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Roma A.D.1141 - Parte I
Roma A.D.1141 - Parte I
Roma A.D.1141 - Parte I
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Roma A.D.1141 - Parte I

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About this ebook

Non c'è pace per l'Impero e nemmeno per il suo Imperatore. Vinta infatti la guerra contro i nemici esterni che minacciavano le terre romane in Oriente e respinti coloro che volevano distruggere secoli di Civiltà e conquiste, la speranza per tutti era semplicemente quella del ritorno ad una vita serena, in un mondo tornato normale... Eppure, ancora una volta, una minaccia emerge dagli abissi della malvagità umana, ancora più nera, ancora più pericolosa: dalle province stesse dell'Impero, una figura che molti conoscono come “l'Orso” si è inspiegabilmente ribellata e sta sconfiggendo un generale dopo l'altro, un esercito dopo l'altro... Egli ha già fatto piombare nel caos le fertili terre di Germania e quel che è peggio è che nessuno sembra capire cosa voglia davvero. Lo spettro della guerra civile vaga per l'Impero, insieme a quelli che tormentano da tempo l'Augusto Iohannes e i suoi sforzi per un governo giusto e pacifico. Quattordici anni sono passati, ma nulla sembra cambiato, se non in peggio. Riuscirà l'Imperatore a sconfiggere anche questa volta i suoi nemici e vincere i suoi demoni? Questa è la domanda chiave a cui solo la lettura di ROMA A.D. 1141, potrà dare una risposta, in questa prima parte di romanzo che torna a seguire le vicende dell'Imperatore Romano Iohannes III Comnenus, uno dei protagonisti già incontrati in ROMA A.D. 1127, di cui questo presente costituisce l'appassionante e diretto seguito.

LanguageItaliano
PublisherPaolo Fontana
Release dateFeb 22, 2016
ISBN9788892557086
Roma A.D.1141 - Parte I

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    Roma A.D.1141 - Parte I - Paolo Fontana

    Paolo Fontana

    Roma A.D.1141 - Parte I

    UUID: c5519cbe-bd2e-11e6-b9ab-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com).

    Anno dell'Era Cristiana 1141; il 1894 dalla Fondazione della Città Eterna: a differenza della realtà (o almeno di una delle realtà...), Roma e la sua Civiltà non sono scomparse e l'Impero fondato da Octavianus Augustus, Primo Princeps e Padre della Patria, governa ancora, tra alti e bassi, le terre della vecchia Europa, le lande assolate dell'Africa settentrionale e quelle montagnose ma ricche del Vicino Oriente e l'Augusto Iohannes III Comnenus Ducas ne è l'attuale, centoquarantaquattresimo legittimo Imperatore. 

    In questa linea temporale, dunque, non esiste il Medioevo, perché l'Impero Romano d'Occidente non è caduto e la data classica di fine dell'Antichità (il 476 d.C.) è soltanto un anno come un altro nel lungo corso dei secoli: piuttosto, il punto di divergenza di questo mondo ucronico si posiziona un po' prima, nel 468 A.D./1221 aUc, anno in cui avvenne (nella realtà) l'ultimo tentativo imperiale di recuperare l'Africa dalle mani dei vandali e ripristinare così il flusso di tributi e di rifornimenti da quella provincia tanto ricca. Come si sa, quella spedizione congiunta dell'Est e dell'Ovest fallì con la battaglia di Promontorium Mercurii (Capo Bon) e a questo proposito le fonti ci dicono che, mentre la Sardinia e la Libya erano già state riprese con successo dai generali Marcellinus ed Heraclius, il generale Basiliscus – vittima della viltà, dell'indecisione o (come suggerisce Procopius) pure della corruzione – non riuscì invece a far sbarcare le proprie truppe per poi marciare su Carthago, dando così il tempo al re vandalo, Geisericus, di organizzare un contrattacco e incendiare la flotta romana: quello fu il colpo definitivo alle speranze della parte occidentale dell'Impero di continuare a sopravvivere. In questa linea temporale, però, tutto ciò non accade: si assume infatti che Basiliscus rifiutò la proposta di tregua avanzata da Geisericus e che abbia avuto il sangue freddo e la prontezza necessari per attaccare subito, senza aspettare, riuscendo così a sbarcare e, successivamente, riunitosi con il resto delle forze imperiali, a riconquistare Carthago e l'intera provincia. La sua vittoria, alcuni anni dopo, lo porterà a diventare persino un amatissimo Imperatore d'Oriente (e non un semplice usurpatore). Con la riconquista dell'Africa e delle sue ricchezze, unita al rinnovato prestigio tra le genti barbare che, qua e là, occupavano molte altre terre dell'Impero, l'Occidente romano fu così in grado di respirare e di ritrovare quel po' di stabilità di cui da tempo aveva bisogno: con l'Augusto Anthemius prima e poi con Marcellinus (asceso alla Porpora come suo successore e scampato, altro punto di divergenza, all'assassinio proprio perché non si trovava in Sicilia a quell'epoca), la parte occidentale poté resistere e, senza qui dire altro, prendersi negli anni successivi le rivincite su tutti quegli invasori che, quasi, l'avevan distrutta per sempre.

