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L'ultimo sogno longobardo
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L'ultimo sogno longobardo

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About this ebook

Un romanzo epico e cavalleresco che, prendendo avvio nel 773 con la battaglia di Pulchra Silva, oggi Mortara, si conclude agli albori del nono secolo.
Mentre Carlo Magno consolida il proprio regno, Brunilde, reclusa nel monastero di Noirmoutier e poi liberata, riprende le redini dell’Aquitania iniziando una feroce lotta per tramandare il ducato ai propri eredi.
Landari, Maggiordomo di Corte di Desiderio, consacra la propria vita all’ultimo erede vivente del Regno Longobardo. Egli metterà in campo forza, astuzia e intelligenza con lo scopo di proteggerlo e assicurargli la possibilità di rivendicare quanto gli spetta per diritto di sangue.
Durante la campagna di Spagna, alla caduta di Pamplona espugnata dalle forze di Carlo Magno, tre ragazzini arabi riescono a sfuggire alle stragi, ma solo l’intervento di un nobile franco permetterà loro di sopravvivere e mettersi in salvo.
Nel 799, l’assalto alle coste provenzali e liguri da parte di una potente flotta araba coglierà di sorpresa tutti i protagonisti della storia costringendoli a battersi per la propria vita, pagare debiti d’onore e affrontare scelte di campo che li segneranno per sempre.
LanguageItaliano
Release dateMay 16, 2014
ISBN9788896608388
L'ultimo sogno longobardo

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    L'ultimo sogno longobardo - Ugo Moriano

    www.ugomoriano.it

    Nomi di regioni, borghi e città in ordine alfabetico.

    Prologo

    Venti di tempesta

    27 aprile 799

    La lama, calata con forza, colpì il legno di cedro della murata con un rumore sordo, l’acciaio affilato penetrò per oltre un dito al suo interno facendo volare in aria alcune schegge. Essa venne estratta immediatamente dopo e, non appena fu sollevata, un getto di sangue scuro si riversò sul legno inzuppandolo.

    Con un grido acuto, un marinaio saraceno ritrasse il braccio destro ormai privo di mano e, agitando il moncherino, ricadde all’indietro sul ponte della galea occupato da decine di suoi compagni accalcati in un furioso arrembaggio.

    Liutperto, con un urlo di sfida, calò nuovamente la sua spada e spaccò in due lo scudo di cuoio bollito di un altro marinaio impegnato a scavalcare la murata, mentre al suo fianco Andreas, con un elegante fendente della sua scimitarra, staccava di netto la testa dal collo di un terzo saraceno.

    - Dietro di te! – Urlò Liutperto mentre arretrava di un passo davanti all’assalto di un nuovo nemico armato con due logore scimitarre.

    Avvertito dal compagno Andreas si voltò e parò un affondo per poi contrattaccare con una gragnola di colpi che sospinse il suo aggressore proprio davanti ad una lancia subito pronta a trafiggerlo, dopo si chinò per sfuggire a due frecce che passarono poco sopra la sua testa finendo, con uno spruzzo azzurro, in acqua e ne approfittò per uccidere un avversario che cercava di risollevarsi dalla trave su cui era caduto.

    La battaglia navale durava da oltre due ore e il sole, incurante dei tormenti degli uomini, era calato all’orizzonte fino a sfiorare l’azzurro del mare tinteggiando di arancione la breve striscia di cielo ancora libero tra le acque e le nuvole nere giunte dal sud.

    Ventitrè giorni prima la flotta greca, composta da nove dromoni e sedici navi mercantili, aveva lasciato il sicuro riparo dell’isola di Naxos e aveva navigato alla volta dell’Italia risalendola lungo il litorale tirrenico. A bordo delle imbarcazioni, tra soldati e marinai, vi erano più di cinquemila uomini a cui andavano aggiunti trecento cavalli ed un certo numero di macchine da guerra.

    La flotta, abbandonate le acque sicure del Mar Egeo, attraversò lo Ionio e superò lo stretto tra Scilla e Cariddi, per solcare il Tirreno sfruttando la spinta delle grandi vele quadre che andava a sommarsi a quella dei remi manovrati dai vogatori.

    Una volta raggiunto il litorale della Tuscia, all’altezza dell’isola Planaria, aveva volto la prua verso il largo fino a raggiungere la Corsica per poi costeggiarla procedendo sempre verso nord. Il viaggio era stato tranquillo e il mare e i venti non avevano ostacolato la navigazione. Le poche volte che alcune delle navi ebbero toccato terra, non appena gli uomini a bordo avevano dato prova di non essere pirati in cerca di bottino, furono accolte benevolmente dalle popolazioni locali sempre disponibili a barattare merci o a mercanteggiare su forniture di alimenti e acqua.

    Dopo essere giunti all’estremo nord di Capo Corso si stavano preparando a deviare verso le coste franche quando si trovarono a tagliare la rotta a un’imponente flotta araba che da ponente stava risalendo la Corsica per assalire il nord Italia ed il sud della Francia.

    Fin dal primo momento a tutti era stato chiaro che la sproporzione di forze avrebbe condannato a sicura sconfitta le navi greche e così l’ammiraglio che le comandava mise immediatamente in atto una strategia difensiva basata su un violento attacco dei nove dromoni contro l’avanguardia saracena seguita da un disperata fuga di tutte le navi da carico.

    Il piano consisteva nel permettere alle più lente imbarcazioni mercantili di sopravvivere fino al calare della notte e poi sfruttare l’oscurità per sfuggire alle veloci galee nemiche. I dromoni si sarebbero dovuti sacrificare per fermare o rallentare la flotta araba. Al calar del buio anche loro, o almeno quelli ancora in grado di galleggiare, avrebbero dovuto cercare scampo in un veloce ripiegamento.

    Il punto di raccolta per tutti i sopravvissuti sarebbe stato in un golfo che si apriva poche miglia a ponente di Albingaunum.

    Liutperto e Andreas erano amici da sempre. Nati e cresciuti nelle imponenti e lussuose dimore della famiglia Nikēphoros, sull’isola di Chio, avevano condiviso un’infanzia spensierata e un’adolescenza suddivisa tra l’impegno dello studio e quello delle armi. Fin da bambini avevano idolatrato Arnolfo, di qualche anno più grande di loro, e da giovani adolescenti erano diventati le sue due ombre inseparabili, dove andava lui, se solo potevano, andavano anche loro.

    Gli abitanti dell’isola, vedendo il trio sempre unito, con i due ragazzini pronti a esaltarsi per qualsiasi idea del ragazzo più grande, avevano iniziato a chiamarli Dioscuri, anche perché entrambi portavano sempre in testa un pileo di feltro.

