Trova il tuo prossimo book preferito
Abbonati oggi e leggi gratis per 30 giorniInizia la tua prova gratuita di 30 giorniInformazioni sul libro
Antiche Guerre Cosmiche
Di Vito Introna
Azioni libro
Inizia a leggere- Editore:
- DIVERSA SINTONIA
- Pubblicato:
- Jan 29, 2012
- ISBN:
- 9788896086339
- Formato:
- Libro
Descrizione
Informazioni sul libro
Antiche Guerre Cosmiche
Di Vito Introna
Descrizione
- Editore:
- DIVERSA SINTONIA
- Pubblicato:
- Jan 29, 2012
- ISBN:
- 9788896086339
- Formato:
- Libro
Informazioni sull'autore
Correlati a Antiche Guerre Cosmiche
Anteprima del libro
Antiche Guerre Cosmiche - Vito Introna
Edizioni DIVERSA SINTONIA
CONNECTIVA 5
Vito Introna
ANTICHE GUERRE COSMICHE
Romanzo
E-BOOK
EPUB version
-
Immagini, impianto grafico e impaginazione
by EDS & DOMIST
-
Copertina:
‘L’impero Xazquiano’ di Marco Melone ©
-
ISBN: 978-88-96086-34-6
Pubblicato in formato elettronico
previo contratto dell’autore con
www.edizionidiversasintonia.it
Copyright © 2012 Vito Introna
Tutti i diritti riservati
Edizione cartacea originale © 2011 Vito Introna
ISBN: 978-88-96086-12-4
Edizioni DIVERSA SINTONIA © 2012
-
Vito Introna
-
Edizioni DIVERSA SINTONIA
Preludio
I
Ummo orbita in seno alla costellazione dello Scorpione, dove Antares giganteggia novecento volte più grande e brillante del nostro umile sole. Per chi può bilocarsi come quei pochi umani che hanno innato questo raro, prezioso e spesso pericolosissimo dono, esso appare quale immensa roccia scura chiazzata da piccoli oceani verde bruno, rada vegetazione smorta e immensi agglomerati urbani. Queste inconfondibili città risaltano a gran distanza tra le placche tettoniche: sono irte di torri irregolari, vere parodie di guglie e minareti, tagliate da strade strette e polverose ridondanti d’inconcepibili poliedri metallici d’oxozyrio non riflettente. La circolazione al livello del suolo è pressoché assente, frotte di modesti dischi volanti sfrecciano di continuo tra torri senza finestre e massicci complessi parallelepipoidali. In questo bizzarro scenario campeggia tetro l’immenso disco rosso di Antares e del suo bianco sole satellite Mruzyk, a noi semisconosciuto. Il cielo è sempre grigio e sotto una tenue coltre d’anidride carbonica raramente si notano piccole formazioni cirriformi; di conseguenza su Ummo la pioggia è evento molto raro.
In questo quadrante astronomico si consumò la crisi che alcune centinaia di cicli sexitrali fa scosse l’intero cosmo e coinvolse il nostro lobo d’universo nella più atroce, crudele e subdola delle aggressioni. Solo pochi umani sanno qualcosa della razza ummita, creature massicce e romboidali di colorito violaceo alte ben più di tre metri, dotate di lunghe braccia e gambe corte e tozze, dalla testa squadrata e dai grandi occhi rossi. Al nostro sguardo non sono certo belli ma i pochi che li hanno conosciuti non paiono essere stati repulsi dal loro aspetto grottesco.
Storicamente gli ummiti costituivano una pacifica civiltà semi-primitiva che ancora 830 cicli sexitrali fa – pari a sessantamila anni terrestri – viveva allo stato brado in piccoli branchi, non conosceva la costruzione funzionale e a malapena padroneggiava il fuoco, abbondante in natura sul pianeta, e pochi utensili da scavo e intaglio. Complice l’aridità strutturale del luogo, le piante di tipo terrestre sono scarse e insufficienti a sfamare molti mammiferi, sicché anche la fauna locale è relativamente ristretta. Poiché gli ummiti, unici grandi vivipari del pianeta, sono fisiologicamente erbivori, hanno sopperito all’endemica povertà di specie vegetali nutrendosi della corteccia degli immensi alberi di Sruko che a tutt’oggi distillano ottenendone un acre vino giallo, loro bevanda favorita di sapore vagamente simile al cherosene e letale per qualsiasi essere umano. La loro civiltà primeva in quello sfavorevole contesto di riferimento non aveva alcuna seria probabilità di evolversi. La popolazione planetaria non superava i quattro milioni di unità su una superficie equivalente a quella di Nettuno; i freddi inverni decimavano fatalmente i cuccioli e gli anziani, non essendosi sviluppata alcuna tecnica di vestizione o di riscaldamento domestico, né esistendo animali grandi a sufficienza da fornire pellicce.
Quando Bualuka, capo delle tribù del sud, vide discendere dal cielo Ziama il vecchio e Selda la rossa, ritenne di avere a che fare con due agenti dell’Armonia.
