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Il File Nebula
Il File Nebula
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Il File Nebula

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About this ebook

«Sconvolto, il cervello completamente svuotato, restai immobile a guardarlo. Erano molti anni che non vedevo un uomo morto ammazzato. Avvertii dietro di me un sospiro rauco, seguito da un fruscio quasi impercettibile. Tentai di girare l’interruttore, ma non feci in tempo, una fitta lancinante alla testa, la nausea e poi il buio»

Una storia sepolta da anni che torna a bussare dal passato, un efferato e inspiegabile omicidio, un misterioso personaggio che si rivela attraverso strani messaggi di posta elettronica. Questi alcuni degli eventi che fin dalle prime battute de Il File Nebula travolgono in un clima onirico la quieta vita di Max Winter, giovane dirigente di un'azienda fiorentina. Un thriller ante litteram con tinte noir, che miscela in modo inconsueto un plot contemporaneo ai classici topoi del film hithcockiano e del giallo hard-boiled americano. Un'insolita Firenze, avvolta in un'atmosfera jazz alla Stormy Monday, fa da sfondo a una storia mozzafiato, ritmata da un'escalation di eventi tra i quali il protagonista dovrà districarsi fino all'inatteso colpo di scena finale.
LanguageItaliano
Release dateFeb 27, 2016
ISBN9788892559400
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    Il File Nebula - Alessio Petrelli

    Nebula

    Il file Nebula

    Il File Nebula

    di Alessio Petrelli

    Un giorno volerò via,

    lasciando il tuo amore al passato

    Anonimo del XII secolo

    E quando guardi a lungo dentro l’abisso,

    anche l’abisso guarda dentro di te

    Nietzsche

    Prologo

    In tutti questi anni, specie la sera, quando nei dolci e tiepidi giorni d’estate, seduto sulla veranda che guarda la valle verso ovest, ho osservato il sole tramontare dietro le colline, mi sono chiesto da dove avrei potuto iniziare a raccontare quegli eventi che tanto cambiarono la mia vita. In tutti questi anni i tramonti si sono avvicendati giorno dopo giorno senza aiutarmi a trovare una risposta tale da convincermi a prendere la penna in mano.

    Questa mattina, guardando il calendario, ho notato per la prima volta da allora che era l’anniversario, l’ottavo per la precisione, del giorno in cui tutto ebbe inizio. Per tutta la giornata quella consapevolezza mi ha causato uno strano senso di disagio che non ho saputo allontanare. Eppure questa sera, presentandomi puntuale al mio appuntamento quotidiano sulla veranda per ammirare il tramonto, mi accorgo che il disagio è sparito. Per la prima volta capisco che non si trattava del come iniziare, ma del quando. Troppi personaggi ed entità importanti erano stati coinvolti, ed evidentemente occorreva del tempo perché il ricordo degli eventi sbiadisse e non rischiasse di nuocere più a nessuno. Otto lunghi anni sono passati da allora, ma evidentemente tanti ne occorrevano perché fossimo tutti pronti a riparlarne.

    Capitolo Primo

    La notte precedente aveva piovuto senza tregua su tutto il paese. Erano tre settimane che non si riusciva a vedere un raggio di sole e i bollettini meteorologici minacciavano un ulteriore peggioramento nel giro di qualche giorno. L'estate non si decideva ad arrivare e il fatidico anticiclone continuava a prendere schiaffi da una sequela di perturbazioni che spuntavano da tutte le parti senza preavviso. Non meglio identificati colonnelli dell’aeronautica si arrampicavano sugli specchi nel vano tentativo di fornire televisive e sempre più improbabili spiegazioni ad un pubblico abituato ad essere sempre rassicurato con dei perché e dei percome.

    Ero andato a letto verso le tre, dopo una serata passata a girare senza meta per la città cercando di mettere a fuoco qualcosa d'indefinibile, insinuatosi in me da qualche giorno e che sfuggiva alla mia lucidità. Forse più uno stato di agitazione vago che la ricerca di un punto di arrivo preciso. Sensazioni, stati d'animo, qualcosa che percepisci ma che non sai spiegare. Era il pensiero di Catherine che, dopo tre anni di connubio sentimentale, se n'era tornata a Parigi senza uno straccio di spiegazione, a tormentarmi, o invece la premonizione di un evento ignoto che silenziosamente mi veniva incontro?