    Dei due, solo Andreas, scuro di carnagione e con i capelli ricci e neri, era di origini greche essendo figlio di una cugina di Kallistratos Nikēphoros, mentre Liutperto, di pelle chiara e con i capelli castani, era di origini italiane essendo figlio di Euin e Wigilinda, due nobili longobardi di vecchia stirpe adelingia adottati, dopo una perigliosa fuga causata dall’invasione franca del Regno di Desiderio, dalla potente famiglia greca.

    Quando Arnolfo aveva iniziato ad arruolare un esercito per salpare alla volta delle coste franche, era risultato impossibile trattenere i suoi due amici. Inizialmente le famiglie avevano posto il veto sulla loro partecipazione alla pericolosa spedizione, ma poi, comprendendo che avrebbero disobbedito e si sarebbero imbarcati ugualmente, avevano dato a malincuore il loro benestare.

    - Vieni! – Gridò Andreas, iniziando a correre su una delle tre passerelle che percorrevano longitudinalmente lo scafo del dromone. – Se non lo fermiamo quello scanna tutto l’equipaggio.

    Liutperto aveva appena estratto la spada dallo stomaco di un altro sfortunato assalitore e alle parole dell’amico alzò lo sguardo verso la prua.

    Sulla passerella centrale, viscida di sangue e viscere, stava avanzando un saraceno enorme che brandiva una strana arma a metà strada tra una lancia e un’ascia. L’arabo menava fendenti, lasciando dietro di sé solo morti e mutilati. Egli non indossava alcuna armatura ed era nudo fino alla cintola mettendo così in mostra la possente muscolatura del suo torace.

    - Aspettami! – Urlò di rimando Liutperto cercando di raggiungere l’amico senza scivolare sull’asse e cadere all’interno dello scafo dove vi era un ammasso di greci e arabi morti o moribondi; questi ultimi, invece di raccomandare l’anima al proprio Dio, continuavano a lottare urlando e a mutilarsi a vicenda in un ultimo parossismo di violenza cieca.

    - Sbrigati o lo ucciderò da solo! – Gli rispose ridendo l’amico mentre superava agilmente ogni ostacolo che incontrava lungo la corsa.

    Quando li vide sopraggiungere, il saraceno aveva appena tagliato in due un marinaio greco. Con un ghigno sollevò la sua terribile arma e si posizionò sulla passerella centrale preparandosi ad accoglierli.

    Liutperto e Andreas correvano sulle due assi laterali, uno per lato. Se gli antichi dei si fossero affacciati dall’Olimpo a osservare la scena sarebbero rimasti incantati. Ambedue sulla corta tunica indossavano loriche squamate, schineri lavorati a sbalzo gli proteggevano le gambe e portavano sul capo elmi ornati da cimieri, uno nero e uno rosso. Nitidamente illuminati dai frequenti lampi che preludevano a una notte di pioggia, combattevano a braccia nude, i corti mantelli bianchi sulle loro spalle li rendevano perfettamente riconoscibili in mezzo alla bolgia.

    I due, evitando altri combattenti, raggiunsero contemporaneamente il gigante e, prima che lui potesse attaccarli separatamente, gli si avventarono sopra da ambo i lati sfruttando l’agilità tipica della loro giovane età. L’uomo non poteva difendersi da un simile attacco e, essendo abituato a incutere terrore nelle sue vittime, non aveva predisposto alcuna strategia difensiva, ciò lo portò a indugiare un istante di troppo.

    Un momento prima il saraceno spargeva terrore sulla nave e un istante dopo precipitava nella stiva sprizzando sangue da due grandi squarci lungo i fianchi.

    - Il segnale! – Disse Andreas asciugandosi con il dorso della mano il sudore dagli occhi e indicando una lunga bandiera rossa appena issata sull’albero del dromome capitanato dall’ammiraglio della flotta. – E’ ora di smettere di scannare nemici e trovare il modo di abbandonare la battaglia.

    - Allora aiutami a tagliare le corde, così possiamo provare a prendere il largo.- Rispose Liutperto iniziando a mozzare le cime che trattenevano il dromone accanto alla galea che li aveva assaliti.

    - Che macello! – Andreas gettò in acqua due corpi che sporgevano dalla murata e poi respinse un saraceno che stava per balzare nell’imbarcazione. - Speriamo che siano rimasti vivi abbastanza marinai per riuscire a governare la nave, se no la nostra sorte è segnata.

    Nel giro di poco tempo, grazie alla maestria del capitano e agli sforzi di tutti i sopravvissuti, il dromone riuscì a districarsi dal caos dello scontro e a iniziare la sua navigazione verso la salvezza.

    - Andreas, tu, come sempre, sei un uomo incredibilmente fortunato. Dopo una simile battaglia, ti ritrovi con un paio di graffi sulle braccia e una semplice scalfittura su una gamba. Se non fossi un buon cristiano penserei che voi greci siate ancora protetti dai vostri antichi dei.

    Liutperto si interruppe per imprecare a denti stretti mentre un marinaio gli ricuciva una ferita nella coscia destra. L’improvvisato chirurgo, vecchio, sporco e grinzoso, stava utilizzando con perversa soddisfazione e poca maestria una specie di amo e ogni volta che lo inseriva nei lembi della ferita, sulle sue labbra appariva un ghigno poco rassicurante.

    A differenza del suo amico, forse perché era di stazza più robusta, egli aveva rimediato, oltre la ferita alla gamba, altri ricordi dello scontro, un lungo taglio superficiale aveva disegnato una specie di saetta lungo tutto il tratto del braccio destro che andava dal gomito alla spalla, un altro gli avrebbe lasciato una cicatrice sul collo proprio sopra la fine della lorica, infine aveva incassato una gran quantità di colpi che presto si sarebbero tramutati in altrettanti dolorosi lividi.

    - E’ inutile che cerchi delle scuse, - rispose Andreas seduto di fronte a lui con la scimitarra di traverso sulle ginocchia - la verità è che io sono molto più bravo di te a combattere e uso l’agilità invece della forza bruta.

    Quando sull’ammiraglia era apparso il segnale convenuto per la fuga, di nove dromoni a galla ce n’erano solo più cinque e di questi uno stava bruciando e un altro era stato catturato dai saraceni.

    Le tre navi restanti, tutte quante mal ridotte e con equipaggi men che dimezzati, riuscirono a lasciare il luogo dello scontro e a scomparire nelle fitte ombre della sera.