L’Armonia rappresenta la dottrina fondante e filosofia inconfutabile di ogni ummita. È tramandata nelle loro menti telepatiche fin dal primo ‘interscambio’ connettivo che ciascun individuo concerta durante l’infanzia col tempio, situato al polo nord popolato dai sommi sacerdoti e dai monaci-astronomi. Gli scambi telepatici col grande tempio proseguono lungo l’intero ciclo di vita ummita e l’indottrinamento all’Armonia accompagna la popolazione fino alla morte.
Planando come gabbiani, Ziama e Selda proiettavano al suolo ombre gigantesche; simili nell’aspetto a un uomo adulto e a una giovane donna erano entrambi bellissimi, sottili e slanciati, con stature ascrivibili alla media dei leisadi.
I discendenti del defunto pianeta Leisa avevano organizzato una missione di primo contatto con quei pacifici autoctoni, finalizzata a sostenerli nel loro incerto cammino evolutivo; pertanto da una loro base operativa scavata nel nucleo roccioso del pianeta Urano avevano proiettato in loco i corpi acarsici di Ziama e Selda, sfruttando la loro superiore tecnologia figlia di un glorioso passato. Era stato un fertile pianetino del sistema solare sito fra Marte e Giove ed esploso quasi trecentomila anni fa, i cui discendenti sono sopravvissuti fino a un’epoca relativamente recente sulla nostra Terra, dove li chiamammo ‘Mu’, ‘Nephilim’ o più volgarmente ‘Atlantidi’. All’epoca di quell’incontro le colonie leisadi sulla Terra erano ancora prospere, tanto che tra i colonizzatori alieni ottimisticamente si riteneva possibile la sopravvivenza della loro razza alla catastrofe. Fine e coltissima civiltà di filosofi e poeti, di scienziati e d’ingegneri, dall’avanzatissima cultura giuridica e, a detta di chi le vide, dalle architetture più belle dell’intero settore cosmico meridionale, Leisa affidava a poche migliaia di superstiti il sogno di una razza inopinatamente spazzata via da una guerra immotivata e puerile.
Ziama atterrò piano dinnanzi a Bualuka e ai suoi trentasei figli, alle sue otto compagne e agli altri componenti dell’immenso clan di punta nelle fertili regioni meridionali. Alzò un braccio in segno di pace, cui l’ummita replicò levando anch’egli un arto al cielo. Incanalò i suoi pensieri scanditi da immagini chiarificatrici nel ricettivo cervello dell’alieno, che così, poté vedere: dietro le nere cortine di ioni coacervati che racchiudono il confine settentrionale del nostro universo sorgeva un cosmo parallelo, anch’esso brulicante di stelle, di galassie, corpi freddi e mondi vivi. Su un grande pianeta prossimo alla barriera di confine delle orride creature nere e rosse, gigantesche e smilze trasvolavano a piacimento per l’aere e l’iperspazio a bordo di astronavi smisurate, divorando e distruggendo per ogni dove la vita, annientando e rendendo schiave intere civiltà e reprimendo nel sangue ogni forma d’amore in qualunque espressione generato. Quei crudeli vampiri astrali avevano armi ben sofisticate ma il meglio della loro tecnologia era costituito dalle attrezzature psico-induttive, con le quali provocavano dolori squassanti alle anime dei prigionieri. Poiché i mostri si nutrivano delle pene inflitte alle coscienze, Bualuka capì che si trattava di creature degli inferi, su Ummo denominate ‘ghialorghj’. Vide anche una porta tra due universi contigui, una sorta di tunnel meno buio del nero cosmico attraverso il quale i demoni sguinzagliavano le loro lucenti immense astronavi, alla caccia di altre civiltà da soggiogare. Le parodie di volti dei ghialorghj increspavano di piccole convulsioni le fessure rostrate equivalenti alle labbra in probabili espressioni di piacere.
L’immagine telepatica strappò all’ummita un urlo gutturale talmente potente da fare sobbalzare Ziama. Selda intanto era stata attorniata da alcuni cuccioli poco più bassi di lei e sorrideva loro, carezzando le immense teste glabre e i possenti artigli non retrattili che venivano teneramente allungati. Ziama alla fine riuscì a intendere il semplice linguaggio telepatico di quel popolo e ad accompagnare le immagini con facili parole: Noi siamo amici, vi aiuteremo a evolvere prima che le selvagge schiere di Xazq siano qui, siamo per l’Armonia e lavoreremo con essa e con voi, suoi figli prediletti.
Bualuka fu blandito da quelle solenni parole e diffuse il suo pensiero al clan. Tutti i presenti seppero che il capo tribù aveva accettato l’offerta dei due spiriti armonici e a gran velocità una possente mobilitazione telepatica si propagò per tutto il pianeta. I capi clan del nord, dell’est e delle desolate paludi acide dell’ovest ricevettero l’annuncio e ordinarono alle proprie genti di mettersi in cammino verso i messaggeri armonici giunti in loro soccorso. I sommi sacerdoti del lontano nord seppero dell’offerta e tacquero senza pronunciarsi.
