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Per ora una cosa da nulla
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Per ora una cosa da nulla

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Un testo critico che, spaziando nella vita di Dino Buzzati e nelle sue opere, ne indaga in modo del tutto originale le sue angosce legate in particolar modo all'idea di malattia che, col tempo, assume aspetti sempre più totalizzanti finendo per divenire costante e "mito" personale e letterario. Originale è anche l'approfondimento, sempre sul tema, dell'attività teatrale dell'autore. Un libro per chi ha amato questo scrittore eclittico e polivalente e ancora lo trova più che attuale.
LanguageItaliano
Release dateFeb 25, 2016
ISBN9788893325288
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    Per ora una cosa da nulla - Paolo Francesco Mazzoli

    1965

    CAPITOLO 1

    MALATTIA E AUTORE

    Il giorno prima di morire Buzzati rilasciò una breve intervista al collega Romano Battaglia. Lo scrittore è veramente in condizioni critiche eppure disserta con razionalità non del suo male, ma del male in ipotesi, di quello che potrebbe attendere chiunque dietro l’angolo e poche pagine dopo, alla domanda Che cosa stai preparando? risponde: Sto scrivendo un libro. Impiegherò molti anni... un libro che parlerà della morte che è lì che ci attende ad ogni ora del giorno e della notte. È un avvenimento imprevedibile (...) Io, per esempio, potrei morire domani.

    1.1 CRONACA DI UNA MALATTIA ANNUNCIATA

    È la sera del 28 gennaio 1972, fuori nevica in modo strano³¹ la città è ovattata, onirica, surreale³². In una clinica milanese, stroncato da un male incurabile (lo stesso che aveva posto fine ai giorni di suo padre), è da poco morto Dino Buzzati.

    Romano Battaglia, giornalista e amico dello scrittore, ricordando qualche anno più tardi il fatidico giorno fece giustamente presente che si era inesorabilmente manifestato quel male (...) (che) per tutta la vita (...) in agguato dentro di te, come un gatto selvaggio sta dietro una siepe pronto a saltare addosso alla preda³³.

    Questo spettro che lungo i quarantanni di attività dell’artista bellunese con ostinazione pedina l’uomo, l’ossessiona ma lo ispira anche, e gli si presenta e gli sfugge continuamente, come nel racconto Ombra del Sud³⁴ o come nel Colombre³⁵, per alla fine mostrarglisi e fargli provare di persona quel dramma decine di volte rappresentato, non meraviglierebbe se si scoprisse essere il personaggio alla fine palesatosi di una novella buzzatiana o, per meglio dire, il ‘tartaro’ di cui, scrutando il futuro, si attendeva l’arrivo.

    Il parallelo tra fiction e realtà è tesi sufficientemente proponibile e del tutto coerente con l’universo del nostro autore, se si parte dal presupposto che l’idea latente di un elemento patogeno in incubazione fu topos costante lunga la produzione dell’artista, più evidente nelle principali opere narrative e in numerose composizioni teatrali, solo meno esplicitata nelle novelle surreali.

    Se è stato osservato che Buzzati pur occupandosi di cronaca, di letteratura, di pittura, di teatro e di musica, ha sempre parlato della morte come autobiografia³⁶, è corretto anche rilevare che per far sì che si manifestasse, per anticiparla, per evocarla artisticamente, ricorse sistematicamente alla malattia - dove per malattia si intende ogni forma di patologia fisica e mentale -, ottenendo come risultato quello di rimanerne schiavo.

    Si consideri ad esempio un articolo del 2 febbraio 1969 intitolato Anima e pugilato, apparso sul Corriere dei Piccoli, giornale al quale l’artista collaborò per un breve periodo con la rubrica I perché di Dino Buzzati. Ad un certo punto, dopo aver spiegato la volontaria esposizione al rischio da parte del pugile, commenta: (...) e questo il motivo per cui a me fanno molta ma molta più pietà le persone che muoiono di malattie spesso lunghe e umilianti piuttosto che un pilota di automobili, o un campione di sci, o un pugilatore e così via, i quali durante una gara ci rimettono la vita. Dopo tutto era un azzardo calcolato e accettato in partenza³⁷. Ed esposte varie considerazioni di tipo animalista sulle sofferenze degli animali, giunto a paragonare le morti di un vitello, un maiale, un bue indifesi a quella di uno sportivo ben cosciente dei rischi ai quali va incontro, il giornalista introduce, in apparenza casualmente, il confronto fra quest’ultimo e il malato, il quale per impotenza, inconsapevolezza, imposizione e spesso destino può, al contrario dell’atleta in competizione, fare ben poco contro un nemico invisibile e imprevedibile. È funzionale al discorso questo ultimo concetto? Certamente no, anche se appropriato. In realtà, come vedremo, anche questa affermazione si giustificherà pienamente se inserita in un contesto biografico e artistico personale, dal quale emergono con forza radicate ossessioni e private esperienze incentrate, come detto, sull’idea di malattia.