    Verso le due mi accorsi che tra ragionamenti, Martini e sigarette avevo consumato troppe cellule cerebrali. Decisi di rimandare il problema al giorno dopo.

    Mi svegliai con la testa che mi scoppiava e la sensazione di stare in un acquario. Mi ripetei per l'ennesima volta che non avevo più l'età per bere come un tempo, pur sapendo che non sarebbe servito a niente. Brancolai verso la cucina con un senso di nausea da vertigine per prepararmi un After the Bomb, miracolosa medicina del dopo sbornia. Mentre bevevo sdraiato sul divano in patetico ripiegamento sulle mie colpe notturne, la voce morbida dell'incomparabile Ramirez, barman andino di stanza al Sans Souci di Guadalupe, mi raggiunse da un passato remoto. Tanti anni prima era stato lui a insegnarmi a prepararlo.

    «Non seguire le stupide mode del momento, hombre: mai più di tre basi nello stesso bicchiere. I cocktail sono l'unico campo della creatività umana dove è stato detto tutto da più di mezzo secolo» mi diceva a bassa voce, tra il paterno e l'offeso quando, dopo aver tradito il suo locale la notte prima, mi rifugiavo da lui penitente.

    Chissà che cosa stava facendo Ramirez in quel momento, pensai.... Per chi preparava una delle sue splendide bibite, o quale bella ragazza appoggiata al suo bancone stava affascinando con i suoi occhi malinconici, raccontandole dei suoi anni a Cuba?

    Quel ricordo mi riscaldò, mi fece sorridere di me stesso e mi spinse giù dal divano. Non sapevo come e quando, ma ero certo che un giorno l'avrei rivisto.

    Appena tornato in grado almeno di intendere (il volere arrivava sempre con due ore di ritardo) mi accorsi che contro le aspettative di tutto il paese, colonnelli compresi, la mattina era iniziata con un sole splendido e un cielo terso. Era sabato, l'aria era tiepida e Firenze, dalle finestre di casa mia, invitava a uscire per una passeggiata.

    I tormenti notturni erano svaniti lasciando il posto ad un atteggiamento di ottimistico vivi alla giornata.

    Mi stavo vestendo, quando udii il trillo del telefono:

    «Uscendo dall'ufficio ieri sera, ti sei ricordato di prendere il floppy con il tuo intervento di lunedì?»

    «Il floppy, accidenti!» risposi alla voce un po' inquisitoria della mia segretaria. «Me lo sono dimenticato, Frances....» iniziai a dire in tono colpevole.

    «Sei il solito testone! Prima di uscire dall'ufficio mi ero raccomandata....»

    «Sì» risposi in modo idiota.

    «è tutto quello che hai da dire? Ma dove hai la testa in questo periodo, Max?»

    «Eh, a saperlo...» continuai con un'altra risposta acuta quanto la precedente. «Senti... - le dissi, cercando di dare un'impressione di costruttività - faccio un salto in ufficio a prenderlo...»

    «No, non ti ricordi di aver prestato le chiavi ad Alessandro la scorsa settimana? Sono rimaste a lui. E poi lascia stare...» mi rispose con un'inflessione divertita nella voce. «Vedendoti così distratto in questi giorni, ne ho fatta una copia ieri e l'ho portata con me.»

    «E non potevi dirlo subito? Ti diverti alle mie spalle?» chiesi un po' stizzito.

    «No, mi diverto solo a stuzzicarti un po'. E a dimostrarti che senza di me saresti perso. A buon intenditore...» mi rispose, ridendo apertamente.

    «Se ti stai riferendo alla possibilità che mi venga assegnata Alexandra e che tu vada ad assistere il gran capo, stai tranquilla. Mi opporrò con tutte le mie forze, prometto. Sei la migliore segretaria del pianeta, perché dovrei volere Alexandra?» le risposi.

    «Non sei tu a preoccuparmi, ma lei. Quante volte ha già tentato di infilarsi nel tuo letto? Lavorare con te ogni giorno aumenterebbe le sue possibilità di riuscita.»

    «Oh, smettila Frances!» tagliai corto. «Piuttosto, visto che sei stata così efficiente, vengo a prendere il floppy da te?»