Trascorsero cento cicli sexitrali alché Ummo raggiunse la piena maturazione civile: l’innata telepatia aveva facilitato un’evoluzione assai più rapida di quella sperimentata con gli umani. A quei tempi sulla terra spadroneggiava ancora il Moa, grande e meraviglioso uccello senz’ali, il protoippo stava perdendo l’ultimo accenno d’unghie sul garretto e il Cro Magnon si vestiva di bianche pelli dell’orso delle caverne. Ummo invece brulicava di torri e di silos e la popolazione aveva abbandonato in massa i deserti rocciosi per convergere negli immensi fabbricati senza finestre delle neo-edificate città; nelle fattorie collettive idroponiche si coltivavano grandi vegetali simili allo Sruko le cui sementi geneticamente modificate erano state loro fornite dai discendenti di Leisa.
Se adesso siamo qui a ricordare lo dobbiamo al vecchio saggio Ziama e alla bellissima Selda. All’epoca infatti Xazq, dopo aver travolto varie civiltà nell’area settentrionale del nostro lobo d’universo stava valutando la possibilità d’invadere Mulk, Ondijg, Askiegh e Ummo. Durante le sue eterne crociate contro la vita e l’amore non aveva mai incontrato serie resistenze. Demoni crudeli edonisti e amorali, gli xazquiani erano figli prediletti di Belzebù, vitreo signore delle mosche e loro padre e padrone, che nella notte dei tempi li aveva elevati dal nulla e organizzati in pseudo civiltà anti-spirituale, senza peraltro disdegnare di utilizzarli per scopi alimentari, popolando fin dalla schiusa il loro sangue di insaziabili larve astrali.
Fu il re Tackrumy a comunicare con Zeudi, all’epoca sommo sacerdote-astronomo di Ummo, preoccupato dalle vibrazioni cosmiche negative percepite dall’intera popolazione. Non appena il sacerdote ebbe confermato l’esistenza di una massiccia formazione d’astronavi in rotta verso la costellazione dello Scorpione provvide a chiamare a raccolta i sei miliardi di ummiti e a decretare lo stato di guerra a difesa della suprema Armonia. In quel contesto storico Ummo, che come detto brulicava di dischi volanti, di fabbriche e di fattorie meccanizzate, era rimasto un pianeta eticamente incorrotto, dal perenne culto telepatico e dall’autodisciplina e dalla solidarietà connaturati alla psiche connettiva.
In breve esplose la guerra, la più antica e totale fra navi volanti storicamente attestata nel nostro quadrante astrale. Non vi parteciparono però i figli di Leisa, ormai sprofondati in un’inarrestabile decadenza e prossimi a essere assorbiti dalla piccola ma geneticamente più forte razza degli ominidi.
-
II
I dischi ummiti si levarono in formazioni geometriche contro le astro-corazzate di Xazq. I missili all’elio deflagrarono sulle corazze iridee mentre i laser xazquiani solo a tratti saettarono alla cieca contro i velocissimi stormi di piccole navi circolari, evidenziando la palese inadeguatezza dell’armata del male a quel tipo di battaglia. L’Angur xazquiano non aveva preso in minima considerazione l’eventualità che su Ummo potesse esserci vita intelligente giacché le rilevazioni dei suoi esploratori, ferme a 200 cicli sexitrali prima equivalenti a 14.500 anni terrestri, avevano descritto gli abitanti del pianeta quali individui lenti e ottusi, difettivi di tecnologie elementari e ancora non in grado di lavorare i metalli. Pertanto l’armata dei divoratori di anime era calata senza disporre di una vera e propria aeroforza d’invasione. L’Angur aveva ritenuto sufficienti allo scopo delle mastodontiche navi da sbarco, capaci di contenere nelle stive migliaia di mezzi da occupazione e razzia ma del tutto inadatte agli scontri armati. L’attacco a sorpresa, condotto da oltre due milioni di velocissimi dischi d’oxozyrio e accompagnato da terra con un massiccio bombardamento all’elio, in poche ore inflisse agli invasori una disfatta clamorosa.
La memoria storica di quei Gengis Khan del cosmo rispolverò una leggenda, risalente ad almeno 60.000 cicli sexitrali prima. Si narrava che un tempo gli xazquiani non fossero che semplici e rozzi conquistatori privi della componente satanica loro connaturata e che dopo tanti combattimenti vittoriosi avessero esteso la loro egemonia all’intera porzione settentrionale del nostro universo, ben oltre i domini posseduti ai tempi dello scontro con Ummo. Quando i loro scienziati riuscirono a localizzare all’estremo apice del lobo nord un varco d’accesso a un universo parallelo, l’Angur dell’epoca ordinò di preparare una spedizione colossale al fine di estendere l’impero dove nessuno era mai giunto. Fu un grave errore: non appena uscita dall’iperspazio, l’imponente flotta entrò in contatto con stranissime figure galleggianti nel vuoto, vagamente simili a tronchi di cono rocciosi cosparsi da creta umida. Si trattava degli Erktij, una razza semi-intelligente e altamente empatica che viveva seguendo leggi metabiologiche assenti nel nostro cosmo. Grandi da due a tre metri, non possedevano un vero e proprio apparato respiratorio e per sostentare il rudimentale organismo si limitavano ad assorbire dal pulviscolo stellare molecole libere d’idrogeno ionizzato e metano, oltre a gas assenti dalla nostra tavola periodica. Privi d’organi o apparati visibili, condividevano disordinatamente ogni emozione e protopensiero: si trattava di un unico immenso sciame monocosciente di asteroidi semiviventi.