    Il mare, che fino al pomeriggio era rimasto calmo, iniziò velocemente a ingrossarsi, mentre grandi nuvole nere sospinte dal vento incominciarono a scaricare torrenti di pioggia.

    Forse Nettuno stesso, emergendo dalle acque con il suo tridente, decise di dare un degno finale a quel giorno di battaglia perchè durante la notte si scatenò una furiosa tempesta che impedì alla flotta saracena di mettersi all’inseguimento, ma contemporaneamente disperse per il Mar Ligure ciò che restava della flotta greca.

    30 Aprile 799

    Da alcuni anni la via Iulia Augusta, nel tratto tra il borgo di Tabia e il Castrum Andorae, era stata riportata in ottimo stato e in quella zona, sulla sommità della collina, era fiancheggiata da ginestre rigogliose ricoperte di fiori gialli appena sbocciati. Il pomeriggio era caldo e soleggiato e nel cielo completamente sgombro di nuvole, bassa, a ponente, la luna pallida e lattea si scorgeva nitida contro l’azzurro della volta celeste.

    - Alahis, come possiamo riconoscere le fasi lunari? – Domandò Ezio, dopo essersi sistemato meglio il cappello di paglia sulla testa, rivolgendosi ad uno dei cinque ragazzi che lo stavano accompagnando in groppa ad altrettanti muli.

    L’interpellato, con il viso brufoloso e due prominenti incisivi che sporgevano dalle labbra sempre dischiuse, fino ad un istante prima era impegnato a sonnecchiare ciondolando con le mani appoggiate sul basto del suo animale da somma. Colto alla sprovvista, spalancò gli occhi nocciola e, sollevando di scatto la testa, si mise in cerca della risposta giusta senza però riuscire a trovarla.

    - Allora? – Chiese il suo inquisitore con tono burbero. – Non vorrai farci trascorrere tutto il pomeriggio senza averci illuminato, vero? Non credo di potercela fare ad attendere tanto, quindi, vedi di rispondere in un tempo accettabile prima che la luna cali oltre la collina.

    Alahis, fingendo di sistemarsi meglio la veste, cercò aiuto presso i suoi compagni di viaggio, ma questi sembravano tutti assorti nei loro pensieri e nessuno parve notare i suoi sguardi disperati.

    - Claffo, invece di sorridere delle disgrazie altrui, offrici tu la risposta. – Disse Ezio rivolgendosi ad uno dei compagni di Alahis.

    - La gobba della luna è rivolta a levante e pertanto è nella fase calante. – Rispose questi guadagnandosi uno sguardo astioso da Alahis. - Se fosse stata rivolta a ponente, sarebbe stata crescente.

    - Bene. Tra poco arriveremo alla deviazione che conduce alla torre di guardia. Anche oggi lasceremo i muli e il mio carretto vicino alla casa di Mario e proseguiremo a piedi.

    Ezio, medico chirurgo e uomo di grande cultura, non aveva menzionato il suo cavallo, in quel momento impegnato a trainare svogliatamente il carretto, perché ormai tutti già sapevano che Marcoaurelio non avrebbe mai accettato di restare in compagnia degli animali da somma ed avrebbe preteso di essere liberato dai finimenti per poterli accompagnare durante la passeggiata svolgendo un lavoro di vigilanza degno di un cane da guardia.

    La bestia aveva le stesse caratteristiche e portava lo stesso nome di tutti i quadrupedi appartenuti al medico nel corso degli anni e, nonostante portasse il nome del grande Imperatore-filosofo, era brutta come il peccato e con un carattere ombroso e difficile.

    - Padre Teodato porterà il manoscritto?

    Rodulf, il più giovane tra i cinque ragazzi, aveva posto quella domanda perché non riusciva più a resistere alla curiosità di vedere le immagini miniate riguardanti l’arrivo in Liguria del Duca Arnisan. Un mese prima gli era stato concesso di assistere ad un incontro in cui Teodato, monaco benedettino della chiesa dei Santi Nazario e Celso, aveva mostrato a Ezio le bozze fatte con il carboncino. I due, seduti davanti ad un camino acceso, avevano discusso alcuni particolari di una tavola miniata e Rodulf stesso, essendo un buon disegnatore, con sua grande sorpresa era stato coinvolto.

    - Non lo so. La settimana scorsa ha detto di averlo quasi completato, ma il cattivo tempo dei giorni passati potrebbe aver rallentato la sua opera. Il livello delle acque del fossato che corre accanto al monastero si è alzato fino a debordare all’interno del granaio e tutti sono dovuti correre a costruire un argine di fortuna e a spostare i sacchi della farina. Comunque tra non molto lo sapremo.

    Oltrepassata una stretta svolta della strada, si ritrovarono all’incrocio con la via che conduceva alla torre di guardia. La costruzione difensiva, tutta in pietra e alta cinque pertiche, era stata terminata solo tre mesi prima e da allora era sempre presidiata da due uomini armati. Grazie alla sua posizione, chi si trovava nella parte più alta poteva vigilare su lunghi tratti della via Iulia Augusta e contemporaneamente scrutare il mare in cerca di eventuali pericoli portati soprattutto dai pirati saraceni.

    - Bene, aiutatemi a scendere, così poi possiamo proseguire a piedi.

    Ezio, fino a qualche anno prima, per un così breve tratto di strada avrebbe disdegnato il carretto e sarebbe montato in sella al suo brutto cavallo, ma ora iniziava a incontrare qualche difficoltà nel salire e scendere anche da quel piccolo mezzo di trasporto. Nel suo animo si sentiva ancora giovane come un ragazzino, ma il fisico iniziava a risentire degli anni che passavano.

    Sono vecchio. Pensò posando con precauzione i piedi a terra. Ero già considerato un vecchio quando quelli che ora hanno i capelli bianchi erano dei bambini e, anche se madre natura è stata con me più che generosa, so perfettamente che il mio cammino su questa terra sta per giungere al termine. Comunque oggi ho altro da fare che stare qui a compatirmi.

    Quando il tempo lo permetteva, usciva insieme ai ragazzi che da alcuni mesi erano diventati i suoi discenti e li conduceva lungo strade e sentieri utilizzando il percorso per istruirli sulla materia di studio scelta per quel giorno. Ogni martedì li portava con sé e li faceva partecipare al suo incontro con il monaco della chiesa dei Santi Nazario e Celso. Il prelato giungeva sempre accompagnato da alcuni novizi. I due davano vita a lezioni in cui religione e scienza si compenetravano offrendo spesso spunti per discussioni che andavano avanti per giorni.

