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Le albicocche di Aglaia
Le albicocche di Aglaia
Le albicocche di Aglaia
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Le albicocche di Aglaia

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Le albicocche di Aglaia è il racconto che dà il titolo alla raccolta. Aglaia era una delle tre muse della mitologia classica, ma nella nostra storia è soltanto un'infermiera. In una stanzetta bianca della terapia intensiva, un grande maestro di violino sta compiendo gli ultimi passi che lo separano dalla morte, ma...
L'eredità della zia Petronilla potrebbe apparire come un insperato colpo di fortuna nella vita di Enrico, che però scoprirà di possedere qualcosa di molto inquietante...
Piccola Perla Yiddish evoca ombre e paure dalle quali non si guarisce. Un appartamento dalle persiane sempre abbassate eppure tenuto in ordine perfetto, una donna di nome Perla Epstein, sola, o meglio in compagnia di fantasmi, trascorre una vita lunghissima senza viverla davvero. Ardelia Spinola si muoverà con delicatezza in mezzo a ricordi, fragili come soprammobili di vetro...
Queste sono tre delle nove storie, che come piccoli cammei formano un breve viaggio nell'immaginazione, accompagnando il lettore lontano dagli affanni quotidiani, in un non luogo fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
LanguageItaliano
Release dateDec 5, 2015
ISBN9788896608548
Le albicocche di Aglaia

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    Le albicocche di Aglaia - Cristina Rava

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    Prefazione

    Le nove storie (come chiamarle altrimenti: favole? racconti fantastici?) che compongono questa raccolta costituiscono una felice esemplificazione del talento narrativo di Cristina Rava che, a quanto sembra, era già solido e vitale assai prima della nascita dei protagonisti dei suoi romanzi gialli: il piemontese commissario Rebaudengo e la genovese dottoressa Ardelia Spinola. Si tratta infatti di racconti già editi – e ora rimaneggiati e ampliati – che appartengono a un tempo in cui i due pezzi da novanta non erano ancora comparsi nel panorama del noir italiano.

    La difficoltà di definire queste storie la dice lunga sul fatto che Cristina Rava sa piegare la propria vena creativa alle esigenze e ai capricci più disparati, accompagnando alla scrittura, sempre precisa e segnata da una sottile, garbata ironia, trame che vedono irrompere nel mondo reale un elemento estraneo, magico, imprevedibile.

    Quello che mi ha sempre intrigato del modo di scrivere di Cristina è la sua autenticità. Facilmente verificabile per chi la legge dopo averla conosciuta, e ritrova sulla pagina il suo modo di parlare, porsi, atteggiarsi. Cristina è la sua scrittura, che la rispecchia con una fedeltà esemplare, restituendo a tutto tondo i tratti che la caratterizzano: l’understatement, l’umorismo, la generosità, la curiosità tutta femminile e l’amore sconfinato per la sua terra.

    A questo proposito, i nove racconti della raccolta sembrano inanellati in un filo comune, che è il paesaggio. Quello – per esprimermi con le sue parole – ruvido del Ponente, fatto di montagne con i piedi a mollo. I personaggi di queste vicende, spesso giunti al crepuscolo della loro esistenza, trovano nei paesi delle Alpi Marittime o dell’immediato entroterra ponentino una sorta di ventre materno che li accoglie e costituisce il terreno che alimenta l’elemento fantastico delle storie.

    Il fantastico – talora appena alluso, talaltra clamorosamente deflagrante – rappresenta una cifra narrativa particolare, nutrito com’è di delicata nostalgia, sfumata malinconia o struggente tenerezza. Tutte caratteristiche che ritroveremo anche nei romanzi, ma che qui risaltano per la concentrazione del referto e per il piacere – precluso a un romanzo noir – di giocare con la realtà fattuale, contaminandola di suggestioni magiche.

    Racconti pensati e scritti per adulti che non hanno perduto il gusto di sentirsi ancora bambini, consci che alla letteratura tutto è permesso, a cominciare dal piacere di infrangere i suoi stessi codici e generi, a tutto favore di quello che Roland Barthes definiva le plaisir du texte.

