La donna che legge: Racconto teatrale in dodici sequenze
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La donna che legge - Renato Gabrielli
Appendice
Prefazione
di Sara Chiappori
Corot, Fragonard, Renoir, Van Gogh, Matisse, Picasso. La storia dell’arte è zeppa di Donne che leggono, molto più che di uomini. Volti, corpi, profili, busti e mani femminili al cospetto di quel misterioso oggetto che è il libro. «Galeotto» dai tempi di Paolo e Francesca, pericoloso e peccaminoso soprattutto se associato all’altra metà del cielo. Quando a guardarla è il maschio, che la erotizza attraverso la lente delle sue perversioni, pulsioni e paure. Caricandola di un immaginario predatorio e voyeuristico di chiara matrice sessuale.
Del resto Le brave ragazze non leggono romanzi, come recita il titolo del saggio di Francesca Serra (2011, Bollati Boringhieri) che a sua volta cita la celebre frase di Jean-Jacques Rousseau «Jamais fille chaste n’a lu des romans», a cui Renato Gabrielli si è esplicitamente ispirato per scrivere questo Racconto teatrale in dodici sequenze. Il cui vero nume tutelare è James Joyce, per la precisione il capitolo Nausicaa dell’Ulisse, quello in cui Mr Bloom spia Gerty MacDowell sulla spiaggia di Sandymount. Il riferimento è dichiarato in esergo al testo, dove Gabrielli semina la prima delle sue formidabili trappole drammaturgiche.
Non è un autore facile, Gabrielli, tanto meno compiacente. Ai suoi destinatari (registi, attori, spettatori ma anche lettori, ché delle sue pièce, pure così fortemente teatrali, si può godere in solitario) chiede vigilanza continua, uno stato di allerta permanente che li chiama in causa preferendo l’esercizio del pensiero alla scorciatoia della facile emozione, o, peggio ancora, della morale.
A cominciare dalla struttura testuale, che è sempre complessa e prismatica, frutto di una ricerca che forza gli schemi e i codici (non prima di averli profondamente rielaborati) giocando per contrappunti e cortocircuiti, riscoprendo il piacere del colpo di scena, del meccanismo teatrale, delle geometrie tra i personaggi. In La donna che legge Gabrielli perfeziona lo stile che avevamo già apprezzato nei suoi precedenti testi Giudici, Vendutissimi, Salviamo i bambini, Cesso dentro, Tre e lo condensa in una commedia di luminosa, inquietante bellezza, la cui stessa architettura rivela qualcosa di minaccioso, trasformando gli elementi della sintassi drammaturgica in corridoi dalle prospettive ingannevoli, vicoli ciechi, passaggi segreti. Un labirinto nel quale perdersi per ritrovare il filo.
Tre personaggi, o meglio tre attori (A, B e C) che interpretano i tre protagonisti, Giada, Federica e Mirco. Della trama basti dire che Mirco, cinquantenne ex avvocato e poeta mancato, incarica Federica, un tempo collega e amante, di fare da intermediaria per uno strano affare. Deve contattare Giada, che Mirco ha visto con un voluminoso libro sulla spiaggia, per proporle, in cambio di molto denaro, di farsi guardare, in orari, luoghi e condizioni prestabilite, mentre legge. Ognuno di loro racconta e si racconta dentro un dispositivo che nutre la narrazione intrecciando piani e punti di vista: tutti guardano tutti, e ne sono guardati. I personaggi emergono col nitore di figure da romanzo pur immersi in una partitura di purissima materia teatrale: B e C raccontano guardando A, che a sua volta descrive B e C, mentre pezzi di dialoghi e monologhi si frantumano intersecandosi gli uni negli altri. Questo registro multiplo permette a Gabrielli di modulare volumi, timbri, situazioni, riferimenti, tenendo teso il filo di una storia, che c’è, e anche molto robusta, fino all’epilogo in cui tutto risulta chiaro mentre ci spiazza di nuovo. Ci fa letteralmente «vedere» la qualità della disperazione delle sue tre creature, immobilizzate sullo sfondo di una provincia di mare fuori stagione. Non lo dice, ma sappiamo che è Rimini, con il suo Adriatico melmoso e avvolgente, che non profuma; al massimo, nelle sue giornate migliori, non puzza. Senza autorizzazione in Mirco troviamo qualcosa del professore interpretato da Alain Delon nel film di Valerio Zurlini La prima notte di quiete (1972). È più vecchio, porta il panama e un completo di lino al posto del cappotto di cammello, ma il suo destino di cantore dell’innocenza perduta sulla spiaggia di Rimini in qualche modo ce lo ricorda. Così come, mentre lo vediamo spiare la sua «musa sul pedalò» immersa nel libro (che non è l’Ulisse ma semplicemente un giallo svedese), non possiamo non pensare ad Aschenbach – nella Morte a Venezia, racconto di Thomas Mann, da cui la celebre trasposizione filmica di Luchino Visconti del 1971 – che fissa libidinoso con la fronte