    «Sì, ma non ora, devo fare un paio di commissioni. Portami a pranzo fuori e avrai il tuo floppy» rispose sorniona.

    «Ok, come faccio a dirti di no? A che ora?»

    «Diciamo alle una e mezza da Tramp's, bel morino, e non farmi aspettare, intesi?»

    «Ai suoi ordini, mademoiselle!» Attaccai, sorridendo al pensiero di Frances che sapeva sempre come ottenere quello che voleva. Venticinquenne, bella e simpatica, ma soprattutto maledettamente efficiente.

    Era arrivata al quartier generale della Blanco a Firenze, l'azienda per cui lavoravo, due mesi prima direttamente dalla filiale di Londra. E dato che la mia precedente assistente se n’era andata proprio in quel periodo, l’avevano assegnata a me. Aveva chiesto lei di essere trasferita in Italia, stufa dei grigi cieli britannici.

    Iniziavo a sentirmi decisamente meglio. Feci colazione e uscii di casa.

    Ho sempre trovato delizioso vagare per Firenze il sabato mattina. Le orde di provincia si riserbano il pomeriggio per invadere il centro; le strade sono vuote e tutto, metaforicamente, prelude a una festa in arrivo alla quale sei stato invitato.

    Mentre mi avvicinavo al centro, mi fermai al bar vicino a casa mia per una dose aggiuntiva di caffeina. Mi sedetti, ordinai un caffè doppio a un’avvenente cameriera che vedevo per la prima volta e nell'attesa scorsi distrattamente un giornale che giaceva, aperto alla pagina dello sport, su un tavolo accanto al mio. Per il giorno dopo si preannunciava un durissimo scontro tra la squadra di calcio locale e la capoclassifica. Si preparavano ingenti schieramenti di polizia per prevenire incidenti. Annoiato, ricominciai a leggere dalla prima pagina in cerca di notizie più interessanti.

    «Il suo caffè doppio, signor Winter» mi disse una voce femminile con forte accento inglese. Alzai la testa e vidi la cameriera a cui avevo fatto l'ordinazione porgermi un vassoio e un sorriso più che professionale.

    «Conosce il mio nome?» le chiesi sorridendole a mia volta.

    «Be’, vede, ogni volta che inizio a lavorare in un nuovo locale mi informo sempre sui nomi delle persone che lo frequentano abitualmente. E' più carino rivolgersi loro per nome, trovo...» rispose, continuando a sorridere.

    Inclinai la testa da un lato e guardai in direzione del banco. Antonio, il proprietario, stava seguendo la scena e appena incrociò il mio sguardo mi ammiccò eloquentemente, scandendo tre lettere: K, I, M, mi parve di capire. Sebbene ancora un po' intontito, realizzai.

    Tornai a guardare la cameriera e le dissi con nonchalance: «Grazie Kim, è un atteggiamento molto professionale, degno di una vera pierre». Mi guardò tra lo stupito ed il divertito, ma non disse niente e se ne andò.

    Mentre bevevo ripresi a sfogliare il giornale. Il debito pubblico, le preoccupazioni per l'ammissione nella moneta unica, gli scontri sui modi di far crescere l'occupazione, le sfilate di moda a Milano... A un tratto una notizia attirò la mia attenzione: Aereo scompare nei cieli della Sicilia. Mi ricordava il nome di un film, ma non riuscivo a mettere a fuoco quale.

    Una voce roca e dialettale mi distrasse: «Legge per caso lo sport?». Proveniva da un grassone con una camicia a scacchi e uno stecchino tra i denti. Il tipico tifoso che il sabato stava al bar per parlare di calcio. Non importava con chi, amici o sconosciuti: l'importante era approfondire, con la più assoluta parzialità, l'argomento. «Me lo darebbe?» continuò, guardandomi speranzoso.

    «Cosa, scusi?» Ero irritato per il fatto che la mia fermata al bar doveva durare il tempo di un caffè e invece stavo rischiando di passarci la mattinata.

    «Ma lo sport» fece lui. «Le pagine dello sport.»

    «Ah, certo, io non le leggo» risposi brusco, estraendo la sezione richiesta.

    «Grazie!» mi sorrise felice e sbuffando si sedette ad un tavolo accanto.