    Ezio conosceva Teodato da quando era un semplice novizio arrivato da Castrum Cervi. Nove anni prima il monaco, dopo essere stato ospite per un’estate nell’abbazia Colombana di San Siro a Genova, era ritornato nella piana ai piedi di Castrum Diani ed aveva iniziato la sua opera di copiatore di antichi libri. Da allora, tra loro si era stabilita una solida amicizia basata sull’amore per la cultura e la conservazione degli antichi testi. Inizialmente Ezio si recava nel piccolo monastero accanto alla chiesa per trovare il suo giovane amico, poi avevano deciso di alternare le visite e, quando era possibile e il tempo lo permetteva, di incontrarsi a metà strada sulla collina che calando ripida nel mare divideva il golfo di Diano dalle terre circostanti a Unheila, città dove risiedeva il medico.

    Dopo un’accurata indagine la scelta era caduta su un piccolo tratto pianeggiante circondato da pini marittimi subito sotto la torre di avvistamento. Fin da subito il luogo era stato attrezzato con un pergolato di paglia e un paio di tavoli di legno contornati di panche dove i due si accomodavano per parlare o per fare lezione ai ragazzi che li accompagnavano.

    Il medico e i suoi cinque discenti, dopo aver risposto ai saluti degli uomini di guardia sulla torre, raggiunsero il luogo dell’incontro e constatarono che non vi era ancora traccia dei religiosi.

    - La settimana scorsa, i tre novizi che accompagnavano Teodato erano molto più preparati di voi. – Esclamò Ezio sedendosi sulla panca rivolta verso il mare. - Conoscevano a memoria l’uso dei verbi, per non parlare poi della storia del nostro ducato su cui è meglio stendere un velo pietoso. Alle volte mi viene il dubbio che nel campo degli studi l’uso della verga benedetta dall’acqua santa sia molto più persuasivo di tutti i miei discorsi.

    I cinque allievi, dell’età compresa tra gli undici anni di Rodulf e i quattordici di Giovanni, si affrettarono a confutare con enfasi l’ultima affermazione del loro maestro.

    - Visto che il nostro amico monaco tarda, direi che possiamo ripassare velocemente almeno la storia recente del nostro popolo, così forse eviteremo brutte figure. Rodulf, inizia tu e dimmi chi era il nostro Re nel 773.

    - Desiderio, affiancato da suo figlio Adelchi. – Rispose il ragazzino con un sorriso soddisfatto.

    - Bene e tu, Claffo, dimmi chi erano i nostri nemici e poi parlami della guerra.

    Claffo non era bravo come Rodulf, ma compensava la sua minore brillantezza con un grande impegno giornaliero. Egli, quando non doveva svolgere altri incarichi, trascorreva il suo tempo a ripassare quanto gli veniva insegnato durante le lezioni e spesso disertava i giochi dei suoi coetanei per potersi preparare ad eventuali interrogazioni.

    - I nostri nemici erano Carlo, re dei Franchi e Papa Adriano I. La guerra scoppiò nel 773 quando Carlo, su richiesta del papa, oltrepassando il passo del Moncenisio invase l’Italia. Solo noi, uomini del ducato di Asti, abbiamo affrontato e sconfitto gli invasori, mentre il Re e tutti gli altri duchi, schierati alle Chiuse di Susa, non hanno combattuto e si sono ritirati nelle loro città. – Il ragazzo fece una pausa per riprendere fiato e per un istante il suo sguardo si posò su una piccola lucertola verde che, incuriosita dalla loro presenza, facendo guizzare la lingua era salita sopra uno scoglio accanto ai tavoli. - Invece, il nostro Duca Arnisan, alla testa dei suoi uomini, si è battuto, sempre vincendo, in tre grandi battaglie e, una volta arrivato qui, ha fondato il ducato di Unheila, dove ancora oggi comandiamo noi longobardi.

    - E’ proprio vero che oltre a noi nessuno ha combattuto? Dimmelo tu, Alahis.

    Mentre poneva la domanda, alla mente del medico si affacciarono le immagini della grande battaglia di Pulchra Silva, combattuta nell’autunno del 773, dove in un solo giorno, tra longobardi e franchi, caddero oltre settantamila uomini.

    - Mi pare di no, come ha detto Claffo solo noi abbiamo affrontato gli invasori. Mio padre era con il Duca anche quando hanno combattuto sulla piana di Ormea.

    Ezio che solo due settimane prima aveva raccontato il grande scontro con molti particolari spiegando chi erano i condottieri e quali erano state le conseguenze, dovette trattenere un moto di stizza.

    - Pulchra Silva! Questo nome non ti dice nulla?

    Lo sguardo stupefatto di Alahis gli fece comprendere che il ragazzo, mentre lui si era dilungato nelle spiegazioni, molto probabilmente sonnecchiava o pensava a tutt’altro che non alla loro storia.

    Marcoaurelio fino a quel momento aveva annusato svogliatamente l’erba circostante poi, percependo il tono di disappunto nella voce del suo padrone, rilasciò un fragoroso peto e, sollevando le labbra per mostrare i grandi denti, appuntò la propria attenzione sul giovane che si ritrasse intimorito.

    - Giovanni, spiegaci tu come mai siamo qui.

    - Hem…Cariperto, il duca di Aquitania, …ha cercato in tutti i modi di sconfiggerci, prima sul passo del Monginevro, poi nelle gole della Val Chisone…e infine a Ormea. – Il ragazzo fece l’ennesima sosta, quasi dovesse cercare nella sua testa, una ad una, le parole e poi metterle insieme per comporre un discorso. Non aveva particolari problemi nell’apprendimento e dimostrava sempre una grande attenzione, ma al momento di parlare faticava molto a esprimersi - Noi abbiamo sempre combattuto bene e durante l’ultima battaglia … Cariperto è stato ucciso dal nostro duca.

    - Dopo, il Duca Arnisan è venuto in riva al mare. – Disse interrompendolo Alahis, per dimostrare che anche lui era preparato. – Ha fondato la città di Unheila e creato il nostro ducato.

    - Ah, vedo che ti è ritornata la memoria. – Esclamò il medico lasciando che la sua voce trasudasse incredulità. – Allora, sicuramente mi saprai dire i confini delle nostre terre.

    - A levante, lungo la costa, il confine si trova sulla collina dopo Castrun Andorae. C’è un nostro presidio sulla Iulia Augusta.

    - E a nord?

    - Ormea?

    - No, a Ormea c’è un nostro castello, ma le terre del ducato arrivano solo fino a San Pietro del Testico, dove stiamo ricostruendo l’antico castrum. - Rispose Rodulf prima che Ezio iniziasse a inveire contro Alahis. – A ovest il confine arriva fino al torrente Argentina e il borgo fortificato di Tabia, anche se Porto Maurizio con suoi borghi è solo una nostra città alleata.