    Ciò che però costituisce il vero punto di divergenza di questa narrazione ucronica sta nel fatto che la società classica, comunque modificatasi nel tempo per naturale evoluzione, sia qui riuscita a resistere e persino a prosperare nella diversità di tempi confusi e durissimi, assorbendo la cultura dei popoli sottomessi e assimilati da Roma (primi tra tutti, i germani) e traendo ricchezza da un ritrovato sincretismo culturale e una rinata tolleranza religiosa: infatti, in seguito alle crisi dovute alle invasioni dal Nord Europa, alla perdita parziale dei valori e alla percezione del fallimento del Cristianesimo, incapace di impedire tutti quei dolori, i secoli VI e VII (o XIV e XV ab Urbe condita) di questo mondo videro invece una rinascita e un ritorno alle filosofie ellenistiche e, in generale, pre-cristiane, e si aprirono inoltre a nuove Fedi come la montante religio islamica proveniente dall'Arabia lontana o a quella del Loto portata dall'India e dall'Estremo Oriente. In un contesto di questo tipo, allora, visto che il Cristianesimo non riuscì ad essere così preponderante come nel vero Alto Medioevo, il potere temporale degli Imperatori e dello Stato romano andò rafforzandosi di nuovo, portando ad una riunificazione dell'Est e dell'Ovest e ad una nuova era di splendore e dominio su tutte le terre sorvolate dall'Aquila.

    Almeno fino ad ora...

    Ora vediamo come in uno specchio,

    in maniera confusa;

    ma allora vedremo faccia a faccia.

    Epistula I ad Corinthios, 13:12

    «Oh, Musæ, che sulle vette santissime dell’Helicon avete soggiorno, e danzate cantando, al suono della lira, sulle sponde della sorgente d’Aganippe, a voi tutte dovrei rivolgermi per trovare le parole e dare un senso alle sfuggenti apparizioni che tormentano i miei pensieri e che inutilmente tento di fissare sulla pagina bianca. Nella sacra fonte nata da un colpo di zoccolo dell’alato Pegasus, dovrei allora immergermi, o anche solo specchiarmi, per udire così il vostro canto insuperabile. E come il giovane che vagando un giorno vi incontrò, mentre attraversava senza meta i campi ricchi in messi dell’antica Ascra – o portava le greggi al pascolo sulle pendici del monte sacro? Non ricordo! – e al sol vedervi diventò poeta, io mi accontenterei unicamente di uno sguardo o di una nota di cetra, della durata di un istante. Allora, sì, sarei felice e le parole che cerco fluirebbero come siero zuccherato – oppure dolce vino – per guidare la mia mano verso quel prezioso e raro istante in cui l'arte eguaglia la vita e dove quest'ultima non è altro che un festino d'abbondanza, un banchetto di libertà per lo spirito ingordo eternamente in attesa. Oh! Il mio cuore si aprirebbe e i miei pensieri sarebbero chiari e pieni e, ispirato dall'ebrezza, potrei scriver finalmente come scrivere non so. Perché da solo, infatti, non credo di esserne capace. Fino ad allora, però, continuerò a cercare il vostro canto nella speranza di udirlo echeggiare almeno una volta, dapprima lontano, e poi forse sempre più vicino, e allo stesso modo cercherò le parole che mi servono per comporre questa e altre lettere, dedicate alla mia amata, perché non posso proprio attendere ancora.

    Che ne dici, mio unico vero amore? Hai ragione, lo so, sono tutte frasi già sentite e risentite, le mie, e sicuramente penserai che non riuscirò mai a diventare un poeta, io. Dunque, perdonami se le parole che hai appena letto sono solo quelle di un semplice scrivano, il cui unico pregio è però l’ardore del sentimento che, come fiamma, brucia per te e da te viene alimentato. Perdona anche tutta questa confusione – oh, una follia d'amore! – e attendi paziente, perché so per certo che un giorno le Musæ verranno a visitare anche me.