    Stavo per riprendere la lettura dell'articolo, quando mi apostrofò ancora: «Io dico che domani la Fiorentina vince. Lei che ne pensa?».

    Lo guardai eloquente: «Non ne ho la minima idea, non seguo il calcio.»

    Ci rimase molto male e mi guardò con stupore e riprovazione: «Ah, capisco» fece, ma in realtà non capiva affatto.

    Tornai all'articolo: Aereo scompare nei cieli...» Non era destino che lo leggessi.

    «Senta, secondo me, con questa formazione» riprese il grassone, indicando la pagina del giornale, «non possiamo altro che vincere...» Non si dava pace per il mio disinteresse allo sport nazionale.

    «Sicuramente. E non sa quanto ne sia felice per lei» risposi eloquente, senza alzare gli occhi dalla mia lettura.

    «Certo che proprio non capisco come la cosa non la interessi!» Si stava pure risentendo. Se fosse dipeso da lui mi avrebbe fatto togliere la residenza.

    «Guardi, vediamo se capisce: il calcio non mi in-te-res-sa. Per niente! Mi rincresce di darle un dolore.»

    Finalmente aveva capito. Non si capacitava, ma aveva capito. Si girò dalla parte opposta e prese a parlare con un tipo che si era appena seduto, presso il quale sembrò trovare maggior fortuna. Anche troppa: il tipo tifava per la squadra capoclassifica e di lì a poco tra i due scoppiò un alterco che costrinse Antonio a intervenire per calmare le acque.

    Guardai l'ora e mi resi conto che, se volevo fare le cose per cui ero uscito ed arrivare in tempo all'appuntamento con Frances, dovevo muovermi.

    Tramp's è un locale affascinante. Si trova nel cuore di Firenze, in una stradina sconosciuta ai più. La porta d'ingresso è a vetri fumé, maniglie in alluminio e una scritta a caratteri corsivi in rilievo: Tramp's - American Cocktail Restaurant. Credo che l'abbia disegnato un architetto di New York. Entrando ti sembra di essere proiettato a migliaia di chilometri di distanza da Firenze, avvolto da un'atmosfera cinematografica da vip, guest stars e jet set internazionale. Varcata la soglia, una piccola hall circolare tutta bianca si apre ai lati sul guardaroba e sul reservation desk, mentre sul davanti un corridoio stretto e completamente azzurro la immette sul salone del ristorante. Dalla hall di ingresso ci si fa già un'idea del locale, grazie ad una serie di piccoli oblò che, ad arte, lasciano intravedere porzioni non casuali del salone principale.

    Feci un cenno di saluto a Paul, di turno al reservation desk ed entrai. Mi venne incontro il capo cameriere, indicandomi il tavolo a cui era già seduta Frances. Con un cenno gli feci capire che non volevo essere visto e gli chiesi due cocktail. Ero in netto ritardo e immaginavo l'umore della mia bionda assistente.

    Mi avvicinai a Frances che, seduta di spalle, non si era accorta della mia presenza.

    «Un Daiquiri cocktail, mademoiselle?» le dissi, sedendomi davanti a lei.

    «Brutto... Sei sempre il solito! E' possibile che anche quando non lavori tu debba essere in ritardo?» mi apostrofò facendo finta di essere arrabbiata; ma mentre mi guardava negli occhi le scappava da ridere.

    «Chiedo umilmente perdono, ho avuto un contrattempo.»

    «Sì, immagino! E di che colore aveva i capelli il tuo contrattempo?»

    «Neri, grossa pancia, sesso maschile ed un'insana passione per il calcio» le risposi serissimo.

    «Non ci posso credere, iniziano a piacerti i maschietti? Sai quante fanciulle manderai in lacrime, quando lo sapranno?»

    «Vedi un po' se un sorso di quel Daiquiri ti fa diventare più buona» le dissi con un sorriso.

    Il rapporto tra me e Frances si svolgeva molto spesso con quel misto di ironia e presa in giro che nascondeva una stima e una simpatia reciproche. Questo, almeno, era quello che pensavo.

    Mi accorsi che, mentre mi aspettava, Frances aveva aperto un giornale. «C'è niente di interessante nelle news?» le chiesi per cambiare argomento.

    «Mmh, no, non mi sembra. Le solite cose, a parte una strana notizia su un aereo volatilizzato nel Sud.»