    - Trasoald, se le battaglie si sono svolte nel 773, da quanti anni il nostro saggio Duca ci sta governando?

    Il ragazzo interpellato dal medico dovette sforzarsi di fare una sottrazione a mente, ma la matematica, ammesso che ci fossero materie in cui lui eccelleva, non era tra queste e così, dopo essersi grattato furiosamente la testa, cercò di fare il calcolo usando le dita delle mani, senza però riuscire a venirne a capo. Le sue labbra si erano contratte mentre, sempre più rosso in volto, iniziò a balbettare numeri sottovoce nella speranza di indovinare il risultato.

    - Ventisei! – Urlò Ezio battendo un pugno sul tavolo. - Forse Arnisan aveva ragione quando mi disse che con voi stavo perdendo tempo. Quasi quasi rinuncio e vi affido alle cure del Maestro d’armi, in fondo per menare colpi di spada e poi finire infilzati come polli non è così indispensabile saper leggere e scrivere, né conoscere i testi di Omero, Orazio e Andronico.

    - No, maestro …

    Il rumore di un cavallo lanciato al galoppo li fece voltare tutti in direzione della via che avevano da poco percorso e, dopo qualche istante, videro apparire oltre l’ultima curva un cavaliere impegnato a spronare la propria cavalcatura.

    - Cattive notizie. Solo loro riescono a fare correre un uomo in quel modo. Preparatevi tutti a partire. – Disse Ezio alzandosi dalla panca dietro al tavolo.

    L’uomo si fermò solo quando fu praticamente in mezzo a loro e, senza scendere dalla sella, si rivolse al medico.

    - Warin mi ha inviato a cercarvi, ha bisogno di voi. Vuole che appena possibile lo raggiungiate.

    - Va bene, Ronzone. – Rispose Ezio. – Ma per poterlo fare mi dovresti dire dove devo andare e, già che ci sei, anche il motivo di tanta urgenza.

    - Il Siniscalco si trova alla foce del fiume. Due pescatori sono ritornati a terra portando quattro corpi trovati in mare e dicono che ne hanno visti molti altri galleggiare a meno di due miglia dalla costa.

    - Saranno marinai annegati durante le tempeste dei giorni scorsi. – Suggerì Trasoald riferendosi al maltempo che aveva imperversato fino a due giorni prima. – Le onde del mare arrivavano fino ai piedi della collina. So che hanno addirittura strappato dalla terra alcuni alberi.

    - L’altra sera mio padre ha detto che nessuna nave avrebbe potuto salvarsi in una simile tempesta. – Gli fece eco Alahis. – E’ per questo che è sempre molto pericoloso muoversi per mare, arrivano le nuvole, si alza il vento e in un attimo il mare inghiotte le barche e i pescatori che non sono riusciti a fuggire a riva.

    - Io so che pochi anni fa un mostro marino ha…

    - Sì, un mostro con una bocca…

    - Basta così! Non vi porto con me per stare ad ascoltare le vostre sciocchezze – Esclamò Ezio interrompendoli. – Ritorniamo dai muli e andiamo a vedere questi cadaveri.

    Marcoaurelio in quel momento, disdegnando tutti i presenti, si stava grattando la schiena contro il tronco di un pino che cresceva poco più a valle. La bestia, quasi avesse compreso le parole del medico, emise un sonoro sbuffo, concimò abbondantemente una pianta di rosa canina e, senza bisogno di sollecitazioni, si avviò verso il punto dove solo poco tempo prima avevano lasciato il carretto.

    - Tu rimarrai qui ad aspettare Teodato. Gi farai le mie scuse e gli dirai che l’incontro di oggi è rimandato alla prossima settimana. – Disse il medico rivolgendosi a Trasoald che si era incamminato baldanzosamente insieme ai suoi compagni.

    - Ma perché proprio io! Potrebbero restare Alahis o Giovanni. – Protestò il ragazzo bloccandosi di colpo lungo il sentiero.

    - Vero, ma io ho deciso che sarai tu a fermarti e così sarà. Approfitta del tempo a tua disposizione per ripassare le sottrazioni e, perché no, anche le somme, così la prossima volta che ti rivolgerò una domanda saprai rispondere in modo dignitoso.

    Il tragitto dalla collina fino al torrente che scorreva a valle fu compiuto velocemente e in poco tempo si ritrovarono a percorrere una delle strette vie sterrate, aperte negli anni precedenti per permettere alla popolazione locale di muoversi agevolmente tra le fattorie e i campi, prevalentemente coltivati a grano e farro. Quando imboccarono la larga strada lastricata che, incrociando la via Iulia Augusta, portava dalle porte di Unheila fino alla riva del mare, poterono aumentare l’andatura e dopo poco si ritrovarono in prossimità delle piccole case dei pescatori edificate vicino alla spiaggia sassosa che si apriva a levante della foce del flumen Impero.

    - Eccoli, sono loro che hanno trovato i cadaveri. – Disse Ronzone indicando due pescatori attorniati da un capannello di uomini e donne. Poco distante, distesi sui ciottoli grigi e rotondi, vi erano quattro corpi accanto ai quali vi erano Warin e un paio di soldati.

    Prima di raggiungere il gruppo, Ezio si fermò e scese dal carro. Volgendo lo sguardo verso ponente, riparandosi con la mano gli occhi dai raggi del sole che stava iniziando a calare dietro la collina, osservò l’azzurro del mare su cui si intravedevano le sagome di un paio di barche uscite a pescare. Sulla sua destra sfociava il torrente che per un tratto segnava anche il confine tra le terre del Ducato di Arnisan e il borgo alleato di Porto Maurizio che in quel momento, con le sue mura, si stagliava nitido contro lo sfondo del cielo.

    - Seguitemi. – Disse rivolto ai quattro ragazzi che lo avevano accompagnato.

    Preceduto da Rorzone e seguito dai suoi discenti, Ezio raggiunse Warin che lo salutò con un cenno del capo e poi portò la sua attenzione sui cadaveri restituiti dal mare.

    Due dei corpi erano completamente nudi, mentre gli altri due erano ancora vestiti e questo permise al medico di identificare all’istante la loro provenienza.

    - Non sono sicuramente morti durante la tempesta dei giorni scorsi, questi corpi sono rimasti in acqua diverso tempo. Sicuramente sono annegati alcuni giorni fa.