    Bruno Morchio

    Le albicocche di Aglaia

    Il Maestro Aaron Vasiljievič Abramovič era arrivato a Venezia in modo rocambolesco, finendo su tutti i giornali, ma questo era successo tanto tempo fa. C’è da dire che intorno al suo passato è sempre rimasto un po’ nel vago. Credo di aver capito una cosa però, e cioè che se ha ignorato i lager nazisti ha avuto modo di temere quelli di Stalin. Ai tempi era un ragazzo, studente di conservatorio dall’ingegno brillantissimo, non soltanto come esecutore, ma anche come creatore. Un enfant prodige che gli fece ottenere la benevolenza dei papaveri del partito, i quali lasciarono correre sul suo scarso entusiasmo politico e sulla sua evidente origine ebraica. Aaron V. Abramovič che d’ora in poi chiamerò Ron per darci un taglio, non si limitava a suonare il violino, lui ‘era’ il violino. A differenza del collega violoncellista Rostropovič che pare abbia risposto a chi gli aveva domandato motivo della scelta dello strumento: ‘Perché era difficile scappare avanti e indietro per l’Europa in fiamme con un pianoforte sottobraccio’, Ron alla stessa domanda rispondeva: ‘Perché a tre anni mi sono innamorato perdutamente di una violista sublime’. Peccato che la violista sublime fosse sua madre. Negli anni della sua giovinezza ai suoi guai si aggiunse anche l’omosessualità, problemino non da poco in un paese che per ideologia e per tradizione cosacca, nei confronti degli omosessuali ci andava giù pesantino. Quindi dovendo farsi perdonare l’evidente aspetto semitico, stava ben attento agli svolazzi del mignolo, a non indossare la sciarpa come un’attrice da operetta, a camminare da vero maschio sovietico. Insomma, una gioventù complicata.

    Durante una tournée in Italia negli anni cinquanta, insieme ad altri giovani artisti socialisti, guardato a vista da neanche tanto discreti agenti del fresco KGB, era scappato in mutande dall’abbaino di un albergo. Come un funambolo regge l’asta per mantenere l’equilibrio, così lui a braccia tese era corso leggero sul colmo di umidi tetti veneziani, stringendo in una mano il violino e nell’altra l’archetto. E aveva chiesto asilo politico. Ron aveva un vantaggio rispetto agli altri: in Unione Sovietica non aveva più nessuno, sua madre s’era suicidata l’estate precedente e suo padre era scomparso in Siberia, non come dissidente, ma come ingegnere minerario durante l’esplosione di una condotta di gas. I due erano separati già da tempo e il ragazzo non aveva doveri verso possibili fratellastri sconosciuti.

    Il mondo della musica e della cultura internazionale s’era presto interessato a quel giovane violinista insofferente a qualsiasi giogo e vincolo intellettuale. In quegli anni avevano fatto la stessa cosa Rudolf Nureyev ed altri brillanti talenti, bisognosi di ambienti ventilati.

    Concerti in Europa ed in America, con le migliori orchestre ed i più esigenti direttori. Lo si cominciò a vedere in giro con attori e stilisti.

    Fu un’ubriacatura che non durò a lungo. In fondo non gliene importava nulla degli abiti firmati e delle feste di Andy Warhol e nemmeno dell’aperitivo in via Veneto.

    Comprò un rustico, lo fece rimettere a posto e lo elesse a base dei suoi viaggi, ma anche a rifugio. Castelvecchio di Rocca Barbena un nome da fiaba per un ritaglio di mondo tra le montagne brulle dell’entroterra ligure, un luogo severo con il suo castello e le case cresciute alla base delle mura, come polloni alla radice di un vecchio ulivo.

    I vetri delle finestre della ‘stanza della musica’ dove si chiudeva a comporre e provare per ore e ore, in primavera erano sfiorati dai rami dei ciliegi fioriti. Nel vecchio frantoio rimesso a posto, con ancora le mole in pietra e il tetto sorretto da travi di rovere, stava bene, soprattutto quando i suoi due asini Orfeo e Euridice ragliavano felici in giardino, ascoltando i Capricci di Paganini.

    Era, o meglio è, anche se il suono ritmico della pompa del respiratore inclinerebbe più verso l’imperfetto, un uomo rigoroso e metodico, con la fissazione dell’ordine. Unica vera follia della sua vita: quel volo sui tetti di Venezia, verso la libertà, un paio di mutande e un violino il suo bagaglio. Sempre stato un amante dell’essenziale. Per questo il mondo modaiolo lo aveva stufato subito. Anche la sua omosessualità era faccenda privata, se non da occultare, certamente da non ostentare, forse per autodisciplina sovietica. E così nemmeno gli uomini della sua vita erano tipi da boa di struzzo rosa e occhiali con gli strass. Intellettuali che abitavano al piano di sopra della mondanità, personaggi aristocratici e discreti: uno scrittore famoso quanto lui, un matematico, un ricercatore medico in odore di Nobel. Perché i suoi amori finivano? Mi ha confessato di non averlo mai capito. Una mattina li scopriva soprattutto amici. Per lui il corpo era soltanto uno strumento, meno perfetto del violino, per raggiungere l’anima. Una volta raggiunta, il corpo ritornava ad essere marginale. In fondo era una creatura che bastava a se stessa, sebbene tutt’altro che misantropa. Amava l’umanità, ma poi preferiva la solitudine.