    «Ah sì, l'ho intravista anch'io. Credono che si trattasse di un aereo privato, mi sembra.»

    «Già, ma non hanno neppure idea da dove provenisse: nessun aeroporto del Mediterraneo o del Nord Africa ha comunicato di aver autorizzato il decollo di velivoli privati ieri notte» disse Frances bevendo il Daiquiri. Guardò il bicchiere pensierosa e aggiunse: «C'è qualcosa di strano...»

    «In questa storia?» le chiesi?

    «No, nel Daiquiri!» rise. «E' come troppo dolce, tu lo sai fare meglio.»

    «Vedi, non è troppo dolce in assoluto: è troppo dolce per quest'ora del giorno» le risposi, dopo averlo assaggiato a mia volta.

    «Non capisco: o è dolce o non lo è, la ricetta è una sola.»

    «Gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma il loro dosaggio può cambiare a seconda dei gusti di chi lo beve o dei momenti in cui lo prepari. Ora stai per mangiare, quindi hai bisogno di qualcosa di più secco, che ti stimoli l'appetito. Ma se lo avessi chiesto dopo cena, ad esempio, non avresti battuto un ciglio al Daiquiri di Fabio. Cerca di capire anche lui: siamo a giugno, è tutto l'anno che prepara cocktail qui al Tramp's. Il fatto che gli sia scappata la mano sullo sciroppo di zucchero vuol dire solo che inizia ad aver bisogno di una vacanza. Resta sempre uno dei migliori barmen della città.»

    Mentre parlavo, Frances mi guardava fisso sorridendo con gli occhi: «E, mi dica professore, in quale scuola alberghiera si è diplomato?» mi prese in giro.

    «Autodidatta, prego. In anni e anni di seduzione di giovani e indifese fanciulle, ho raggiunto una profonda esperienza nella sublime arte dei preparati alcolici» le risposi sullo stesso tono.

    «Vedi che ammetti anche tu di essere un poco di buono con le donne?»

    «Senti - le dissi, - che ne diresti di mangiare qualcosa e porre fine a questa imbarazzante indagine sui miei trascorsi?»

    «Ok, come vuoi tu, ma facciamo presto perché devo andare a farmi bella.»

    «Farti bella? Ma se sei già uno splendore! Cosa ti manca?»

    «Oh, niente, ma su una rivista ho visto un certo taglio di capelli...» rispose evasiva.

    «Hai un appuntamento stasera?»

    «Forse...- rispose sorridendo. - Ma a te cosa importa?»

    «Certo, dimenticavo! A quest'ora la mia segreteria telefonica deve essere già piena di inviti a cena, a feste e a chissà cos'altro!» replicai un po' enfaticamente.

    «Dài, sto scherzando! Piuttosto, hai più sentito Catherine?» chiese seria Frances.

    «Catherine? Catherine chi? C'è mai stata una donna con quel nome nella mia vita?» cercai di sdrammatizzare la sua domanda.

    «Ma come può averti lasciato senza una spiegazione? In fondo siete stati insieme per un bel pezzo!»

    «A volte la mente femminile elabora teorie autogiustificatorie che... Non so neppure io: forse la cosa è ancora troppo fresca perché possa interpretare il suo comportamento.»

    «Ma fino a pochi giorni prima andava tutto bene, me lo hai detto tu!»

    «Già, così mi pareva, ma forse quello che faceva credere era ben lontano da quello che sentiva. O forse, chissà, neppure lei ha in realtà ben chiaro perché ha agito così. Lo ha fatto e basta, ha seguito un impulso... Avrà conosciuto qualcun altro e avrà avuto paura di affrontare le mie domande. Non so...»

    «Ci pensi spesso?» mi chiese affettuosa.

    «A volte, quando scende la sera... Ma basta, dài! Parliamo di cose più serie: mi hai portato il floppy?»

    «Signorsì, mio direttore!» fece, portandosi una mano alla fronte con gesto militare. Frugò dentro la borsetta e me lo porse. «A proposito» disse in tono serio, «vedi di lavorarci un po' su, mi pare che per ora tu abbia solo abbozzato delle idee.»

    «Non mi dirai che hai osato leggerlo? E se ci avessi scritto qualcosa di personale?»