Quando fu localizzato il pianeta madre nel cui ventre vulcanico erano generate le creature aliene, gli aggressori appresero a proprie spese che su quel bislacco piccolo astro la chimica organica era totalmente assente e la materia aggregata da legami nucleari debolissimi. Se un disco attraccava al suolo, in assenza di materia soggiacente abbastanza densa da sostenerlo, era risucchiato nelle viscere del pianeta finendo divorato dal nucleo incandescente. Dopo che fu inglobata un’astro-corazzata con equipaggio di oltre tremila guerrieri, lo Sprakkr capì di avere a che fare con un pianeta vivente. L’astro semi-intelligente rimase sottoposto a un tremendo bombardamento laser i cui effetti si propagarono fino al nucleo caldo del pianeta, incubatrice degli Erktij. A poche ore dall’attacco, un informe e viscido ameboide grigio vasto cinquanta chilometri quadrati si levò da un’irregolarità convessa della tremolante superficie planetaria e a velocità indescrivibile aggredì le navi xazquiane che continuavano a rovesciare una pioggia di fuoco. L’impatto dell’ameba con le navi spiazzò ulteriormente lo Sprakkr: la sostanza friabile e spugnosa del mostro Erktij penetrò il metallo quasi si trattasse di acqua versata su un lenzuolo. L’ameboide inglobò dalle navi tutto ciò che avesse componenti liquide inclusi i corpi degli xazquiani, assorbiti come parameci tra i tentacoli di un’ameba. Furono conglobati i reattori all’idrogeno, le scorte di propellente e di lerba, composto cristallino semi-liquido particolarmente gradito a quel popolo, fino al collasso e all’implosione di ogni scafo. Due milioni di xazquiani cessarono di esistere in pochi istanti e da allora mai più un Angur volle ordire offensive in quell’universo senza anime, dove la materia prevaleva sullo spirito fino al punto di rendersi fine a se stessa. Fu quella la prima catastrofica sconfitta conosciuta da Xazq, prodromica alla venuta di un nuovo temibile avversario.
Eoni dopo l’Angur pro tempore, avendo appreso che insieme a qualche centinaio di dischi ummiti erano state sventrate trecento grandi corazzate da sbarco della sua flotta, urlò a tutto il pianeta il suo odio e la sua costernazione. La lezione di Erktij si era ripetuta e se all’epoca Ummo poté festeggiare la prima cacciata del temuto Belzebù, nemico dell’Armonia e divoratore degli spiriti armonici, di contro le colonie leisadi attraversarono una fase di chiaro declino, aggravato da innumerevoli errori di strategia, che nel volgere di pochi cicli condussero i coloni all’esaurimento delle proprie risorse biologiche e minerarie. Di seguito alla distruzione del pianeta natio i pochi superstiti avevano avviato un’affrettata colonizzazione della vicina Terra, sede di alcuni loro piccoli insediamenti. La costruzione di un esteso presidio nel nucleo di Urano e un ulteriore tentativo fallito di terraformazione dell’inabitabile pianeta Venere esaurirono lo scarso materiale umano e tecnologico a disposizione. Infine il fallimento delle affrettate politiche di conservazione genetica, di seguito alla constatata recessività cromosomica lesiade rispetto al primitivo DNA umano, diede l’ultimo input al tracollo definitivo.
-
III
Belzebù, con gli occhi compositi e le nere ali membranose, calò su Xazq dallo spazio profondo e furioso per l’accaduto in un colpo divorò le anime dell’Angur e dei Padroni di Razza, suo folto seguito di idioti. Dopo aver decapitato i vertici del popolo a lui più devoto veleggiò tra gli spazi siderali tendendo le chilometriche ali per intercettare i venti stellari propizi. Quegli imbecilli di xazquiani, creature ingrate e sudice, per mera pigrizia avevano perso una guerra già vinta, addirittura permettendosi di stipulare con Ummo un trattato di pace assolutamente folle! In forza di quel negoziato i suoi più abili procacciatori di cibo erano vincolati a non cacciare più indiscriminatamente per il cosmo, limitandosi a far proprie esclusivamente le anime appartenute ai rifiutatori dell’Armonia. Ciò era inaccettabile, la caccia limitata ai soli suicidi avrebbe provocato la sua ineluttabile morte d’inedia. Abbandonato quel pianeta non più in grado di sfamarlo, si proiettò nel cosmo in cerca di nuove mete dove stabilirsi. Era difficile trovare rifugio in un universo non suo e, per quanto disarmonico e impuro, in gran parte ostile. Le sue immense cavità uditive percepirono miriadi d’invocazioni rivolte da sacerdoti, stregoni, maghi, ciarlatani e pervertiti da ogni angolo del cosmo. Le ali innervate lo spinsero nel luogo dove aveva consumato l’ultimo pasto completo di un’intera urbanità: Leisa.