    Un’infermiera biondissima sotto la cuffia entra con passo felpato. Tutti a questo piano sanno chi è il Maestro Abramovič, pertanto si occupano di lui con una sorta di riverenza delicata. D’altronde siamo in un reparto di terapia intensiva e nessuno cammina sbatacchiando gli zoccoli sul linoleum.

    Si avvicina al letto, accarezza il degente sulla fronte con la punta dei polpastrelli, poi solleva lo sguardo e controlla la flebo. Con economia di movimenti sostituisce il flacone, regola la farfallina e mi sorride.

    A che ora passa il dottore?, le chiedo.

    Ha cominciato adesso le visite. È un po’ in ritardo. Un intervento è stato più lungo del previsto.

    Posso restare?.

    Certo che può restare.

    E con un sorriso lieve come quello della Gioconda, esce dalla camera e riaccosta la porta perché i rumori della corsia non disturbino le orecchie raffinate del Maestro, che d’altronde non può sentire.

    Mi alzo dalla poltrona che negli ultimi tre giorni ha rappresentato la mia casa. Esco sul terrazzo dove l’arietta di metà giugno fa stormire le foglie tenere di un tiglio, ma mi sbrigo a tornare dentro e sprangare la finestra quando un frastuono percuote l’aria e vedo profilarsi la sagoma dell’elicottero dei Vigili del Fuoco. Sul prato che circonda la piattaforma di cemento, medici e paramedici spettinati sono pronti a raccattare il malcapitato. Finirà in questo reparto e se gli andrà bene questa sera o domani potrà essere nella stanza accanto, altrimenti...

    Da quell’elicottero è stato sbarcato Ron, legato nella barella come una pupa nel suo bozzolo.

    Ripenso alla mattina, ancora così vicina nel tempo, in cui era uscito per portare a spasso il cane Misha, che peraltro non ne aveva alcun bisogno, con il giardino a disposizione. Ma ormai, era diventata un’abitudine quotidiana durante i soggiorni italiani.

    Il pastore bernese, con un occhio castano e uno azzurro, gli trotterellava di fianco con il guinzaglio ciondolante. Mi sembra di vederlo, con il naso impegnato a fiutare messaggi dalla terra e dal vento, l’andatura rilassata dalla voce del padrone che gli raccontava ricordi e barzellette Yiddish. Lui che era capace di muovere le dita alla velocità degli insetti, con Misha parlava lentamente, con la erre arrotata, in ebraico. Sì perché nel frattempo aveva accolto le offerte di ospitalità da parte di una soprano israeliana, una donna non più giovane, innamorata della sua musica. Un bell’appartamento vista mare a Tel Aviv, città colta e luminosa, in cui poteva alternare la bella vita allo studio perpetuo del violino e recente dell’ebraico.

    Il giorno della tragedia ero rimasto a casa ad accordare il pianoforte con cui lo accompagno. Ah, io chi sono? Mi chiamo René Arnaud, sono nato in un paesino nell’entroterra di Nizza e sono pianista. Anch’io come altri che mi hanno preceduto, sono rotolato giù dall’Olimpo dell’amore a quello più terrestre dell’amicizia, con la differenza che le nostre strade non si sono divise. L’incontro tra noi è avvenuto in quella fase della vita in cui si sorride di chi ama vivere pericolosamente e si accantona per sempre il binomio ‘genio e sregolatezza’, accettando il fatto che si possa essere dei geni anche lavandosi ogni giorno, mangiando cibi sani seduti compostamente a tavola, e addormentandosi davanti ad un televisore acceso.

    L’elicottero se ne è andato ed ora il piazzale è vuoto. Torna l’infermiera ad avvertirmi che il chirurgo tarderà. Le rispondo: ‘Lo immaginavo’ e lei con un lieve cenno di assenso si allontana. Resto nuovamente solo con Ron e riprendo il filo dei ricordi, chiacchierando con lui, perché dicono che le persone in coma possano essere stimolate da una voce che conversa con loro.