    «Tipo?» fece lei avvicinandosi sopra il tavolo con fare seduttivo

    «Una poesia? Una lettera d'amore alla mia dolcissima segretaria? Chi sa? Potrebbe essere... Dopo tutto, ho trentasette anni, ancora in ottima forma, insomma...» le dissi con voce bassa e calda

    Mi diede una spinta con la mano: «Ma piantala, scemo! Con tutto il marketing che hai per la testa non sapresti mettere in croce nemmeno un biglietto d'invito a cena! O sbaglio?»

    Feci lo sguardo offeso: «Tutte così, voi britanniche: prosaiche e concrete. Ah, calore mediterraneo, dove sei?»

    «Senti - fece lei, - vorrei che oggi ti applicassi seriamente e trasformassi quelle meravigliose righe d’amore in un serio, sottolineo serio, discorso di presentazione alla stampa.»

    «Certo, non mancherò. E' già tutto chiaro nella mia fervida mente! Lascerò i giornalisti estasiati!»

    «Mi spieghi che diavolo di incontro è, e che cosa esattamente ci vai a fare?» chiese Frances incuriosita.

    «Più che un incontro, è una conferenza stampa: stiamo per lanciare un nuovo proiettore per l'illuminazione degli esterni. Per noi è abbastanza inusuale: come sai, finora abbiamo avuto solo prodotti per illuminare gli interni e non vogliamo far passare la cosa inosservata. Voglio che la stampa ne parli. Sei con me da poco tempo, quindi è naturale che alcuni aspetti del mio lavoro ti risultino nuovi. Ma non ti preoccupare: già tra un mese inizierai a vederci molto più chiaro.»

    «Presumo che saranno giornalisti di riviste specializzate, non stampa quotidiana o settimanali, vero?»

    «In questo caso sì: non è il tipo di notizia che interessa gli altri media.»

    Appena usciti dal ristorante, Frances mi prese una mano e rivolgendomi uno sguardo premuroso mi chiese: «Hai programmi per questa sera?»

    «No, sono single da così poco tempo e non ho ancora avuto modo di organizzare i miei sabati sera.»

    «Hai intenzioni bellicose?» disse sorniona

    «Sarò un agnellino! Una cena tranquilla, un buon libro... E a letto presto!»

    Ci salutammo, dandoci appuntamento per il martedì mattina successivo. La conferenza stampa di lunedì, a Milano, mi avrebbe portato via l'intera giornata e non avrei fatto in tempo a tornare in ufficio in serata.

    Recuperai la macchina e feci rotta verso il mio supermercato preferito: il sabato era il mio giorno di spese alimentari e la cambusa completamente vuota reclamava di essere riempita. Era praticamente deserto. Probabilmente il sole inatteso aveva spinto la gente verso il mare. Arrivai alla cassa in un lampo e iniziai ad appoggiare gli acquisti sul tapis roulant. Ero concentrato nell'operazione, per cui non avevo neppure guardato la cassiera.

    «Con che tipo di gin prepara il Martini cocktail?» disse una voce.

    Alzai la testa per capire da dove provenisse quella domanda. Era lei, la cassiera. Molto carina, devo dire. La guardai un po' stupito e risposi: «Con il Bombay. Ma perché, scusi?» Mi sorrise, indicando la bottiglia di Martini che avevo appena preso dal carrello.

    «Il problema è che voi non lo tenete, e devo sempre comprarlo in bottiglieria.»

    «E' buono?»

    «Il migliore in assoluto. L’ ha mai provato?»

    «No, pensavo che il meglio del meglio fosse il Gordon's» mi rispose.

    «No, no: aspetti.» La domanda mi intrigava. «Tutto dipende da quello che ci fa. Il Gordon’s è buonissimo, ma nel Martini non regge il confronto con il Bombay» le risposi, prestandole maggior attenzione. Era bruna, con due occhi giovani e attenti.

    «E' bello trovare qualcuno che si intende di queste cose. Ho sempre considerato i cocktail uno dei piaceri più seduttivi della vita» mi disse, abbassando la voce.

    «Già» feci io. La cosa prendeva una piega interessante, ma in quel momento preferii non approfondire. Avevo già abbastanza problemi con le donne per crearmene di nuovi.

    «Un consiglio: in questa città c'è un solo posto dove si beve il Martini come dio comanda.»