    Ah! Quanto è dura e perigliosa la via che porta i nomi di Amor e di Cupìdo! Per colui che la percorre, essa è infatti irta di spine e spesso dolorosa, almeno quanto lo è stato il calvario di quel profeta in Palestina, un migliaio di anni fa. Beh… forse, Helena adorata, crederai che come al solito io sia piuttosto eccessivo nello scrivere così, e ammetto che quest’ultima immagine sia un poco esagerata, senza contare poi che se i nostri amici – cristiani timorati! – venissero a sapere che paragono il mio travaglio d’animo alle pene sofferte dal loro salvatore, di certo non vorrebbero restar tali ancora a lungo! Ma loro – i cristiani – non hanno niente che preservi e tuteli l’amore, anzi l’Amore con la A maiuscola, inteso come invece lo intendo io, e cioè il sentimento sacro all’uomo per eccellenza. Essi lo raccomandano, questo sì, definendolo puro e casto – cosa in parte vera e in parte falsa, lo sappiamo bene! – ma solo come riflesso di quello totale che riservano verso il loro Deus tanto che, se stessimo ad ascoltare i loro sacerdoti, dovremmo tutti rimanere sempre in chiesa a confessarci di continuo perché delle cose terrene quasi tutto, secondo loro, è peccato da non commettere. Bah! Quante fesserie!

    Perdona questo mio sfogo, ma sono convinto che non si possa davvero giudicare il mondo sulla base di ferree convinzioni e di rigidi assoluti. Non ci si può permettere il lusso di possedere dei dogmi inalterabili, perché essi saranno in qualche caso o per qualche motivo sempre sbagliati prima o poi. Questa è la prima regola dell’esperienza, dico io, e non solo per ciò che riguarda l’Amore, ma per ogni cosa che riguarda la Vita in generale...

    Ad ogni modo, qui in Germania sarò pure rimasto l’ultimo dei pagani – come falsamente ci chiamano ancora gli episcopi locali e i loro seguaci – ma se davvero dovessi difendermi dalle loro accuse e spiegare perché non voglio imboccare la strada giusta, come spesso molti mi suggeriscono di fare, allora direi che sarebbe impossibile per me essere devoto ad un'unica divinità, quantunque questa fosse onnipotente ed eterna. E se, pur solo per ipotesi, lo facessi, già il limitarmi a considerare in che modo il loro dio provi a custodire le loro anime immortali mi basterebbe, infatti, per sapere che ho ragione a non adorarlo! Tu lo sai perché dico così ma voglio scriverlo qui ancora una volta: l’essenza del mondo è mutevole e possiede mille forme, esattamente come l’anima dell’uomo. E io sono un Uomo. Un solo dio allora non basta. Non può bastare.

    Per questo motivo, credo ciecamente che l’anima si trovi al cospetto di un pantheon di divinità, ognuna con le proprie caratteristiche, i propri vizi e le proprie virtù. Venero gli dei come ha sempre fatto la mia gens da generazioni, da prima ancora che Octavianus Augustus ricoprisse di marmo la beneamata Roma e fondasse l'Impero, e sono felice perché so che essi proteggono l’animo mio – così come quello degli altri – e ne sono lo specchio, riflettendo ogni sforzo che compio nell'incessante lotta contro il mutar volubile di tutti i sentimenti che mi contraddistinguono. Per questo, dico, cosa può esserci di più umano e allo stesso tempo di più divino dei vizi di Bacchus e del suo abbandonarsi all’ebbrezza di una sbornia in una sera d’estate? O ancora del desiderio di gloria che il valoroso Mars nutre pensando alla guerra? (Voglio sottolineare che per secoli il nostro Impero si è rivolto a lui per ottenere protezione nelle battaglie contro i nemici esterni, anche se nessuno sembra più ricordarselo, ora!)

    Chi afferma poi che la mia sia una fede primitiva, legata ad un mondo antico che ormai non esiste più, non compie errore più grande. Prima di tutto perché se tutto ciò che è antico è di conseguenza anche primitivo e da dimenticare, allora i grandi monumenti, le opere d’ingegno e le invenzioni del passato dovrebbero esserlo a parimenti. Eppure, chi critica la mia fede non considera l’Arco di Constantinus, il Parthenon o – per andare ancora più indietro nel tempo – le Piramidi, opere di barbari stupidi e immondi, e non vorrebbe certo distruggerle. Che provino pure a bollare la ricerca della saggezza di Minerva o la forza delle passioni di Venus come semplici espressioni di una rozza antichità o di un relitto del passato. Avranno tutti torto nel farlo! Perché esse sono molto, molto più di quello! Ma non lo capiscono! In particolar modo, poi, Venus contempla l’esperienza umana per ciò che riguarda l'Amore, il sentimento più vero, quello più pieno, l’unico che lega l’uomo al divino e che, per brevi e sfuggenti istanti, riesce persino a donargli la più completa delle felicità terrene. Come si può allora, chiedo io, non abbandonarsi completamente ad esso? Come si fa a non capire tutto ciò?

    Ah! Il mio sangue pagano torna e ribolle, ogni volta che ci penso!