    Prima dunque di focalizzare l’attenzione sul come Buzzati esplicito tale idea in diverse delle sue composizioni teatrali è indispensabile cercare di oggettivarla, mostrandone prima di tutto l’iter artistico attraverso l’esame di molteplici opere, realizzate in più momenti storici lungo un arco temporale di quarantanni.

    In secondo luogo se ne rintraccerà il corso esistenziale-psicologico deducendolo dalle numerose informazioni di cui oggi, a distanza di anni dalla sua morte, possiamo disporre.

    1.2 LA MALATTIA NELLE OPERE

    L’attività dell’artista negli anni trenta, limitata ad una scrittura e ad una pittura concettualmente private, mostra fin dal primo romanzo del 1933, Barnabo delle montagne³⁸, attenzione alla malattia, seppure questa non si possa ancora dire costituisca un momento importante.

    A proposito di Del Colle, vecchio guardaboschi, si fa notare che vede le malattie degli abeti, conosce il canto degli uccelli, ricorda tutte le più piccole strade³⁹ e più avanti è Giovanni, cugino di Barnabo, a sentenziare con ovvietà: È inutile se non si sta bene, anche il morale ne risente⁴⁰.

    Occorre attendere due anni prima che, sempre per l’editore Treves di Milano, esca Il segreto del Bosco vecchio⁴¹ e i riferimenti, limitati ancora nella prima parte al mondo vegetale - piante alte ma patite⁴² - vengano allargati alla sfera umana tramite un curioso accostamento fra esseri fantastici, allo stesso tempo piante e spiriti antropomorfi parlanti: Bernardi, uno di questi, interrogato dal colonnello Procolo circa un fastidiosissimo rumore, risponde: È da agosto che tutte le notti il bosco si lamenta. Nessuno dei miei compagni mi sa dire perché. (...) E’ come una minaccia (...) come se una malattia covasse dentro di noi; e noi non la conosciamo⁴³.

    La causa verrà identifica nel momento in cui nugoli di bruchi si scateneranno divorando ogni foglia raggiungibile. Il loro banchetto durerà solo una stagione grazie all’intervento della saggia gazza ‘awisatrice’ la quale, chiamate da lontano un gran numero di icneumoni, farà da loro iniettare nei corpi di quei flaccidi esseri striscianti⁴⁴ uova fatali. Da esse infatti si genereranno larve che, tra mille sofferenze dei bruchi ignari, potranno svilupparsi nutrendosi ciascuna del proprio ospitante. E’ questo il primo riferimento archetipico dell’idea di un male interno che lavora all’insaputa del portatore e che una volta manifestatosi non lascia speranza.

    Allorquando il lettore viene informato che anche il protagonista della storia, il piccolo Benvenuto, è piuttosto malaticcio⁴⁵ al punto da cadere infermo, l’ossessione di un agente patogeno compie esplicitamente il suo ingresso nell’immaginifico umano di Buzzati. Benvenuto guarirà, a dimostrativo che in questa, ancora, l’entità patologica non è vista come un qualcosa di negativamente definitivo, ma solo come prova per ascendere e maturare. La malattia in questa fase è rito di passaggio.

    Negli ultimi cinque anni del decennio 1930-1940 l’autore viene coinvolto dagli eventi bellici mondiali e, pur svolgendo diligentemente la propria parte di giornalista, partecipando tra l’altro nel 1940 a bordo dell’incrociatore Fiume a storiche battaglie navali, non tralascia la fertile vena narrativa accrescendo ulteriormente la propria consapevolezza professionale. E si rende conto che può diventare un vero scrittore.

    Dalla produzione non solo artistica di quegli anni, Domenico Porzio nel 1972 ha tratto il libro Cronache terrestri⁴⁶. In esso sono raccolti articoli composti dall’autore tra il 1940 e il 1970 che verranno, quando opportuno, citati nel presente studio (nel 1992 è uscito anche il volume II buttafuoco che raccoglie ancor più dettagliatamente gli articoli composti tra il 1940 ed il 1943).

    È a trentaquattro anni che Buzzati compone l’opera più importante, non solo del decennio quaranta cinquanta, ma di tutta la sua attività. Esce per l’editore Rizzoli, l’otto giugno 1940, il celeberrimo Il deserto dei Tartari⁴⁷.

    Sul romanzo sono state avanzate un’infinità di considerazioni, poco però ci si è soffermati sul fatto che sia il protagonista sia il tenente Angustina muoiano entrambi di malattia.

