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Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze
Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze
Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze
Ebook487 pages7 hours

Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze

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Il 10 giugno 1940 l'Italia entra in guerra. La dichiarazione viene notificata anche alla Francia, paese nel quale risiedono moltissimi italiani (come anche nelle colonie francesi), i quali nei giorni successivi all'inizio del conflitto vengono fatti oggetto da parte delle autorità francesi di una selvaggia caccia. A rivoltelle spianate gli agenti irrompono di notte nelle abitazioni, arrestano chi trovano e come si trovano. Furti, ingiurie e percosse accompagnano un po' dovunque l'operazione, che divide famiglie e disperde averi. Nei campi di concentramento i connazionali vengono addensati in ambienti immondi e sottoposti a sevizie di aguzzini. Vernet, St. Raphael, St. Cyprien, Montech...: nomi d'orrore, che questo libro, attraverso le testimonianze degli italiani perseguitati, consegna per sempre alla memoria delle generazioni future.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2015
ISBN9788892529700
Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze

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    Gli Italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze - Ministero Della Cultura Popolare

    Gli Italiani

    nei campi di concentramento

    in Francia

    Documenti e Testimonianze

    A cura del Ministero della Cultura Popolare

    Società Editrice del Libro Italiano Roma 1940-XVIII

    Proprietà letteraria riservata

    Tip. della Soc. Editrice del Libro Italiano – Roma – Via Ezio, 19

    Sommario

    Prefazione

    Esodo da Parigi

    La caccia agli italiani

    Campo di concentramento di Vernet d'Ariege

    Gli orrori del campo di Vernet d'Ariège

    Eccovi un vostro compagno fascista

    Ufficiali e gendarmi migliorano la loro mensa a spese dei prigionieri italiani

    Nonostante l'armistizio le violenze francesi continuano

    Un italiano costretto al suicidio

    Le feroci percosse da parte della gendarmeria francese conducono un internato alle soglie del suicidio

    Se non fosse arrivato l'armistizio saremmo finiti nel piccolo cimitero del campo

    Obbligato a partire con la frattura di tre costole

    Campo di concentramento di St. Cyprien

    Morì col nome d'Italia sulle labbra

    I funerali di Adriano Turletto

    Violenze della gendarmeria francese

    La polizia francese ruba le automobili

    Trascinati per le vie del paese con le mani legate dietro il dorso ed esposti agli sputi della folla

    Altre testimonianze sulle giornate passate nel campo di concentramento di St. Cyprien

    L'odissea del piroscafo italiano Rosandra

    Lettera di un corso al padre

    Fame, tavolaccio, percosse

    Un mutilato di Bligny fra i prigionieri

    L'ordine di sparare

    Si prendono le impronte digitali degli italiani!

    Le odiose manovre delle autorità francesi per costringere gli italiani a rinunciare alla loro cittadinanza

    Minaccia di fucilazione di massa

    Un eroico ispettore di polizia

    Violenze contro un operaio

    Stralci di lettere inviate in Italia da internati di St. Cyprien

    Inni e canzoni degli internati di St. Cyprien

    Campo di concentramento di St. Jodard (Loire)

    Tribolazioni di vecchi e malati

    Vergognoso trattamento alle donne

    La dolorosa odissea dei fascisti di Voiron

    Figli di cani, sporca razza! Chiodi e non acqua!

    Un metro di legno scambiato per un revolver

    Questa banda di fascisti della V Colonna ora li sopprimiamo tutti

    Celui-ci c'est un chef

    Campo di concentramento di Montech e Cascaret

    Si nega al figlio di vedere il padre moribondo

    Un diario eloquente

    Incatenati

    Campo di concentramento di Huriel

    Crudeltà contro le donne

    Campo di concentramento di Courgy

    Il campo di Courgy

    Campo di concentramento Le Blanch

    Senza mangiare per cinque giorni

    Campo di concentramento di Douhet

    Gli ospedali francesi rifiutano l'assistenza ai paralitici italiani

    Altri documenti sulle sofferenze degli italiani in Francia

    Bisognerebbe ucciderli tutti!