    "Chi ama goda di buona salute, e muoia chi non sa amare. Muoia due volte chi impedisce l'amore!" Ricordi questi versi? Li abbiamo letti sui muri anneriti dell’antica Pompeii, quando l'abbiamo visitata l'estate scorsa durante il nostro viaggio nel Latium e in Campania. Sono rimasti per secoli sepolti, conservandosi nascosti, ma per fortuna ora possono essere di nuovo visti da tutti. Sono contento che ai suoi tempi l’Augusto Henricus abbia ordinato di liberare dalla terra e dalla cenere quelle vie dimenticate all'ombra del Vesuvius.

    E sono contento pure che fino ad ora gli Imperatori siano stati arbitri delle fedi piuttosto imparziali, perché in questo modo essi hanno quasi sempre contenuto gli eccessi che il predominio di una sola sulle altre potrebbe portare. Già una volta, infatti, all'epoca delle invasioni, il cristianesimo era quasi riuscito a oscurare le menti della maggioranza dei Romani e a convincerli che esso fosse l'unica vera fede di questo mondo, ma, per fortuna, quei tempi passarono proprio come tutti gli altri, dimostrando che ciò che resta è in fondo sempre solo ciò che conta davvero. E non è un segreto per nessuno che quei giorni coincisero con la crisi più dura per l'Impero e con le sue notti più buie: invasioni, epidemie, apparizioni nel cielo, presagi e carestie furono le piaghe che quasi ci portarono alla distruzione più completa. Non c'è da meravigliarsi se, una volta sopravvissuti, molti abbandonarono delusi il Christus e i suoi preti corrotti, tornando a professare le antiche religioni. Così, ora, perlomeno, anche se l'attuale gens al potere è ufficialmente cristiana, così come lo è più della metà della popolazione dell'Impero stesso – soprattutto nella provincia di Germania, accidenti! – e benché negli anni ci siano state gravi eccezioni e violenze, in generale nessuno può più permettersi di perseguitare qualcun altro solo sulla base di una diversa convinzione religiosa ed essere allo stesso tempo protetto dalla Legge. E questo non può essere che un bene.

    Perciò ti confesso che accolgo con timore e con un po' di preoccupazione le notizie di questi tempi decadenti, in cui il potere degli Augusti viene messo di continuo in discussione. Senza questo potere, non può esserci la pace e temo l’arrivo di giorni difficili, ancora più cupi e tormentati di quelli che stiamo già vivendo. Hai sentito del caos che regna su, in Saxonia, nei territori controllati dall’usurpatore Albertus?

    Spero che il Princeps si decida a tornare qui presto, non solo perché le nostre case sono così vicino a quei luoghi ormai perduti, ma anche perché non vedo come ci possa essere sviluppo e benessere in un mondo senza leggi e senza tolleranza. Abbiamo tutti bisogno della pace!

    Comunque… Mia amata Helena, scusa se finora t'ho annoiato con questi miei lamenti, puoi anche non considerarli affatto in verità. Fammi però riprendere il discorso di prima, a cui invece tengo moltissimo… Parlavo infatti dell’Amore e di come io lo consideri un sentimento travagliato ed estenuante ma, nonostante tutto, sempre bellissimo. Perché, in fin dei conti, cos'è la sofferenza del cuore se non un percorso necessario, compiuto da un momento felice ad un altro? E non è forse vero che ogni ostacolo incontrato è una prova e che bisogna sempre resistere alle tempeste provocate dall'incertezza delle passioni?

    "Sopporta, cuore… mi ripeto di continuo, nelle sere in cui mi ritrovo lontano da te, lontano da quella tua bocca che non posso baciare e da quella tua pelle di miele che non posso sfiorare e nemmeno accarezzare. Pensa! Non posso allora far altro che guardare un tuo ritratto, anche se so bene che esso non farà mai giustizia alla tua vera bellezza. E anche il solo ricordarti, pur riuscendo in qualche modo a lenire il dolore di questa nostra lontananza, accentua la mia pena, nell’attesa spasmodica di un nuovo incontro, mentre il mio cuore resiste ma soffre, sempre più stanco. Sopporta..." dico ancora.

    A colui che esclamò – non so bene quando – che per vivere bene senza preoccupazioni sia necessario prestare attenzione all’entusiasmo e all’Amore, poiché essi non sono che temporanei e soggetti a fluttuare, e che dunque sia meglio tenerli alla larga per non farsi mai scoprire deboli, io rispondo che invece preferirei abbandonarmi cento e cento volte ancora al precario equilibrio del mare agitato di quelle sensazioni, anche se solo per la breve durata di una notte di passione trascorsa con la donna che amo. «Sono pronto alla vita!»potrei urlare davanti a tutti nel foro o in mezzo alla strada poiché nulla può ormai convincermi di essere nel torto, impegnato come sono in questa mia vaga ricerca che spero un giorno mi porterà almeno un po' della felicità che sogno di continuo.