    Drogo, giovane ufficiale comandato alla fortezza Bastioni, enorme, gialla, situata ai limiti del deserto⁴⁸, consuma tutta la sua vita nell’attesa di un evento che giustifichi la propria esistenza. Quando i Tartari appaiono non è più in grado di affrontarli e, consunto da un’evidente forma cancerogena, è costretto ad abbandonare e lasciare il campo ad altri più fortunati di lui: Drogo ha cinquantaquattro anni. È diventato maggiore, vice comandante del presidio di cui Simeoni è il responsabile. Il suo volto si è fatto di un triste colore giallo. I muscoli si sono afflosciati (è floscio il volto di Rovina). Il vecchissimo Rovina ha sentenziato: disturbi al fegato. La malattia, una doppia malattia, è un liet motive: sull’attesa di miracoli, sempre più fievole, si innesta un’attesa supplementare, la speranza della guarigione. Ma Drogo non avverte nessun miglioramento⁴⁹.

    Anche in questo caso Buzzati avrebbe raggiunto il proprio scopo moralistico chiudendo la storia con un finale diverso. Ad esempio il messaggio simbolico dell’esistenza che va vissuta godendo degli attimi per non trovarsi a scoprire con la morte che la vita è stata solo un inutile protendersi verso un obiettivo insignificante, sarebbe stato ugualmente ottenuto facendo comunque fallire il protagonista.

    Se l’autore lo uccide lentamente è perché questi possa gradualmente rendersi conto di quello che gli succede. La scelta è quindi mirata in modo che il suo decadere sia proporzionale al tardo prima e al lento poi avanzare del nemico. Si dà così tempo alla coscienza, differentemente da quella degli altri soldati ‘sani’ di maturare, di realizzare a pieno la propria sconfitta e poterla ribaltare in una morte dignitosa.

    La malattia dunque ancora come mezzo di conoscenza anche se allo stesso tempo di distruzione, massimo strumento sensibilizzante.

    Il tentativo compiuto dall’autore di dare un risvolto morale alla terribile messaggera della morte ha un precedente all’interno dello stesso romanzo nel tragico episodio della fine del tenente Angustina.

    Questi, fin dalla sua prima apparizione, si mostra diverso dagli altri, già adulto, non fosse altro per il fatto di essere minato da un reale male fisico, la tisi. Angustina rifiuta il ruolo di inetto eroe vittima.

    Sa di non avere dalla sua abbastanza tempo e, vedendo la vita scivolargli di dosso molto più velocemente di quello che capita agli altri soldati, decide di immolarsi romanticamente, andando di persona a cercarsi il suo tartaro.

    Accetta la malattia fisica che lo condanna, ma può solo rifiutare "l’ambigua malattia, già denunciata dal fratello del sarto Prosdocimo (che) è detta fino in fondo: non astratti desideri di gloria ed eroiche attese di eroici destini, ma prosaici appigli per dare un senso al sempre uguale ed accettarlo e convalidarlo.⁵⁰

    Di Angustina non abbiamo ovviamente un’immagine, ma Buzzati ce la offre indirettamente in quadro del 1924, dipinto cioè sedici anni prima del romanzo. Mi riferisco a Romantica⁵¹ in cui è mostrato un giovane intabarrato in un lungo cappotto, le mani strette in tasca a cercar sollievo dal gelido vento che soffiando dalle alte montagne dello sfondo gli agita la pesante sciarpa di lana chiara. Il volto è pallido, gli occhi cerchiati, i capelli scomposti. Le labbra serrate, piegate in una smorfia sofferente, sembrano alludere ad un malessere non solo malinconico, ma ad un inevitabilmente breve futuro.

    Anche il 1942 è un anno fondamentale per l’autore che esordisce in teatro con l’atto unico Piccola passeggiata⁵² e pubblica per Rizzoli la raccolta di racconti I sette messaggeri⁵³, vero e proprio semenzaio di ulteriori esperienze artistiche.

    Tra questi - per molti la forma di espressione narrativa migliore di Buzzati - spicca la novella Sette piani⁵⁴ dalla quale nel 1953 verrà tratto il dramma teatrale Un caso clinico.

    Altri due racconti saranno trasposti successivamente per le scene: Eppure battono alla porta⁵⁵ nel 1961 e Il mantello⁵⁶ nel 1960.

    È interessante osservare come la malattia continui ad apparire con forza.

    Tra i racconti, oltre al noto Sette piani, occorre ricordare il pezzo Una cosa che comincia per elle⁵⁷. Sulla novella si tornerà esaustivamente al momento di affrontare l’opera teatrale La colonna infame⁵⁸, pièce del 1962. Per ora basti dire che il protagonista, scoperto di aver contratto accidentalmente la peste, dopo un sommario processo viene linciato e scacciato senza alcuna pietà dal paese in cui era sempre vissuto.