    «E cioè?» fece lei, piegando la testa da un lato.

    «Conosce lo Zarina?»

    «Ne ho sentito parlare, ma non ci sono mai stata.»

    «Ok, vada lì verso le sette e chieda di Lorenzo. Se lo faccia preparare solo da lui. Gli dica che la manda Max.»

    «Lei ci capita?» mi domandò sorridendo.

    «Ci capito» risposi, ricambiando il sorriso.

    Mi diressi verso casa. La segreteria telefonica lampeggiava invitante. Misi a posto le cose appena acquistate e mi sedetti al telefono per ascoltare le chiamate.

    La prima era di mia madre, dalla Martinica: «Max, quando ti decidi a chiamarmi? Sono la tua mamma, ricordi? Spero tu non ti sia scordato di me. Vorrei sapere come stai e cosa fai. Tuo padre mi chiama un giorno sì ed uno no per sapere se almeno io ho notizie. Anche lui vorrebbe sentirti. Ciao, caro.»

    Mia madre viveva ai Caraibi da circa dieci anni, da quando si era separata da mio padre. Lui invece viveva a Los Angeles. Al momento del divorzio si erano spartiti le case di famiglia molto civilmente, in base ai rispettivi desideri di vita. Lei non riusciva a vivere in un posto dove ci fossero meno di 25 gradi tutto l'anno, mentre mio padre aveva preferito stabilirsi definitivamente in America, dove del resto era nato. Aveva preso in mano la filiale americana della casa vinicola fondata dal mio nonno materno, e la sua attività lo costringeva a gravitare per la maggior parte del tempo negli Stati Uniti.

    Il rampollo di famiglia, il sottoscritto, invece, dopo essersi laureato in Economia a Stanford e aver iniziato a lavorare nella filiale americana della Blanco, aveva deciso di tornare alle origini. I miei nonni materni erano italiani, della campagna senese. Da quando avevo visto la luce, fino ai 18 anni, avevo vissuto con i miei a Firenze, nella casa di città dei miei nonni. Poi mio padre si era trasferito negli Stati Uniti per avviare l’attività di importazione del vino, e si era portato dietro la famiglia. Ma l'Italia mi era rimasta sempre nel cuore.

    Così, dopo quattro anni di lavoro in America, avevo chiesto di essere trasferito in Italia per l'appunto nella città dove la mia azienda aveva il suo quartier generale. Dopo avermi fatto trascorrere due anni in Inghilterra, nel ‘92 il top management mi aveva spostato a Firenze, assegnandomi prima la carica di direttore della comunicazione e, quattro anni dopo, quella di direttore marketing.

    Premetti ancora il tasto di ascolto della segreteria: «Ciao Max, sono Stefania. Domani sera c'è una festa. Ci vuoi venire con me? Ti chiamo domani. Fatti trovare!» .

    «Max, sono Federico. Se stasera sei libero, potremmo andare a bere qualcosa prima di cena. Che ne dici? Chiamami prima delle sei, perché poi esco. Ciao.»

    Premetti ancora e udii una pausa: la linea c'era, ma la persona dall'altra parte del filo non parlava. Sentivo dei rumori di auto che passavano sul fondo. Dopo qualche secondo udii un lievissimo «Max...» Un'altra pausa, poi il tuh-tuh-tuh della linea disconnessa.

    Quella voce. Non riuscivo a metterla a fuoco, ma aveva qualcosa di familiare. Aveva pronunciato il mio nome troppo piano per farsi riconoscere, e il rumore delle macchine l'aveva coperta.

    Chi diavolo poteva essere?

    Capitolo Secondo

    Erano le cinque. Mi preparai un tè e mi misi a lavorare sul testo per il discorso alla stampa di lunedì. Il tempo volò senza che me ne accorgessi. Sentii il rumore dei tuoni, alzai la testa dal computer e mi accorsi che stava nuovamente diluviando. Erano quasi le sei. Telefonai a Federico e fissammo di incontrarci un'ora dopo per l'aperitivo al Sant’Ambrogio.

    Feci una doccia e mi cambiai per la sera. Il telefono squillò di nuovo. Alzai la cornetta e udii una voce a me molto cara: «Ciao Max, come stai?» Era Charles Latimer,

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