    Continuo a rivivere, come in una moviola rotta, la sequenza dell’altra mattina, quando Pernilla la nostra vicina preferita era arrivata a casa nostra in lacrime, urlando che Ron era stato investito da un’auto pirata che non si era nemmeno fermata. Mi ero diretto al telefono e lei mi aveva detto che l’ambulanza stava arrivando, per trasportarlo fino al piazzale dove sarebbe stato caricato sull’elicottero.

    Il ricordo che mi ossessiona è il viso pallido di Ron, gli occhi sgranati verso il cielo, una pupilla completamente dilatata e l’altra troppo piccola. Steso supino sull’asfalto, la sua sciarpa azzurra sporca di sangue, un rivoletto scuro che colava da un’orecchia. Per un po’ non avevamo trovato Misha, avevamo pensato che per lo spavento fosse scappato, invece l’urto aveva strappato il guinzaglio e sbalzato il suo corpo senza vita nella ‘fascia’ di sotto.

    I primi soccorsi mi erano sembrati al rallentatore, ma era la mia disperazione che dilatava i tempi. Gli avevano bloccato il collo e assicurato la testa in una specie di culla morbida, mentre gli veniva misurata la pressione, praticata un’endovena e assicurata una flebo, oltre all’ossigeno. Poi via a sirene spiegate giù verso il piazzale, dove in un attimo era stato caricato sull’elicottero.

    Non mi avevano lasciato salire, non serve gente stravolta a bordo di un elicottero dei Vigili del Fuoco. Così ero passato da casa a prendere un ricambio di biancheria, sperando che sarebbe servita e non so perché anche la cartella con il suo ultimo lavoro, forse per rileggerla in quelle che prevedevo sarebbero state lunghe ore di veglia. Poi ero partito a mia volta verso l’ospedale S. Corona.

    Quando finalmente il chirurgo era emerso dalla sala operatoria, con la mascherina appesa al collo, mi aveva parlato di una vasta emorragia subdurale, di danno cerebrale, dell’impossibilità per il momento di valutarne l’entità, e di non spaventarmi vedendo una specie di drenaggio uscirgli dalla testa: è un dispositivo che serve a controllare la pressione all’interno del cranio. Il paziente viene mantenuto in coma farmacologico. La durata di questo stato dipenderà dall’evoluzione delle sue condizioni. Solo nei prossimi giorni, sempre che... ovviamente, sì, ho capito, sempre che ci arrivi, saranno operate delle brevi riduzioni del dosaggio per far affiorare lo stato reale e poter valutare il suo livello nella scala del coma. Però, e qui era arrivata la botta, le possibilità di sopravvivenza sono abbastanza esigue data la vastità del danno, e quand’anche si salvasse, non sarà più quello di prima.

    Sono ritornato nell’atrio del reparto di rianimazione e mi sono seduto a pensare. Cosa sarà per Ron la vita senza violino? Dovrei sperare per lui che la lesione abbia raggiunto la coscienza? Meglio un vegetale inconsapevole che un genio disperato? Sicuro!

    Ieri un arresto cardiaco, contrastato con tempestività.

    Con la nuca accarezzata dalla brezza e un tenue profumo di tiglio fiorito, guardo il mio amico che dorme un sonno chimico, ma che forse dormirebbe comunque anche senza sedativi. L’incidente non ha danneggiato soltanto la testa: sono presenti alcune fratture e un’emorragia interna già risolta chirurgicamente. Al momento le ricerche dei carabinieri sono risultate inutili. Non è stata fermata nessuna auto con caratteristiche simili a quella dell’investitore, che la signora Pernilla ha visto benissimo, pur non avendo avuto abbastanza tempo da memorizzare la targa.

    Dopo l’arresto cardiaco di ieri, sebbene superato, il chirurgo ha ridotto le possibilità di salvezza. Ron si spegnerà nelle prossime ore. Forse è meglio... Ma non per il suo ultimo lavoro: una colonna sonora.

    La prima volta che ne aveva composto una era stato per un thriller e la gente, a distanza di anni, fischiettava ancora quella musica, ricordando poco o niente del film.

    Mi aveva raccontato che gli era sembrata una mercificazione dell’arte, ma poi aveva accolto il parere concorde degli amici: l’artista usa il suo talento per mangiare, non può fare altro. Non è il pagamento che svilisce l’opera! Quello che conta è lavorare seriamente. Si era tranquillizzato ed era tornato alle sue colonne sonore, che gli avevano garantito fama e una vita molto agiata.