    Forse il mio entusiasmo ti sembrerà come al solito eccessivo, ma in qualche modo devo esprimere ciò che sento dentro di me. L'Amore che provo palpita incontrollato come un tamburo di guerra ed esso risuona e rimbomba, proprio come in quegli istanti interminabili che precedon la battaglia. L’animo mio è allora una città, assediata da un esercito che non smette mai di battere alle porte e che, usando arieti imponenti, vuole entrare ad ogni costo. Dovrei cedere del tutto a questa forza di marea? Dovrei aprire quei cancelli che ancora resistono e che impediscono all’invasore di fluire, come un fiume in piena, al suo interno e spazzare via ogni mia residua certezza? Sono veramente certo che, una volta abbassate le difese e arresomi completamente a questa spinta irresistibile, essa invece non darà saccheggio al mio cuore e non porterà piuttosto grande tristezza e molto dolore?

    Oh, ti rispondo subito, Helena mia, perché, almeno in questo caso, conosco già la risposta. Essa è no, non posso dirti che nulla di tutto ciò accadrà mai, e temo sia grande la possibilità che insieme all’Amore si insinui nel mio cuore anche l'ombra della Sofferenza – restando magari in agguato come una tigre d’Hyrcania o un lupo di Scania – e che questa, dopo aver saccheggiato tutto, mi lasci ferito, senza forze per reagire.

    Non spaventarti però, amore mio. Non c’è nulla da temere in ciò che ho appena scritto perché in fondo tutto questo non è altro che un falso problema. Pensaci! Se Amore e Sofferenza non sono altro che le due facce della stessa medaglia, le due estremità di un uroboro, allora non c’è modo di trovare una soluzione per poterli separare, per poter essere certi di provare solo uno di essi. L'uno è inscindibile dall'altro e lo rafforza, dandogli valore. E, per questo, se non c’è una soluzione, non esiste neppure il problema, anche perché sarebbe inutile pensarci e ripensarci sapendo che il farlo non ci porterebbe a nulla. O si accetta completamente questo fatto o lo si rinnega e si evita l'Amore per paura della Sofferenza ma, in quel caso… Beh… Commisero l’uomo che sceglie questa via poiché la sua vita sarà misera e si dissolverà, come acqua nel deserto.

    Cosa posso dirti di più? O, Helena adorata, conto ogni istante passato lontano da te e sogno, per giorni e per notti, la bellezza del tuo viso. Nella brezza che trasporta il profumo degli ultimi fiori tardivi, mi pare di sentire la dolce essenza della tua pelle; nel riflesso che sfavilla attraverso le trame dei vetri di Damascus rivedo il colore delle tua chioma dorata e ricordo gli istanti trascorsi ad ogni mio sguardo che si posa, nostalgico, sulle vie e sulle strade percorse con te.

    Ora, però, non riesco a scrivere altro, anche se vorrei continuare, ma so che così facendo non potrei mai leggere la tua risposta, unico sollievo di questa nostra lontananza. Se i tempi sono oscuri e la guerra minaccia di scendere dal nord, troveremo lo stesso un modo per ritrovarci e ti porterò al sicuro, dove non ci saranno pericoli, e giuro – su tutto ciò che ho di più caro al mondo – che non mancherò mai a questa mia promessa. L’Amore è miele, dolce e caldo, e io non voglio più farne a meno. Viva!, grido alla gente che pur mi prenderà per pazzo ma lo stesso non m’importa. Niente importa più quando il cuore è colmo di gioia!

    Stai bene, dunque, Helena. Ti ricopro di baci e, nella speranza di ritrovare ancora il tuo sguardo, penserò a te, intenta a scorrere queste righe di poeta sconsiderato e magari a sorridere, come tu sola puoi, con quei tuoi occhi giocosi e – lo spero! – ancora innamorati. I miei di sicuro lo sono, sempre, sin dal primo istante che hanno avuto la fortuna di posarsi su di te.

    P.S. Ho sentito che l’Augusto ha lasciato Roma e dovrebbe essere giunto a Constantinopolis dopo quasi due anni. Vedi? Ognuno torna dove ha lasciato il proprio cuore, e dove ritiene stia la propria casa. Così, ancora una volta ti chiedo di tornare, e porre fine a questa lontananza che ogni giorno, lentamente, il cuor m’uccide.

    Tuo.»

    I

    CONSTANTINOPOLIS, REGIO URBIS

    «Tutto questo attorno a me, lo trovo fastidioso.

    Mi confonde e perdo la strada.»

    «Abbandona lo sfarzo.

    Rifuggi il lusso quand’esso è superfluo.»

    «E poi? Cos’altro mi consigli?»

