘inadeguato’ statuto di riempitivi), cancella il livello profondo dell’unità della rappresentazione. Esibisce, o inventa, fiori simili laddove a essere simili sono le radici culturali: indipendentemente dalla similitudine dei fiori quando questa esista veramente; o a prescindere dalla loro dissimiglianza quando la similitudine sia solo postulata.

    E va detto che è quest’ultimo il caso più frequente nella rappresentazione urbinate. Se la Calandria, ad esempio, ostenta i fiori di un disincantato edonismo e di una sfrenata ricerca del piacere, le sue radici sono (anche) nella riproposizione d’una cultura allegorica inattuale, ma disponibile a evocare l’oscura lotta tra il bene e il male: lo si vedrà emergere, questo fondo antico, nel corso del libro.

    E se la scena del Genga esibisce i mirabilia della città prospettica, non le sono estranee approssimative iconografie, dalle quali, anzi, estrae il suo significato più autentico.

    E infine, l’auspicio ‘politico’ di pace a cui gli studi hanno voluto ridurre la significazione degli intermezzi è solo la superficie cortigiana sotto la quale si cela una significazione più complessa: l’uomo in dissidio verso l’uomo in armonia con se stesso, l’ascesi dal tumulto dei sensi all’amore divino del neoplatonismo, e anche della trattatistica d’amore dagli Asolani ai Dialoghi di Leone Ebreo. Gli intermezzi della Calandria non rispondono ai canoni del genere, riempiendo di concitato fragore gli intervalli tra un atto e l’altro, o invocando l’uso di «scenografiche stregonerie» alla Buontalenti: raccontano piuttosto, secondo le esplicite parole del Castiglione, una storia «separata dalla Comedia», e che pure con la commedia, apparentemente così diversa, ha in comune un humus di cultura: là accennato solo dietro i fasti della potenza e dell’impotenza d’amore, qui negli intermezzi cifrato in colte mitologie ma limpido nel suo significato.

    L’allegorismo (se pure mediato) della commedia, le arcaiche iconografie urbane dietro la scena

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