La fascia di asteroidi tra Marte e Giove ormai non presentava più alcuna vestigia di quell’antica eccezionale civiltà, defunta non appena i semi d’odio ed egoismo da lui sparsi avevano cominciato a germogliare. Con le anime votate dei leisadi aveva pasteggiato superbamente, divertendosi come non mai nell’ascoltare le sofferenze e le reciproche crudeltà che quel popolo si era scambiate durante la rapida e catastrofica guerra civile. Dalla vicina Terra, dove ormai l’uomo stava soffocando geneticamente i tentativi di ibridazione compiuti dagli ultimi coloni leisadi, percepì l’insistente invocazione di una sua adoratrice. Gli occhi compositi focalizzarono da subito una donna gigantesca e grassa che si aggirava, sola e infreddolita, per ripidi sentieri himalayani. Il pasto di una sola anima non giustificava una discesa, oltretutto i suoi adoratori d’ogni razza spesso disattendevano le promesse e rifiutavano di consegnargli la propria coscienza, vanificando le sue macchinazioni. Tuttavia la supplica di quella folle leisade, resa visibilmente ottusa dalla solitudine e da personali sogni inappagati, continuò a infastidirlo. Belzebù per pochi milionesimi di secondo rifletté se esaudire quelle egoistiche preghiere. Alla fine, assunta una forma congeniale a quel contesto planetario, le si parò dinnanzi in forma di glabro gigante cremisi munito di coda, corna e piedi caprini.
Contemporaneamente, nella sua configurazione astrale da smisurata mosca del cosmo planò su Ummo, l’odiato pianeta che aveva sfidato e respinto i suoi accoliti. Invisibile alla vista e agli strumenti di rilevazione si posò sul piatto tetto metallico del tempio di Unukzor, consacrato all’Armonia e vasto venti volte il Partenone. Quel tempio a forma di parallelepipedo, ornato da due file di finestrelle nere sui lati maggiori, nell’interno ospitava il sommo Zeudi, primo sacerdote con i suoi sessantasette adepti, alcune decine di giovani monaci e al piano più alto un gruppo di monaci-astronomi, ritenuti i più illustri scienziati del pianeta. Torreggiava su Unukzor e pur essendo stato edificato in oxozyrio rifletteva in piccola parte la rossa luce di Antares.
Il demonio era consapevole della tradizione, tutt’ora in auge, che voleva gli ummiti sciamare in quel tempio da ogni angolo del pianeta per venerarvi l’Armonia almeno una volta nella vita. Ogni pellegrino dell’epoca recava con sé un tassello di quarzo da cementare sulle pareti laterali. Già al momento della discesa del maligno le pareti inferiori del tempio rilucevano di migliaia di riflessi cromatici, in contrasto al grigio uniforme della volta celeste e alla luce rossa propagata dal disco di Antares, grande e splendente quindici volte il nostro Sole ma non abbastanza da perforare i pesanti gas fotofagi dell’atmosfera ummita. Belzebù percepì chiaro fastidio nell’adagiarsi sulla volta di un luogo sacro, tuttavia si ritenne agevolato nel compito dall’estrema faciloneria della fede di quel popolo, evoluto in campo tecnologico ma assai poco progredito spiritualmente. Convinto del successo, resisté saldamente alle effusioni d’energie positive rilasciate dal tempio e ben presto, sotto forma di miraggio di surku che cammina, prese a tormentare il subcosciente di Zeudi, cercando di farsi accettare quale espressione fisica e concreta dell’Armonia, così da diffondersi attraverso il suo pensiero guida in tutte le menti del pianeta.
Io sono in te, mio fedele sacerdote e a te comparirò. Dammi la tua fede, dammi la tua coscienza...
suggerì in ogni ora e momento, anche nel sonno. Zeudi non era che un sacerdote, non un mago né uno scienziato, per quanto fosse saggio e acculturato faticò a ignorare le profetiche rivelazioni accalcate ossessivamente nel suo inconscio. Non aveva spiegazioni di sorta nelle quali rifugiarsi, a fatica scacciò di mente le cangianti visioni che lo assillarono crudeli. Alla fine, ormai asservito a quello che riconobbe quale benefico spirito armonico, accettò l’ordine della somma Armonia di salire ad attenderla sul tetto del tempio. Accompagnato dai suoi due allievi prediletti ascese attraverso la rampa interna sull’ampio rivestimento. Come da ordini ricevuti tutti e tre invocarono l’Armonia, giurando di consacrarle le proprie anime. Nel nero senza stelle della fredda notte ummita, inusualmente si prostrarono al cielo fino a quando sulle loro teste campeggiò un’enorme macchia più scura del nero cosmico, accompagnata da un inquietante ronzio. Le loro invocazioni si levarono forti all’etere e Belzebù trionfò. Divorò in un istante le loro anime e utilizzò i loro cervelli come cassa di risonanza, sì da diffondere telepaticamente il suo credo menzognero a tutte le menti del pianeta. Di seguito schiantò tutte le intelligenze ummite che dopo avere iniziato ad adorarlo sollevarono qualsiasi tipo di riserva sulla bontà del nuovo culto. In tempi rapidissimi Ummo divenne la nuova dispensa di Belzebù.