    Ma questa volta era diverso. Si trattava di un film per ragazzi, pieno di effetti speciali, che raccontava un viaggio iniziatico dalla sottomissione a compagni violenti, fino alla libertà e alla grandezza, in un mondo magico popolato da Elfi, da Gnomi e draghi ed altre creature fantastiche, qualcuna meravigliosa e qualcun’altra repellente, ad incarnare i molteplici caratteri dell’umanità. Ma chi la faceva da padrone era il re degli Elfi, che soltanto alla fine si scopriva essere proprio il ragazzino vessato e umiliato. Le scene erano bellissime, con l’aiuto di elaborazioni elettroniche agli occhi di un pubblico incantato si sarebbero dischiuse foreste piene di nebbie e di luce dorata, antri bui e spaventosi e castelli scintillanti, abitati da principesse eteree e piene di saggezza.

    La composizione era quasi finita, avrebbe dovuto lavorarci severamente ancora una mezza settimana e poi avrebbe potuto consegnarla alla produzione. Non correggeva mai, non doveva rivedere: la sua mente un po’ Asperger sapeva controllare tutte le variabili nel momento della stesura.

    Naturalmente la macchina cinematografica non si sarebbe fermata per una stupidaggine come la morte del musicista, per quanto famoso. Avrebbe fatto concludere il lavoro ad un altro artista e, anzi, l’evento funesto avrebbe potuto trasformarsi in un ottimo elemento pubblicitario.

    A me la storia era piaciuta tanto, forse perché era una parabola semplice, il sogno di tutte le persone timide, il riscatto dei deboli. Ed era piaciuta anche a Ron, lontanissimo per formazione, età e religione dal mondo fantasy. Più che le sue parole, era stata la bellezza della musica già composta a farmi capire quanto fosse coinvolto da quel sogno. Tutto era raccontato dalle note, il violino dava voce ad un volo di zanzara, alla delicatezza di un’aurora, al clangore delle battaglie, ma anche ai sentimenti dei protagonisti: di note preziose o possenti erano fatte la paura, la gioia, il rancore, la giustizia.

    Giorno dopo giorno ‘Il re degli Elfi’ stava prendendo forma e lui l’aveva talmente in testa da canticchiarla perfino mentre si faceva la barba.

    E poi l’incidente.

    Ti ricordi, Ron, quella passeggiata a Finale Ligure, nel Borgo, così cupo con le sue montagne incombenti, ma colorato dai turisti estivi. Eravamo finiti lì per caso, di ritorno da Varigotti dopo una giornata di sole. Io volevo rientrare a casa e riposare un po’, tu no, instancabile come un giocattolo a carica. Non c’era più stato verso di fermarti quando avevi scoperto che nei carruggi scuri un po’ odorosi di muffa, c’era un mercatino dell’usato. Vai matto per queste cose, anche se in genere si trova soltanto paccottiglia.

    Camminavi con l’aria assorta di qualcuno che sta cercando qualcosa. Non ho alcun elemento per pensare che tu avessi qualche sospetto, ma il dubbio m’è venuto tante volte. Sembrava che non stessi camminando a caso, ma seguissi un itinerario preciso. E a niente valevano le mie proteste e la mia pelle abbrustolita. Infatti in un angolo prossimo ad una porta del convento di S.Caterina ti eri fermato come un tram al capolinea. Una bancarella di strumenti musicali di seconda, terza, ventitreesima mano e spartiti antichi, note seminate su righi ingialliti: Scarlatti, Mozart, Brahms, Schubert e molti altri. Ti luccicavano gli occhi, ma il luccichio era diventato incendio quando nel bailamme generale avevi visto un violino sconquassato, per il quale io non avrei dato un centesimo, considerandolo buono per la stufa.

    Lo avevi comprato subito senza rinunciare ad una bella contrattazione, com’è nel tuo stile.

    A casa erano cominciate le telefonate, le consultazioni, chiuso nello studio. Io non potevo muovermi perché dovevo preparare alcuni allievi per il sesto esame di conservatorio, così eri andato da solo non so bene dove, e dopo due giorni eri ricomparso con una custodia di violino nuova fiammante e una scatolina. Avevo chiesto di aprire prima la custodia, che era vuota. Uno scherzo? Sì, uno scherzo, ma servirà tra qualche giorno, per trasportare il mio nuovo Guarneri del Gesù! E dopo abbracci e pacche sulle spalle, mi avevi messo tra le mani la scatola piccola che conteneva un Jaeger Le Coultre del 1940; quello era per me, con i soldi risparmiati nell’acquisto del violino. Perché

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