    «Temperanza, mio Augusto.»

    Philippus Menenius Trio, magister officiorum dell'Impero, si trovava nello splendido palazzo di Daphne, parte dell'immenso complesso imperiale, e finalmente leggeva il messaggio che aveva appena ricevuto ma che aspettava da diverso tempo ormai: «L’Imperatore sta tornando, dunque», commentò subito, in parte sollevato e in parte preoccupato dalla notizia velocemente scorta sul foglio.

    «Cosa dobbiamo aspettarci?»

    «Noi? Beh, noi… Cosa siamo noi di fronte alla gloria dell’Impero e agli affari del mondo? No… Sai che ti dico? È solo un bene che abbia lasciato Roma. Solo un bene…»

    «Non mi sembri convinto», notò il suo interlocutore. «Cosa pensi sul serio? È forse un segreto?»

    «No, certo che no», si affrettò a rispondere. «Però è probabile che siamo in procinto di assistere a un qualche cambiamento, temo… Se fossi in te, però, non avrei nulla di cui preoccuparmi davvero, visto il tuo rango», disse, anche se subito – come se non fosse riuscito a trattenersi – aggiunse con un sospiro: «Vedo tempi bui davanti a noi…»

    «Più bui di questi?», gli chiese l’altro, con fare allarmato. «Non sono già abbastanza, i guai dei nostri tempi? Soprattutto quelli che ci sono capitati negli ultimi due anni?»

    «Ah, potrei scommetterci la testa, caro Longinus. Sono anni che vivo tra i potenti, conosco l’Imperatore personalmente, e in tutto questo tempo ne ho viste di ogni, nonostante chi governa cerchi sempre di fare e decidere tutto nel segreto delle stanze che stanno dietro a queste porte… Fidati, è in arrivo una tempesta, anzi quella è già cominciata e noi ci stiamo proprio in mezzo ormai, e da parecchio. Il problema è che presto diventerà più violenta e non so chi riuscirà a salvarsi.»

    Intimorito da quelle parole, Longinus si guardò intorno. Fuori, il sole splendeva a Constantinopolis, anche se era un periodo che non faceva più caldo come prima. Se avesse allungato il collo per osservare di sotto, avrebbe visto lo splendido giardino del Sacro Palazzo, con i suoi alberi da frutto importati dall’Oriente e i suoi bianchi pavoni gironzolare qua e là, incuranti delle preoccupazioni degli uomini. Quell’angolo di paradiso era vietato alle persone comuni, sia che esse fossero cittadini o sudditi, e ancor meno agli stranieri o ai barbari, per cui avrebbe potuto dirsi fortunato nel poter contemplare per qualche istante una scena di calma e serenità come quella, che solo la Natura, per quanto ricostruita dall'Uomo, sapeva trasmettere. Poi, come al risveglio da un sonno piacevole e a lungo desiderato, riportò l’attenzione sul proprio interlocutore.

    «Quali sono gli ordini, allora?»

    «La lettera dice che dobbiamo informare i membri del concistorium che si trovano in città, e urgentemente pure, poiché l’Augusto intende convocare l’assemblea non appena sarà di ritorno.»

    «Quando pensa di arrivare?»

    «Qui dice domani… Suppongo sia indicativa come nota ma… È meglio che tutto sia pronto entro stasera, allora.»

    Poi, con fare distaccato e meccanico, proprio di qualcuno del tutto a suo agio nell’eseguire per l’ennesima volta un certo tipo di mansione, si girò, prendendo a camminare con passo deciso lungo lo stretto corridoio: «Diamoci da fare, Longinus! Aiutami, se ti va. Non c’è tempo da perdere!», disse, dando le spalle al ragazzo che di nuovo si era perso nei propri pensieri.

    Con passo di trotto, questi si mise a raggiungere il magister, mentre i busti dei poeti e dei cantori posti ai lati, tra le finestre luminose, sembravano osservarlo con quel solito sguardo ammonente e oltremodo severo.

    Il giorno dopo, il Princeps dell'Impero Romano, Iohannes III Comnenus Ducas Augustus, arrivò puntuale, in tarda mattinata, esattamente come lui stesso aveva anticipato nel messaggio che aveva inviato al magister. Quest'ultimo, in coordinazione con il præfectus Urbi Adamantius, si era allora dato un gran daffare affinché tutto fosse stato pronto e l'Imperatore avesse potuto fare un'entrata trionfale lungo la via principale della capitale, la famosa Via Media: in questo modo, infatti, tutti avrebbero potuto finalmente vederlo e acclamarlo di nuovo dopo quasi due anni di assenza. Ovunque c'erano soldati a protezione dei punti ritenuti critici e, nascosti tra la folla, agentes dei Servizi Segreti del logotheta Megadorus che vigilavano per impedire eventuali minacce alla sua Santa persona.