    - I pescatori dicono che ne hanno visto altri. – Disse Warin rivolgendo lo sguardo verso le basse onde che lambivano la spiaggia e poi alzandolo verso l’orizzonte, quasi in cerca della sagoma di una nave. – Durante i temporali dei due giorni scorsi il mare è sempre stato molto agitato. Siete sicuro che non siano marinai di una nave affondata durante la tempesta?

    - Ne sono sicuro. Sono in acqua da più tempo. Le correnti li hanno trascinati davanti alla nostra costa, ma sono morti altrove.

    - Quindi che cosa ne facciamo?

    - Chiamate un prete e poi fateli seppellire. Io non posso fare nulla per loro.

    - Hemm…Possiamo rimanere …qui? – Domandò Giovanni facendosi portavoce dei desideri di tutti i suoi compagni.

    - Rimanete pure. Vi attendo domani pomeriggio perché riaffronteremo Pitagora e la filosofia dei numeri naturali, l’agrimensura e ripasseremo ancora le tabelline perché ne avete un gran bisogno.

    A quelle parole i ragazzi mostrarono segni di sconforto perché Ezio prendeva molto sul serio il suo incarico d’insegnante, ma poi riportarono la loro attenzione sui cadaveri ancora stesi sulle pietre e ritrovarono tutta l’eccitazione che li aveva accompagnati fin sulla spiaggia.

    Due di quei morti indossano vesti di foggia greca. Devo parlare immediatamente con Arnisan. Se il mare è cosparso di cadaveri greci, vuol solo dire che la spedizione è partita, ma poi qualcosa è andato storto. Pensavo di avere più tempo, in fondo sono anni che la progettavano, ed invece si sono mossi senza avvisarmi. Temo di aver atteso troppo prima di mettere Arnisan al corrente del segreto che custodisco da decenni.

    Incalzato da quel pensiero, Ezio era risalito sul carro e, per una volta incitando a gran voce Marcoaurelio, aveva imboccato la carreggiata che portava alla città di Arx-Unheila.

    Lungo la via che dalla piana circostante la foce del fiume portava al castello, vi erano campi coltivati e appezzamenti arati da poco, intervallati da uliveti e vigneti. Non appena la strada, in quel tratto larga a sufficienza per lasciar transitare due carri affiancati, iniziò a salire verso la cima della piccola collina, egli dovette rispondere ai saluti delle donne e dei bambini seduti davanti alle case. Nel corso degli anni fuori dalle mura si era formato un villaggio in cui risiedevano numerosi artigiani attirati in quel luogo dalla protezione che gli uomini e le fortificazioni soprastanti riuscivano a garantire, oltre che dalla costante richiesta di maestranze necessarie alla vita economica del ducato.

    Se solo mi avessero inviato un messaggio l’autunno scorso! Ormai da decenni in questi mari non si vedono navi greche e pertanto temo che quegli annegati siano il triste segnale che Arnolfo ha finalmente deciso di mettere in pratica i suoi propositi senza valutare a fondo le difficoltà del momento .

    Perso nei suoi pensieri, si riscosse solo quando giunse ai piedi delle mura, alte oltre due pertiche, che circondavano tutto il borgo. Le robuste fortificazioni perimetrali di Arx-Unheila erano ormai completate, così come la grande torre in cui risiedeva Arnisan e la sua piccola corte, mentre le due torri alte tre pertiche, a base quadrata, poste sul lato sud, agli angoli delle mura, erano in via di completamento. L’accesso all’interno dell’abitato avveniva attraverso un gran portone in legno di quercia, rinforzato da sbarre di ferro e chiodi sporgenti che, come sempre, in quel momento era aperto per permettere a tutti di entrare e uscire senza impedimenti. Le grandi porte venivano chiuse solo di notte quando ormai tutti gli abitanti erano rientrati nelle loro case.

    Salutando con un cenno del capo le guardie accanto all’ingresso, il medico guidò il carro fino davanti al castello edificato a completamento delle mura sul lato nord ovest delle fortificazioni.

    La costruzione, più che altro un massiccio torrione in pietra in cui di frequente anche lui viveva, era stata terminata solo una decina d’anni prima. La struttura era stata progettata principalmente come parte del sistema difensivo e solo secondariamente come dimora del Signore della città. Non si era badato molto alle rifiniture privilegiando la componente più militare della fortificazione; ogni particolare di quell’edificio, come d’altronde anche la pianta cittadina, rifletteva il carattere pragmatico di chi, ormai oltre venticinque anni prima, l’aveva fondata.

    Dopo aver consegnato il carro, a cui era aggiogato un Marcoaurelio dall’umore più ombroso del solito, ad un riluttante giovane stalliere che già conosceva la bestia, Ezio varcò l’ingresso del castello e si ritrovò in un ampio salone.

    Il locale occupava due terzi del piano terra della struttura e fungeva da sala da pranzo per tutti coloro che abitavano all’interno del torrione; con l’aggiunta di altri tavoli, si trasformava in un approssimativo salone delle cerimonie. La restante parte comprendeva una cucina con un grande camino, una dispensa arredata con scaffali sempre stracolmi di conserve, un ampio locale adibito a bagno dotato di servizi igienici ricostruiti su modello di quelli romani e, per finire, una piccola armeria in cui venivano conservate le armi del Duca.

    - Dove posso trovare Arnisan? – Domandò il medico togliendosi il cappello di paglia per vederci meglio.

    - Non…io non lo so. – Rispose Ariperto, lo scudiero del Duca, mentre cercava di deglutire quanto aveva in bocca.

    - Come sarebbe a dire che non lo sai? Sei ancora il suo scudiero vero? Forse, quando lo vedrò, farei bene a chiederlo a Arnisan.

    Il ragazzo, dalle braccia robuste e dalla corporatura ben sviluppata nonostante avesse appena compiuto quattordici anni, quasi si strozzò e il suo volto divenne rosso porpora.

    Ariperto era lo scudiero di Arnisan da quasi tre anni e tra non molto sarebbe diventato cavaliere; fin da quando era stato scelto per quest’incarico si era mostrato attento e volenteroso, ma non era minimamente tagliato per quella particolare vita al diretto servizio del Signore della città. Era molto bravo con la spada e l’arco, coraggio e ardimento non gli mancavano, ma assolutamente non riusciva a svolgere i compiti di uno scudiero e finiva sempre per cacciarsi nei guai.

    - Lo è, lo è. - Rispose una voce femminile proveniente dalla dispensa. - Questa mattina però, ancora una volta, non è arrivato puntuale per la colazione del suo Signore e così è finito confinato per dieci giorni in cucina, a fare da sguattero.