    Le donne italiane costrette a difendersi dagli sconci tentativi della soldataglia francese

    Cimici, topi, scarafaggi e fame

    Si nega lo spago per legare il frumento

    Bastonato e derubato di 2.000 Lire dalla polizia francese

    800 italiani senza viveri

    I gendarmi francesi fracassano i denti a un italiano

    Perquisiti e derubati

    La folla francese incita alla fucilazione

    Maltrattamenti

    Dalla relazione al comando della VII Armata sul trattamento degli italiani in Francia

    Dal rapporto De Renzi del 10 agosto 1940 alla commissione italiana per l'armistizio con la Francia

    Dal rapporto Giglioli del 10 agosto 1940 alla commissione italiana per l'armistizio con la Francia

    Altro rapporto Giglioli sulla situazione materiale, morale e politica dei campi di concentramento

    Tunisia

    Sbeitla, inferno dei vivi

    Era un povero sordomuto

    Campo di concentramento di Kasserine

    La selvaggia uccisione di un italiano a Kasserine

    Condizioni della colonia italiana in Tunisia dopo l'armistizio

    La sorte di 60.000 italiani dopo l'armistizio

    Aggressioni di italiani a Tunisi un mese dopo l'armistizio

    Non vi è casa italiana che non abbia una condanna, un dolore, un orgoglio

    Algeria - Campo di concentramento di Kreider

    L'acqua costa troppo per voialtri: vi darei piuttosto il vetriolo

    Ucciso dalle sofferenze patite

    Campo di concentramento di Orano

    Marocco – Campo di concentramento di Hadeb

    Una pallottola di rivoltella è troppo cara per te

    Campo di concentramento di Mediouna

    Italiani inermi, al canto di Giovinezza abbattono i reticolati obbligando i francesi a deporre le armi

    Guadalupa

    Italiani alla mercé di soldati di colore

    Libano

    La violenta ostilità della autorità contro gli italiani

    Appendice

    Lettera pubblicata da Il Popolo d'Italia, 28 luglio 1940-XVIII

    Lettera pubblicata da Il Solco fascista, 17 agosto 1940-XVIII

    Lettera pubblicata dal Meridiano di Roma, 3 settembre 1940-XVIII

    Prefazione

    Or è più dì un anno - tra la fine di agosto e i primi di settembre 1939 - il Duce esperiva il suo ultimo tentativo per evitare la guerra che Gran Bretagna e Francia si apprestavano a muovere alla Germania col pretesto del corridoio e di Danzica. Invano. La guerra - dalle due Democrazie - venne dichiarata.

    Un patto d'alleanza universalmente noto legava l'Italia alla Germania. E durante i nove mesi in cui l'atteggiamento italiano fu di non belligeranza l'Italia tenne sempre a riconfermare l'assoluta lealtà del suo impegno.

    Se nella recente storia d'Europa si è mai dato un avvenimento non solo prevedibile e atteso, ma scontato in anticipo, questo è appunto l'intervento italiano nella presente guerra. Si aggiunga, per quanto riguarda la Francia, che assai prima del 10 giugno il Governo fascista aveva preso contatto col Governo francese per regolare il rimpatrio del rispettivo personale in missione diplomatica, consolare, giornalistica, ecc., all'atto del nostro ingresso nel conflitto.

    Mai, quindi, una dichiarazione di guerra riuscì meno imprevista di quella notificata il 10 giugno dall'Italia alla Francia nelle più tradizionali forme del protocollo internazionale.

    E per parte sua l'Italia provvide al rientro delle, rappresentanze francesi secondo le regole concordate e con lo stile di signorilità di una Nazione civile. Non un solo cittadino francese, in Italia, venne trattato meno che correttamente dalle autorità e dalla popolazione.

    Per il fatto che in Francia non sia accaduto altrettanto nei riguardi degli italiani, non v'è dunque nessuna scusante: nessuna di quelle spiegazioni, se non giustificazioni, che possono derivare dalla fretta e dall'orgasmo di un avvenimento subitaneo, o da una reazione di reciprocità sia pure trasmodante e moltiplicata.