-
IV
Zomma il Vecchio, rilevato un affievolimento dello spettro di Antares, da subito ne scandagliò il sistema con onde psicogneute alla ricerca della causa efficiente. Vide l’immonda bestia soggiogare Tackrumy, Zeudi e l’intero pacifico e operoso popolo ummita e comprese che dopo aver distrutto Leisa Belzebù aveva ancora fame. Sapeva che Xazq di seguito alla sconfitta aveva stipulato un trattato di pace insufficiente agli appetiti dell’immondo, ma non aveva immaginato che Ummo potesse arrendersi senza condizioni con tanta facilità. Aveva percepito un suo recente trasvolo vicino alla Terra ed era certo che il bizzarro culto terrestre della dea Kalì nel Pamir, che in quello stesso periodo stava rapidamente scalzando la mite Parvati, fosse riconducibile proprio a quel passaggio. Tuttavia la situazione di quel pianeta era ben più critica, di nuovo bisognava aiutare il suo popolo a respingere il male. Non sapeva dove attingere forze sufficienti a liberare le coscienze soggiogate, in passato le loro preoccupazioni si erano rivolte alla preparazione militare del pianeta e non era mai stato supposto il pericolo di un’aggressione psicogneuta. Le risorse disponibili erano in ogni caso ridotte al lumicino, Leisa non esisteva più da millenni, l’impero coloniale Mu era da tempo in agonia e nel 9.560 A.C. del calendario giuliano, un immenso terremoto oceanico aveva risucchiato sul fondo dell’oceano Atlantico il loro principale stanziamento terrestre. Gli ibridi ottenuti dall’incrocio dei loro geni con gli ominidi entro due generazioni perdevano ogni tratto e carattere leisade, risultando invariabilmente di statura terrestre e senza evidenziare particolari capacità non umane, eccettuati deboli poteri telepatici o psico-cinetici tendenti a scomparire con l’avanzare dell’età. Ormai erano rimasti in pochi, vecchi e sterili, a conservare un sapere divenuto inutile e la consapevolezza d’aver sbagliato. Troppo esigui per combattere ma abbastanza per preservare altre specie dal maligno: proiettò il pensiero intorno a sé in cerca degli altri Vecchi della Galassia, affinché uniti in un simposio connettivo potessero stabilire un comune piano d’azione.
Quel consesso non diede alcun esito, allo stato non avevano a disposizione nuove tecnologie e l’evoluzione umana era lenta, ancora lontana dalla scoperta del volo spaziale. Il messaggio connettivo raggiunse istantaneamente gli ultimi scienziati e sacerdoti ummiti non ancora obnubilati dall’immondo. Prima di cedere i monaci-astronomi diffusero nel sottosuolo cavernoso di Unukzor dei piccoli Sruko ‘del ricordo’, in attesa del liberatore che, a quanto predetto dai leisadi, in un futuro lontano sarebbe venuto dalla Terra a liberarli.
Marjsnat si elevò per i suoi tre metri di statura, danzò sui corpi di alcuni incauti adoratori prostrati per poi divorarli lentamente, affondando le zanne nelle carni inermi. Altri adepti eccitati dalla diabolica ripugnante visione si prostrarono alla dea Kalì, confidando anch’essi nel sommo privilegio di servirle da pasto e di congiungersi a lei per l’eternità.
Le grotte oscure del Karakorum rifulsero di schegge di ghiaccio, il grande fuoco acceso al centro del vestibolo illuminò i volti orientali dei pellegrini richiamati dal potere della dea verso la menzogna, la delusione, il dolore e la morte sicura. Marjsnat aveva scelto di utilizzare in quel modo barbaro i poteri accordatile da Belzebù nel lontano passato. Era nata su Leisa negli anni antecedenti l’immane catastrofe e ancora adolescente era stata assegnata di stanza sulla colonia terrestre di Lnu, poco prima che in madre patria divampasse la guerra civile. Fisicamente era imperfetta, grassa e secondo i canoni leisadi, bassa; dotata di un viso poco avvenente non aveva dato seguito ai precetti inculcatile dagli anziani fin dall’infanzia. Ostaggio delle sue inclinazioni aveva vagheggiato la creazione di un culto autocratico mediante i suoi poteri connaturati, pur sempre di molto superiori a quelli umani.