    «Tutto sommato, mi sembra che la gente di questa città ti voglia ancora bene, Augusto», gli disse il magister militum dell'Impero, nonché suo grande amico, Iohannes Auxuchus con un sorriso, mentre cavalcava leggermente dietro di lui, alla testa del corteo. Le scholæ, tutte intorno a loro, vestivano le migliori uniformi da parata ed erano splendide a vedersi. Al ritmico rimbombo dei tamburi e agli squilli di tromba suonati dai soldati addetti, il seguito dell'Imperatore avanzava allora con passo marziale, proprio come era consuetudine fare quando quest'ultimo ritornava in una capitale, dopo esser stato via per un certo periodo di tempo.

    Di sicuro, nessun Romano che si rispettasse poteva in qualche modo non apprezzare una parata di quel tipo, e infatti tutta la città sembrava essersi riversata ai lati della via per vederla, in un'atmosfera di gran festa. In qualsiasi direzione si girasse, l'Augusto poteva così scorgere solo un immenso mare di folla, entusiasta per il suo ritorno, e tutti sembravano urlare il suo nome, sommerso però nel confuso brusio di mille altri suoni, urla e strida diversi che si sovrapponevano di continuo. Auxuchus, a quella scena, non poté non pensare che la decisione del magister officiorum Philippus di far circolare in anticipo la notizia del ritorno del Princeps fosse stata una buona mossa e avesse dato i risultati sperati.

    «Avrei preferito arrivare in incognito, Iohannes, ma quei testardi dei funzionari – compreso tu, accidenti! – hanno insistito che dovevo mostrarmi al popolo, dopo tutto il tempo passato in Occidente…», si lamentò l'Imperatore.

    Il generale a quel punto lo guardò, divertito dall’apparente scontrosità dell’amico. In effetti, lo sorprendeva sempre come Iohannes, nonostante tutto lo sfarzo e il lusso di cui era circondato – e che aveva ridotto un bel po’, in quegli anni, sia per fastidio che per necessità di incamerare soldi per le casse dello Stato – non avesse mai davvero considerato utile o necessaria la possibilità di usufruire di quei privilegi che chiunque altro nella sua posizione avrebbe invece sfruttato e ritenuto dovuti per il semplice fatto di vestire quella sua stessa Porpora o di portare quel suo stesso diadema dorato a forma di corona d'alloro. Sin da quando lo conosceva, infatti, erano stati quasi unicamente il senso del dovere e quello di responsabilità ad emergere sopra tutte le altre passioni e le incertezze del suo spirito, come se il capitano della nave di quel suo animo inquieto non avesse mai avuto un solo dubbio sul dove puntare la prua o un solo timore di poter affondare, né nei giorni di cielo sereno né in quelli di tempesta più nera.

    Erano amici da così tanto tempo… Lo conosceva, era vero, ma certe volte sentiva che non era del tutto così, e che forse – anzi, sicuramente – dubbi e timori dovevano visitare la mente stanca di Iohannes molto più spesso di quello che accadeva a lui stesso o ad altre persone. D'altronde, si tendeva sempre a pensare che una mente complessa e intelligente come quella del Princeps fosse in qualche modo avvantaggiata rispetto alle altre, in grado cioè di coglier più a fondo le sfumature della vita o di comprendere meglio i comportamenti degli uomini, ma la verità – la stessa che valeva per l'Augusto così come per chiunque altro – non era davvero questa. Anzi, era piuttosto stupido pensarla così. Dopotutto, infatti, anche quella mente apparteneva a qualcuno e non era solo un'entità astratta, senza alcun legame con il mondo o con gli uomini, e quel qualcuno aveva in fondo gli stessi problemi e le stesse paure che assillavano e tormentavano anche tutti gli altri. Semmai – se proprio si voleva continuare a considerarla differente in questa sua singolare eccezionalità – era possibile notare che, in effetti, essa sperimentava di continuo qualcosa di diverso, raro e non da tutti, il peso di un fardello – ad essa imposto da quelle sue stesse complessità, intelligenza ed esperienze di vita – di cui non riusciva mai a sbarazzarsi davvero e dal quale, in realtà, forse non voleva nemmeno essere liberata.

    Nel pensare a tutto questo, Auxuchus provava sempre una certa tristezza – e pena fraterna – per le sofferenze che un animo sensibile come quello di Iohannes doveva essere costretto a sopportare di continuo, sapendo peraltro di non poter fare null'altro per aiutarlo se non stargli vicino e continuare a fare il proprio dovere. All'improvviso, però, il magister si accorse di aver passato qualche secondo di troppo a guardare fisso l'amico, il quale aveva notato la cosa.