    - Eithne, tu sicuramente saprai indicarmi dove posso trovarlo. – Disse Ezio voltandosi verso la donna che era entrata nel salone.

    Eithne era un’alta matrona di origine romano-gotica che ormai da anni sovrintendeva alla casa del suo Signore con piglio ferreo. Abbigliata con lunghe vesti perennemente profumate di lavanda su cui portava grembiuli sempre immacolati, guidava con inflessibilità le servette alle sue dipendenze e controllava le cuoche e la dispensa. La donna portava i folti capelli ormai candidi acconciati in una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra e tiranneggiava tutti coloro che abitavano nel castello, Arnisan compreso.

    - E’ andato a Castrum Andorae, da Pietro. – Rispose piazzandosi di fronte al medico e lasciando che dalla sua voce trapelasse il suo scontento. – Questa sera ceneranno insieme e poi, quando ritornerà, questa notte io dovrò sopportare i suoi lamenti. Continua a non capire che è vecchio e non può più mangiare e bere senza limiti.

    - Allora non preoccupatevi perché, dopo quello che gli riferirò, sono certo che dimenticherà la cena e rientrerà immediatamente al castello.

    - Cattive notizie? – Chiese la donna preoccupata dimenticando immediatamente ogni scontentezza.

    - Non lo so, ma temo che comunque, ancora una volta, cambieranno la vita di tutti noi.

    Ezio si voltò per uscire, ma in quel momento dalla porta entrò un uomo trafelato che, senza esitare, si diresse verso il medico.

    - Sono Lucio, il marito della nipote di Paolo, il Console di Porto Maurizio. - Disse dopo aver preso fiato.

    - Ti riconosco, ci siamo incontrati alcune volte nella casa di tuo suocero. Che cosa accade? – Chiese Ezio vedendo l’uomo in preda ad una grande agitazione.

    - Mia moglie sta morendo e con lei morirà anche mio figlio. Da quasi due giorni sta cercando di partorire, ma ormai le donne dicono che non c’è più nulla da fare, il bambino non uscirà dalla sua pancia e così moriranno tutti e due.

    Guardandolo meglio, Ezio si ricordò bene di lui perché era stato presente quando aveva sposato la nipote prediletta del signore di Porto Maurizio e riusciva a ricordare anche la sua giovane moglie, una ragazza che poteva avere sì o no quindici o sedici anni.

    Vedendo che il medico non parlava, il ragazzo, che aveva solo diciannove anni, gli si avvicinò e gli afferrò una mano guardandolo con sguardo implorante, quasi si attendesse un miracolo per il solo fatto di avergli parlato.

    - Mio suocero dice che solo voi potete ancora salvarla e mi ha ordinato di correre a cercarvi. E’ vero che riuscirete a salvare mia moglie e mio figlio?

    Ezio doveva assolutamente parlare con Arnisan, ma contemporaneamente non poteva lasciare quella ragazza al suo destino.

    Le donne morivano di parto, questa era la realtà della vita, ma lui non poteva pensare di abbandonare madre e figlio alla loro cattiva sorte senza aver tentato di salvarli. Aveva atteso oltre venticinque anni per raccontare alcune cose a Arnisan e probabilmente un giorno in più non avrebbe aumentato la sua ira, quindi decise di andare a Porto Maurizio.

    Parte I

    Il crollo del regno

    Capitolo 1

    10 ottobre 773

    L’unico basso promontorio che, nel raggio di un paio di miglia, si elevava per circa tre pertiche sulla piatta piana circostante, era interamente coperto da una macchia di grandi querce che con le loro fronde, ancora ricoperte di foglie gialle e marroni, formavano un intreccio talmente fitto da oscurare a tratti la volta del cielo. Sul terreno sottostante crescevano macchie di cespugli spinosi intervallati da spazi ricoperti d’erba a tratti ancora ingiallita dalla prolungata siccità estiva. Due uomini in armi erano fermi sul vertice di quel trascurabile, ma strategicamente importante, rilievo e stavano osservando la pianura che si allargava davanti a loro.

    - Non sembrano intenzionati a muoversi. Sono accampati da tre giorni e si limitano ad attendere il nostro arrivo.

    Colui che aveva parlato era il più anziano dei due. Cinquantadue anni ben portati, fisico robusto, testa leonina, capelli e barba grigi e voce profonda. Il suo nome era Rorgone, Conte di Soissons e Primo Paladino del Regno Franco. Per anni aveva combattuto agli ordini di Pipino il Breve e ora era lo stratega di fiducia di Carlo Magno e principale artefice delle sue vittorie, come in precedenza lo era stato per molte di quelle del padre.

    - Pessima strategia. – Rispose Carlo Magno - Se a capo dei Longobardi vi fosse stato Giulio Cesare, a quest’ora, approfittando del fatto che le mie truppe sono scaglionate per oltre venti miglia, ci avrebbe già impegnato in battaglia e probabilmente, nel giro di un paio di mesi, si sarebbe seduto sul mio trono. Avrebbe spartito le conquiste tra i suoi uomini di fiducia e la mia terra sarebbe ritornata a chiamarsi Gallia.

    - Allora buon per noi che a capo dei longobardi ci sia Desiderio e non il tuo Giulio Cesare.

    Rorgone era cosciente che le forze franche stavano correndo un grosso rischio. In quel momento, schierati alle loro spalle, vi erano solo la cavalleria pesante e parte di quella leggera, in tutto non più di diecimila uomini, mentre le forze avversarie dovevano ammontare a circa sessanta o settantamila soldati. Entro sera sarebbe giunta una parte della fanteria leggera, ma il resto dell’esercito sarebbe arrivato solo il giorno successivo.

    - Cesare con tre o quattro legioni ben addestrate, forte della loro mobilità, ci avrebbe attaccato e poi, sbaragliati noi e l’avanguardia, sarebbe risalito lungo la nostra colonna impegnando di volta in volta le truppe dei miei vassalli costringendoli così a combattere isolati gli uni dagli altri. Una volta privati del loro Re, Duchi, Conti e Paladini avrebbero pensato solo a mettersi in salvo al di là delle Alpi.

    Carlo Magno da alcuni mesi era letteralmente infatuato dell’antico dittatore romano. Poco prima di intraprendere la campagna d’Italia aveva scoperto una copia del De Bello Gallico e, non essendo lui in grado di leggerlo, ogni sera invitava alla sua tavola uno degli scrivani al suo seguito, questi, tra una portata e l’altra, gli leggeva alcune pagine dell’opera che narrava la conquista della Gallia. Non era infrequente che lo stesso brano se lo facesse rileggere più volte e, dopo ogni lettura, ne discuteva tattiche e strategie con i suoi uomini più fidati.