    Tre anni più tardi l’autore dà alle stampe un libro per ragazzi La famosa invasione degli orsi in Sicilia⁵⁹, testo al quale la rivista Life dedicherà un servizio di due pagine e nel 1949 una seconda raccolta di racconti, intitolata Paura alla Scala⁶⁰.

    I riferimenti alla malattia non sono tanti, ma la pausa tematica sarà molto breve.

    Nel decennio 1950-1960 si ha un’ulteriore intensificazione dell’attività da parte di Buzzati e numerosi tornano ad essere i cenni alla sfera del patologico.

    Si tratta di riferimenti disseminati nei centocinquantasei frammenti - prose brevi, racconti di due pagine, annotazioni, parabole, attimi, riflessioni, allegorie⁶¹ - riuniti nel libro In quel preciso momento⁶² edito nel 1950.

    Nella riflessione Gratitudine, un dialogo con Dio, si legge: Ringrazio anche per le innumerevoli paure, delusioni, penose attese, malattie, di avermi insomma evitato la possibilità di essere felice allo scopo che l’esistenza a poco a poco mi appaia sempre più ingrata; e che io impari a lasciarla senza eccesivi rimpianti⁶³.

    In Narcosi⁶⁴ è poi riportato, sotto forma di resoconto, l’episodio dell’anestesia alla quale l’autore si era dovuto sottoporre per essere operato alla mastoide.

    Immaginato un dialogo fra il demonio e il paziente, questi, pur non potendo muoversi, si mantiene ugualmente lucido, venendo costretto a subire lo spietato e razionalissimo ragionamento del malefico che gli dimostra l’inesistenza del suo esistere.

    In Domenica vi è il seguente passo: E la morte, dici niente? Non l’avevi calcolata? Essa continua a salire dentro di te. Anche se in tutto il corpo non ci fosse e neanche una cellula guasta, ugualmente lei avanzerebbe⁶⁵.

    All’inizio di Giugno 1947: Che tempi beati, quelli, si dice, non torneranno mai più; e non perché oggi si sia miseri, o malati, o afflitti da altre sciagure⁶⁶.

    In Conigli sotto la luna: "Neppure noi sappiamo, quando insieme agli amici si gioca e ride, ciò che ci attende, nessuno può conoscere i dolori, le sorprese, le malattie destinate forse all’indomani’⁶⁷.

    Ancora un’allusione si trova ne La S.V. è invitata: (...) alla fermata del tram tu eri pallida e dicesti mi fa un po’ male qui⁶⁸, ribadita in Ricordo di un poeta: Intanto c’è quel doloretto insistente alla schiena, speriamo che sia soltanto un reuma⁶⁹, esplicitata in Compiacimento malvagio: Fate bene a insuperbirvi, o giovanotti. (...) Alla sera, coricandovi, sentirete un doloretto a destra dello stomaco, per ora una cosa da nulla⁷⁰.

    Gli ultimi riferimenti si riscontrano in Alle ore 5 dove all’interno di un lungo elenco di uomini diversi colti nel sonno (il benzinaio, il fornaio, il lattaio, la prostituta, ecc.) viene citato l’uomo roso dal cancro ⁷¹, e ne Il dottore impressionabile⁷² storia di un medico al quale i propri pazienti, pur di evitare il dispiacere di non guarire, fingono di migliorare e muoiono facendo credere di essere partiti.

    Sempre negli anni cinquanta un altro impressionante e sconsolante quadro di una consunzione in progress ci è dato nello scritto Una povera donna⁷³ del 29 luglio 1952 tratto da Cronache Terrestri. In esso una bellissima Regina? Ministra? Ambasciatrice? Attrice dello schermo? Invidiata e ammirata, rapidamente sfiorisce causa un abbietto male, finendo per essere, agli occhi di chi la idolatrava, ‘solamente’ una povera donna; Da allora, giorno per giorno, lei fu lentamente tratta giù dal piedistallo. C’erano ancora per lei montagne di gioielli e moltitudini disposte a ogni follia pur di accontentarla, e i medici più celebri del mondo con radio isotopi e le diavolerie più costose della scienza; ma tutto questo non serviva a niente. Notte e giorno una mano maledetta la scarniva, la piallava millimetro a millimetro, togliendole via a squame la bellezza, soffocando in una maschera cinerea la cara luce della gioventù. Il volto si disfece, stampandovisi una specie di vecchiaia cavernosa, e crollò giù la corona d’oro dei capelli che, opachi, si appiattirono in trecce sulla nuca⁷⁴.

    Il 14 maggio 1953 va in scena al Piccolo Teatro di Milano Un caso clinico, di cui si disserterà diffusamente più

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