Tra i leisadi non era frequente l’esistenza d’individui svantaggiati, che sul pianeta di origine venivano assistiti in apposite strutture di recupero e gradualmente reinseriti nel contesto connettivo. Simili strutture di supporto erano assenti sulle colonie planetarie e la giovane Marjsnat, dopo aver rifiutato di collaborare al processo occulto d’agevolazione evolutiva per la razza ospitante, captò la vibrazione collegata al maligno e gli si offrì unilateralmente in cambio dei maggiori poteri che la sua natura di creatura difettata le aveva negato. A seguito dell’incontro con Belzebù prese a divertirsi, eleggendo gli ominidi a proprio trastullo e pasto: adorava la carne dei bambini in specie maschi, la divorava con estrema lentezza godendo delle loro urla strazianti. Amava l’alea di terrore incombente sull’uditorio dei fedeli, tutti soggiogati dal suo pensiero e incoscienti delle atrocità perpetrate.
Belzebù aveva elargito il potere alla persona giusta, impiantando un suo demone astrale nel ventre di quella leisade idiota, creando un’ottima testa di ponte sul pianeta. Per agevolarne le follie perverse le aveva innalzato la statura e reso l’aspetto meno repellente. Periodicamente le impose una forma quadrumane che sbalordisse maggiormente gli ominidi, rinvigorendone l’alone di mistero; lei perorò la sua causa con estrema perizia. Non ritenne possibile che Ummo riuscisse a ribellarsi, un pianeta telepatico popolato da una razza incapace di chiudere la mente alle intrusioni costituiva una facile porta aperta per le sue scorribande psico-induttive. Se poi per mero assurdo gli ummiti fossero riusciti a scacciarlo, la Terra ne sarebbe stata il più accreditato successore ‘gastronomico’. Allorché quell’imbecille riprese a invocarlo si stizzì. Aveva trascurato di procurarle un compagno e si sentiva sola, senza un reciproco col quale completarsi. Idiota! I nati d’ogni specie vivente venivano al mondo liberi e innocenti e non aveva alcun potere coercitivo su chi non lo adorava, men che meno quello di rifornirla di sesso. Decise di ignorare quella preghiera.
Marjsnath continuò per secoli a tormentare e divorare i suoi adepti, recando nel cuore una cupa tristezza da inappagamento sessuale. Belzebù accettò di esaudirla quando ebbe preso atto dell’inarrestabile decadenza del suo credo, ormai incapace di reggere ai colpi infertigli dalle religioni monoteiste e al progressivo distacco degli umani dal sovrannaturale. Fu a causa di quella scelta cieca e affrettata che l’immondo firmò la sua sconfitta, ma fino ad allora dovette trascorrere tantissimo tempo.
-
V
L’epoca che seguitò allo sprofondamento di Mu fu segnata da moltissimi avvenimenti infausti. Belzebù debellò facilmente le ultime sacche di resistenza ummita, i sacerdoti dissidenti ormai allo stremo delle forze si arresero alla nuova Armonia aprendole le menti e dopo aver lanciato un’ultima disperata invocazione d’aiuto nello spazio, si consegnarono all’invincibile nemico. Il maligno s’insediò nel freddo nucleo ferroso del pianeta e ordinò agli ingegneri ummiti di scavare una serie di gallerie e di atri sotterranei, sufficienti a consentire l’accesso dei suoi eletti al proprio cospetto.
Alcuni milioni di anni luce a nord di Antares, Xazq riprese le sue scorrerie agevolato dalle infelicità che Ummo, in ottemperanza al nuovo culto, riversava telepaticamente nello spazio investendo tra gli altri gli abitanti di Askieg, Mulk, Ondijg e Terra, incrementando la diabolica pratica del suicidio fra i principali pianeti abitati. I suicidi si diffusero largamente su Ondijg, pianeta ipermeccanizzato e amorale dove l’imperante democrazia tecno-connettiva aveva svuotato le ambizioni di gran parte dei suoi abitanti, esasperandoli in una noiosissima sopravvivenza senza scopi né stimoli.
L’azione dell’immondo ebbe minore successo su Mulk, piccolo pianeta privo di tecnologie di volo e abitato da esseri dotati di poteri psico induttivi superiori alle altre razze, d’indole pacifica e riflessiva e meno permeabili alla noia.
Su Askieg il demone poté sedersi comodamente in riva al fiume, giacché gli askieghi, esseri primitivi simili a enormi gorilla zannuti e a malapena in grado di lavorare i metalli, similmente ai lemming terrestri usavano ridurre il sovrappopolamento delle loro grandi isole praticando periodici suicidi di massa.
Sulla Terra i tributi di sangue furono limitati e continuativi, il suicidio fu spesso l’unica via d’uscita per i deboli, gli oppressi e gli emarginati di quasi tutti i popoli e le razze. Il maligno scrutò bramoso il succedersi delle tante guerre piccole e grandi che scandirono la storia di quella mal livellata civiltà. La sua personale apoteosi però la raggiunse nella prima metà del ventunesimo secolo, quando l’ascesa militare della Pangermania e il progressivo restringersi delle libertà fondamentali dell’individuo, assieme al dilagare dell’odio e della paura, decuplicarono il numero dei suicidi nel giro di pochissimi anni.