    «Cosa c’è? Non credi che avrei dovuto evitare tutto questo fracasso? A quest’ora saremmo già a Palazzo. Non è certo il tempo di festeggiare, questo… Ma cosa festeggiano poi, questi ignoranti?», sbottò in malo modo l'Augusto. Stavolta, però, Auxuchus fu pronto a rispondere.

    «Fortuna che c’è, questo fracasso, Iohannes, altrimenti ti avrebbero sentito!», disse scherzando. «Ma, seriamente amico mio, anch’io credo che di questi tempi tu faccia bene a mostrarti un po’ in pubblico. Oltretutto, nonostante tu non la consideri casa tua, questa è la tua città, e la fonte del tuo potere, così come lo è per l'intera tua gens. Senza Constantinopolis, e i suoi abitanti ancora devoti a voi Comneni, probabilmente tu saresti in preda ai vizi e alle voglie di Roma e non potresti governare. Hai visto com’è laggiù, la situazione… Per cui, come tuo amico, ma anche come tuo devoto cittadino e come uno dei magistri dell'Impero, io ti suggerisco: goditi questo momento perché poi avrai ben poco tempo per riposarti e, te lo garantisco, avrai persino nostalgia delle frivolezze del popolo.»

    «Sì, beh, hai ragione in fondo… Non avrei dovuto chiamarli "ignoranti". Dopotutto, forse, c’è davvero bisogno di un po’ di leggerezza in questi tempi», ammise l'Augusto, muovendo la testa e volgendo lo sguardo tutt’intorno per mettersi finalmente a salutare chi lo acclamava ai lati della grande via e gli lanciava mazzi di fiori e ghirlande profumate. E a quel punto non ci volle molto prima che il malumore gli passasse ed egli tornasse ad essere l'uomo amabile di sempre, tanto che, poco dopo, allargando le braccia in un slancio d'entusiasmo, non riuscì a trattenersi e disse: «In effetti...», e sorrise,«Guarda com’è bella la nostra Constantinopolis!!»

    In quell’istante, breve e fugace come tutto ciò che è di valore, Iohannes si rese conto allora di non aver mai osservato attentamente le meraviglie della capitale. L’aveva vista, sì, ma ci aveva vissuto per anni senza mai concederle niente più che un’occhiata annoiata o infastidita, nei giorni in cui era stato costretto a mostrarsi all’Ippodromo o alle funzioni religiose. Dopotutto, era giunto alla conclusione di aver vissuto la maggior parte del suo tempo all’interno delle mura del Sacro Palazzo il quale, per magnifico che fosse, non rifletteva che una parte della bellezza millenaria della città di Constantinus. Essa non era certo Roma, non era tanto antica, e nei cuori delle persone, così come nelle tradizioni, nelle convinzioni e nelle idee, essa non sarebbe mai riuscita a rimpiazzarla completamente, ma in qualche modo anche Constantinopolis era ormai diventata una parte profonda dell’anima dell’Impero. Essa era radicalmente romana e non c’era nulla o nessuno che avrebbe potuto contraddire quest’affermazione con la pretesa di aver ragione, perché essa era diventata semplicemente un dato di fatto, inconfutabile persino dal più abile degli oratori polemici del Mare Ægæum o dei giuristi del foro di Berytus.

    Si godette allora ciò che vide, quando passò ai piedi della trionfale Colonna di Arcadius, nella piazza a questi dedicata, e tutti, nel corteo, diedero un’occhiata – breve o lunga che fosse – a quello splendore che sfidava, come tutto il resto, lo scorrere dei secoli. I Romani erano il popolo che aveva sconfitto il tempo, pensò. Cosa c’era di più romano di quella colonna? Essa celebrava un Imperatore, ma anche un popolo, e il suo genio, capace di attraversare le maree della storia come nessun altro aveva mai fatto. Auxuchus stesso, come se potesse leggergli nel pensiero, disse: «Nonostante i terremoti, è ancora lì!», indicando i bassorilievi che la cingevano, in un percorso a spirale lungo tutta la sua superficie. Sulla sua cima stava poi un enorme capitello corinzio e, più in alto ancora, superando in linea d'aria anche i tetti degli edifici, la statua equestre del vecchio Imperatore.

    L’Augusto, che aveva studiato bene la storia dell’Impero, però aggiunse: «Beh, in realtà questa non è quella originale voluta da Theodosius. La colonna venne infatti danneggiata nel terremoto del 704 e la sua statua crollò a terra. Fu il princeps Lucius Prandus a ordinare che venisse subito restaurata e rimessa su là in alto», lanciando poi un’occhiata alla sommità del monumento che ormai si trovava alle sue spalle.

    «Hai ragione, amico mio. Mi ero dimenticato di questo particolare. Ad ogni modo, è uguale a quella originale», disse il

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