Questo Cerchio Sei Tu
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Questo Cerchio Sei Tu - Fabio Locurcio
19.
I. PRIMA
1.
«Proprio adesso me lo dici?»
Pietro non mi rispose e fissò la luce rossa pregando che diventasse verde.
Il semaforo diede il segnale.
«È verde» disse lui.
«Come?»
«Il semaforo… è verde!»
Ingranai la prima e continuai a guidare lungo la strada vuota. Avevo deciso di girare il mio film in agosto, nel culmine dell'esodo estivo, quando Roma, più che una città, sembra un set cinematografico incustodito.
«Dobbiamo girarla oggi» dissi.
Era l’ultimo giorno di riprese e l’ultima scena da fare insieme a Pietro. L’idea della trama era nata due anni prima con Solamente
, un cortometraggio da me scritto, diretto e interpretato: era la storia di una ragazza che si sveglia e si accorge che intorno a lei non c’è più nessuno, vive in una città deserta.
«Perché l’hai detto?» chiesi io.
Pietro si era lasciato sfuggire quella frase «Non ha senso» mentre ripassava le sue battute. Lui mi guardò.
«Non mi riferivo alla scena».
«Ah no?»
Svoltai a destra facendo finta di credere a quella palese bugia e parcheggiai la macchina in una stradina che da un lato era costeggiata da un muro.
Se l’esodo estivo creava quell’effetto di città fantasma utile all’ambientazione, lavorare con quel caldo torrido ci stava logorando: l'umidità e i venti pressoché assenti facevano percepire una temperatura ancora più alta di quella reale.
Spensi il motore e fissai Pietro.
«A cosa ti riferivi allora?» gli chiesi.
Pietro ci impiegò un po’ a rispondere.
Ci eravamo conosciuti alla fine di una proiezione pubblica di Solamente
dove avevo ottenuto un lungo applauso. Pietro invece aveva trovato il personaggio poco delineato e il finale sfuggente. Se non altro divenne il pretesto iniziale per frequentarci e per conversare di cinema, teatro e sull'arte in generale.
«Al mio personaggio» disse infine.
Feci un cenno di assenso, come per confermare che mi aspettavo quella risposta.
«E non ha senso?»
Pietro sospirò.
«Si capisce da dove viene e che cosa è successo nell’intervallo, ma…»
«Ma cosa?»
Pietro si passò la mano nei capelli.
«Dove va?»
Scossi la testa e aprii la porta di scatto.
«Prendi il cavalletto!»
Afferrai nel retro la custodia della cinepresa e la sua sacca.
«Mi ossessioni sempre con le tue domande, mi vuoi mettere in crisi, su quello che scrivo, su me stessa!»
Pietro prese il cavalletto e una borsa facendoli sbattere sulla portiera aperta e disse «È il mio mestiere».
Lo fulminai con gli occhi. Pietro mi guardò e precisò «Intendo l’attore».
Sistemai la cinepresa sul cavalletto, e tentando di calmare la rabbia, cercai l’inquadratura giusta. Ripercorsi mentalmente la scena, girata qualche giorno prima nello stesso posto, e decisi di riprendere da dove era finita. Senza guardare Pietro negli occhi, gli indicai la fine della strada.
«Tu torni da lì, e avvicinandoti, dici la tua battuta» dissi e poi aggiunsi «facciamo un piano sequenza».
Pietro si avviò irrequieto verso il punto che gli avevo indicato, litigando con la manica della giacca che non riusciva a infilare. Io mi legai i capelli, indossai una parrucca nera a caschetto, avviai la cinepresa e mi posizionai davanti all’obiettivo.
«Motore».
Ero in primo piano e lui, sfocato, stava in lontananza alle mie spalle.
«Azione!»
Colpita dal giudizio di Pietro su «Solamente», e nella speranza di conquistarlo, in tre mesi avevo rielaborato l’idea del corto in una sceneggiatura per un lungometraggio: era la storia di un Personaggio abbandonato in una città vuota e senza più un ruolo; quando la sua Autrice torna da lui con la speranza di cambiarne il carattere, lui si ribella e fugge via. Pietro accettò di interpretare la parte del Personaggio, nei preparativi nacque tra noi una relazione e ci trasferimmo insieme in un piccolo appartamento che avevo scelto per girare gli interni del film.
«Non c’è nulla» disse lui, nelle vesti del Personaggio, mentre si avvicinava dietro di me, ferma davanti alla cinepresa «al di là di questa città non esiste nulla, tutte le strade riportano indietro».
Io, nelle vesti dell’Autrice, lo guardai e senza scompormi dissi «Adesso lo sai, sei tu a dover andare avanti, evolverti».
Eravamo ormai un passo l’uno dall’altra quando lui disse la sua ultima battuta «Se per me non hai più un ruolo allora… allora smetterò di esistere».
Camminai verso la cinepresa guardando diritto nell’obiettivo in primo piano, rimasi ferma così per un momento, poi uscii di scena e aspettai qualche secondo.
«Stop» dissi a bassa voce, scontenta «facciamone un’altra».
In quella scena finale il Personaggio, da copione, svaniva nel nulla dopo avere affermato che avrebbe smesso di esistere; per realizzarla avevo stabilito di usare un effetto in post produzione, un trucco visivo tra i più vecchi della storia del cinema.
Pietro mi guardò scuotendo la testa.
«Non ne posso più» disse lui «questa storia che hai scritto non la sopporto!»
Lo guardai stupita.
«Cosa?»
«Non può finire così» disse Pietro alzando lo sguardo «non posso scomparire nel nulla!»
«Smettila».
«Che fine fa il mio personaggio? Dove va?»
«Te lo ripeto per la millesima volta: è un finale a–per–to».
«Ma almeno tu devi sapere come finisce la tua storia e io devo sapere che fine fa per interpretarlo».
«Dì piuttosto che non ti sei calato fino in fondo nei panni del tuo personaggio».
Pietro mi guardò interdetto.
«Non riesci a immedesimarti, ecco la verità» dissi io.
Pietro si tolse la giacca, offeso.
«Vado via!» disse lui e se ne andò.
Rimasta sola, guardai smarrita l’obiettivo della cinepresa che, fissa sul cavalletto, aveva continuato a riprendere.
«La scena ce l’ho, anche se non è un granché» dissi parlando da sola come ero solita fare nei momenti di rabbia. Scossi la testa e mi asciugai