Fu in questo contesto che a diversi anni di distanza l’uno dall’altro nacquero i nostri eroi, giovani uomini e donne che pur avendo di per sé ben poco di mitologico restituirono alla Terra la libertà e ricacciarono Belzebù nel profondo dell’inferno. Vittorio da Pinerolo, Eliana da Gioia Tauro, Hector da Birmingham, Ekaterina da Frunze, Franz da Amburgo, Giuseppe da Barion, Steffy da Alta Granda e su tutti il folle antieroe Boris Zuckowscky da Brno; costoro, pur con evidenti limiti e debolezze, furono gli artefici dei nostri destini.
-
Gli aspetti oscuri dell’esistenza
Il diario apocrifo di Boris Zuckowsky
I
La vita, l’essere, tutto ciò che esiste per me non ha più alcun senso... ormai lo so. In questo carcere di odio probabilmente maturerò una conversione, forse prenderò i voti, chi lo sa. Nulla in ogni caso salverà la mia anima lercia dalle oscure cortine di fumo dell’ade. Sono un uomo senza amore, un maratoneta del sesso, un egoista, un folle e un omicida, ma sono anche l’unico essere che sulla faccia della Terra abbia visto con i suoi occhi l’inferno! Ora che mi accingo a scrivere le mie memorie, di quello che rappresenta un viaggio più allucinante di qualsiasi parto della mente di H.P. Lovecraft, so di essere prossimo a creare frequenti angosce nelle anime di chi mai leggerà, che sprezzante deriderà i miei scritti trattandoli quali ‘boiate’! é mio dovere però far sapere agli uomini, che presto si divincoleranno dal tallone tedesco, di come il male esterno non viaggi mai da solo, che altrimenti batterlo sarebbe un gioco. L’uomo é indifeso di fronte al male interno. La preghiera e l’umiltà forse sono i nostri unici scudi, ma quando li leviamo, chissà perché, sono sempre cariati.
Tutto cominciò in una brutta serata autunnale quando Rossella mi chiamò a vedere sul domovisore le immagini rilasciate dalla sonda germanica Sigfrid I, dopo un’approfondita esplorazione dell’atmosfera di Giove. Il servizio era sorprendente! Il pianeta gigante appariva ricoperto da un oceano di metano e ammoniaca, che rischiarato dalla fioca luce solare assumeva uno splendido color d’oro. Osservavo le meravigliose sequenze e pensò bene di distendersi sulle mie ginocchia, fumandomi voluttuosamente in faccia. Uno scienziato stava spiegando che quel meraviglioso oceano, riscaldato dal nucleo interno del pianeta, manteneva una temperatura superficiale di undici gradi centigradi. Tutto il mondo aveva il fiato sospeso mentre Rossella mi si faceva vicina, strusciandomi il bel viso sul collo.
- Caro, non trovi tutto ciò emozionante?
- Certo, certo cara! - le risposi ironicamente.
Rossella mi ospitava da ormai tre mesi e si può dire che le dovessi tutto: mi sfamava, mi puliva, mi vestiva, dandomi tutto il necessario per vivere. Era un ingegnere ricercatissimo e affermato, bella e volitiva, a detta di tutti i suoi colleghi un’emergente. Le scomparivo letteralmente al fianco; laureatomi tre anni prima in filosofia con un basso punteggio, ero ormai giunto a ventott’anni senza avere né arte né parte. Prima di incontrarla ero vissuto con la mia famiglia fino ai ventisei, poi mio padre mi aveva mandato affanculo ed ero campato alla disperata col sussidio di disoccupazione. Un giorno, mentre facevo l’autostop, era passata lei, e mi aveva da subito coinvolto nel suo bizzarro mondo di emozioni estreme caricando di molto la pressa dei miei complessi di inferiorità avverso il mondo intero. Era sola come un cane e un tantino sadica, col tempo il suo carattere l’aveva rivelata per quella che era in realtà: pazza da legare. Ad esempio, di notte se voleva scoparmi preferiva che mi versassi addosso una boccia di sangue sintetico, così da sembrarle più eccitante e afrodisiaco. Mi teneva quasi segregato in casa amandomi follemente perché la accontentavo in ogni suo desiderio insano, quantunque lei avesse la patata rivolta in orizzontale, cosa che rende arduo l’amplesso per i tradizionalisti, com’ero anch’io una volta. Ormai vivevo apaticamente da mantenuto, equo premio per la mia inconsistenza. Non l’amavo ma non volevo andarmene, poiché quell’immensa casa isolata mi conferiva sicurezza e tranquillità, cose che in mezzo alla strada rimpiangevo a ogni minuto, specialmente quando ciondolavo sull’asfalto vagando da un’agenzia di collocamento a un dormitorio pubblico, schifato dalla gente e solitario. Mi ero perso nelle solite riflessioni, salvo rientrare precipitosamente in me al termine del telegiornale.
- Amore, andiamo a letto? - era la domanda che temevo di più, sebbene il lungo periodo diviso con lei mi avesse psicologicamente preparato.
- Vai Rossella, ti raggiungerò tra un po’. Bevo un whisky e sono da te.
- No. Vorrà dire che berremo insieme.
"Troia di Eva, mi
Recensioni
Recensioni
Cosa pensano gli utenti di Antiche Guerre Cosmiche
00 valutazioni / 0 recensioni