    - Desiderio, anche se lo volesse, non può muoversi. E’ già un mezzo miracolo che sia riuscito a riunire i suoi duchi e a convincerli ad affrontarci qui, davanti a Pulchra Silva. – Rorgone smise di osservare il campo nemico, quasi avesse ormai visto tutto quello che c’era da vedere e si appoggiò con la schiena contro il tronco di un albero. - Metà dei suoi Duchi pensa solo come sopravvivere alla guerra, l’altra metà trama per sostituirlo alla guida del regno e tutti insieme si scervellano per trovare il modo di restare a capo del loro ducato se noi vinceremo la guerra. Sarei stupito se potesse contare sulla lealtà di almeno un paio di suoi vassalli. Forse l’unico che si era veramente schierato al suo fianco è stato il Duca di Asti, ma ormai lui non è più un nostro problema.

    Sentir parlare del Duca di Asti fece venire in mente a Carlo le vicende legate al suo arrivo in Italia e la precipitosa ritirata dei Longobardi dalle Chiuse di Susa. La rovinosa serie di disfatte, subite dalle forze del ducato di Aquitania lanciate all’inseguimento di Arnisan e dei suoi uomini, aveva quasi pregiudicato i brillanti risultati ottenuti dopo l’avanzata oltre il Moncenisio. Mentre le truppe agli ordini del Re si dirigevano, senza praticamente incontrare resistenza, verso Pavia, Cariperto e i suoi Aquitani passavano d’in sconfitta in sconfitta. Ogni volta che ci pensava provava un furioso moto di rabbia e rimpiangeva di non aver potuto decapitare personalmente quel suo incapace vassallo.

    - Tu sei sempre dell’idea che devo nominare Ansgard Conte di Bordeaux e reggente di Aquitania?

    - Sì. Solo lui può assicurarci, se non la piena fedeltà dei suoi uomini, almeno la loro collaborazione. – Rispose Rorgone. - Non possiamo permetterci defezioni o peggio ancora, rivolte. Questa volta la lotta tra noi e Desiderio si risolverà in un bagno di sangue e tu dovrai poter contare su ogni singolo soldato del tuo esercito.

    - Questo lo so, ma non riesco a fidarmi di quell’uomo. Mi ha portato Brunilde, la sorella di Cariperto, perché io potessi condannarla, ma prima di allora ha sempre seguito suo fratello, cercando di entrare in tutti i modi nelle sue grazie. Poco prima che il duca morisse era diventato il più importante tra i suoi consiglieri.

    - E’ vero, ora che si sono tutte riunite, le forze Aquitane ammontano a oltre cinquemila uomini, tutti molto ben addestrati e armati. Tu non puoi farne a meno. Il loro Duca è morto, sua sorella l’hai rinchiusa in monastero, ma se non la sostituirai con qualcuno che abbia un minimo di ascendente su di loro, non riuscirai a tenerli dalla tua parte.

    Carlo rimase in silenzio, prendendo tempo, come faceva sempre quando doveva assumere una decisione importante. A poche centinaia di metri di distanza, i venti cavalieri della sua scorta, attendevano osservando nervosamente il territorio circostante in cerca di segni che rivelassero eventuali pericoli.

    Egli aveva trentun anni e solo da un paio, dopo la morte di Carlomanno, si era fatto eleggere re di tutti i Franchi. Con un atto d’imperio aveva convocato un’assemblea di grandi feudatari a Corbonacum e, ignorando i diritti di successione dei suoi nipoti, aveva praticamente imposto a tutti i presenti di eleggerlo al trono, come era stato per suo padre Pipino. Di corporatura imponente, con una folta capigliatura che gli scendeva fino alle spalle, portava una folta barba e grandi baffi. Tutto in lui imponeva rispetto e l’unica nota stonata era la voce dal timbro quasi in falsetto. Il suo carattere non era facile e spesso si lasciava andare a sfuriate memorabili, ma era anche un gran calcolatore e ponderava sempre ogni mossa. Amava mangiare e bere e nella sua dieta non mancavano mai carni rosse e selvaggina. Non sapeva resistere all’arrosto di maiale allo spiedo costringendo a volte i suoi cuochi a lunghe ricerche tra ville e fattorie.

    - Hai notato quanti corvi ci sono in queste terre? – Domandò cambiando completamente discorso.

    Rorgone volse nuovamente lo sguardo sulla piana antistante dove, nella tarda luce del pomeriggio, alcune decine di grossi uccelli neri si spostavano, facendo brevi voli, da un albero all’altro.

    - Quelle bestiacce, sicuramente figlie del demonio, sembrano conoscere sempre in anticipo il posto dove gli uomini si preparano a combattere. Domani ne arriveranno molte altre e, a battaglia finita, ne vedremo centinaia impegnate a bere sangue e ingozzarsi con la carne dei morti o, peggio ancora, dei feriti gravi non più in grado di difendersi dai loro lerci becchi.

    Il Conte di Soissons aveva provato sulla propria pelle una simile esperienza. Durante una delle campagne di Pipino il Breve, in una battaglia tra Franchi e Sassoni, era rimasto seriamente ferito ad una gamba e un corvo, approfittando del suo stato di incoscienza dovuto alla gran perdita di sangue, aveva iniziato a strappare pezzi di carne dalla sua ferita. Nel giro di pochi minuti altri tre volatili si erano aggiunti al banchetto e solo l’arrivo di due soldati aveva salvato Rorgone da un’orribile morte. Da allora lui, ogni volta che poteva, uccideva ogni corvo che commetteva l’errore di arrivargli a distanza di tiro con l’arco.

    - Va bene. Nominerò Ansgard Conte di Bordeaux e reggente di Aquitania.

    Carlo, dopo quella decisione, si sistemò meglio il pesante mantello orlato di pelliccia sulle spalle, poi fissò il proprio sguardo sul suo fidato paladino e pose la domanda che da settimane lo tormentava.

    - Se Desiderio è attorniato da duchi malfidati, io su chi posso contare veramente?

    Dopo la morte di Pipino il Breve egli aveva ereditato solo una parte del regno ed ora, anche se il papa Adriano I aveva riconosciuto il suo diritto a regnare su tutti i Franchi, egli non si sentiva sicuro della fedeltà di molti dei suoi vassalli. La sensazione era alimentata anche dal deterioramento dei suoi rapporti con la madre Bertrada che, dopo non averlo appoggiato nelle sue scelte e aver criticato la sua decisione di

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