    * * *

    Quel che successe in Francia e nelle Colonie francesi nei confronti dei nostri connazionali - il 10 giugno e durante i giorni successivi - è quanto questo libro racconta con la voce schietta e ferma dei suoi documenti.

    Ineccepibili documenti. Incompleti, se mai, perché si son volute ridurre al minimo le ripetizioni; senza dire che alla Direzione Generale degli Italiani all'Estero e al Ministero della Cultura Popolare nuove testimonianze continuano ad affluire, delle quali non si è tenuto conto per non ritardare troppo la pubblicazione. Successive edizioni non potranno quindi modificare la tragica realtà che qui si espone, se non aggravandola ancora nella misura complessiva e negli episodi.

    In Francia la notizia della nostra dichiarazione di guerra non fu che il via per una organizzata e selvaggia caccia all'italiano. A rivoltelle spianate gli agenti irrompono di nottetempo nelle abitazioni, arrestano chi trovano e come si trova. Furti, ingiurie e percosse accompagnano un po' dovunque l'operazione, che divide famiglie e disperde averi. E mentre all'ambasciatore e all'ambasciatrice d'Italia si offre, per attraversare Parigi, il carrozzone dei detenuti, a diecine di migliaia italiani d'ogni età sesso condizione vengon stipati in carri-bestiame e avviati ai campi di concentramento. Il mito bugiardo della quinta colonna funge da pretesto poliziesco.

    E c'erano, in quei giorni, ben altre colonne contro cui gli uomini validi si sarebbero dovuti sentire in dovere di combattere. Ma parve che la Repubblica concentrasse il residuo spirito organizzativo nella grande soperchieria antitaliana, dove impiegò emiro inermi un numero di armati non trascurabile. Mentre la guerra-lampo bruciava le sue tappe, in un settore almeno la Frangia non volle farsi battere in velocità. Incredibilmente rapida riuscì la immensa retata degl'italiani, quasi nel timore che la preda sfuggisse e l'odio non facesse in tempo a sfogarsi.

    Nei campi di concentramento la gente del nostro sangue viene addensata in ambienti immondi e sottoposta a sevizie di aguzzini. Vernet, St. Raphael, St. Cyprien, Montech...: nomi d'orrore, che questo libro consegna per sempre alla memoria delle generazioni fasciste.

    C'è chi s'ammala inguaribilmente. C'è chi arriva al suicidio attraverso il delirio e la pazzia. C'è chi cade come Turletto: e raggiunge nel cielo dei martiri gli operai di Aigues Mortes.

    Leggendo queste testimonianze semplici, dove all'urto d'una bieca ferocia l'altissima superiorità della nostra gente risplende, occorre vincersi per conservare lucido il discernimento, tanta è la commozione, e l'ira.

    Ma si tratta di uno sforzo necessario. Dalla sanguinosa esperienza occorre trarre tutti gli ammaestramenti di cui è ricca. Occorre dedurre tutte le conclusioni che essa comporta. Il gran lampo d'odio antitaliano investe la Francia d'una luce sinistra e penetrante, svelandone l'intimo con una precisione preziosa.

    * * *

    Anzitutto è da rilevare: l'odio che esplode al 10 giugno contro gl'italiani in Francia non conosce discriminazioni di sorta.

    Esplode contro gli operai, i minatori, i rurali, i meccanici, gli artigiani; contro i dirigenti di industrie e di banche; contro gli intellettuali, gli artisti, i giornalisti, i professori. Accomunati nei maltrattamenti e nelle vessazioni, troverete in queste pagine nomi di Corte e d'officina; colonizzatori della Tunisia e cattedratici della Sorbona, dirigenti delle organizzazioni fasciste e lavoratori e familiari di lavoratori alieni da attività politiche militanti.

    Come quest'odio non conosce differenze nel proprio oggetto, così non ha epicentro, non è legato a situazioni locali. Si manifesta uguale dal Marocco a Parigi, dalle città di provincia ai borghi della, campagna: dovunque il lavoro italiano ho: reso fertile ha terra, non saputa conquistare o tradita dai francesi; dovunque l'intelligenza italiana, portava il suo contributo inestimabile alla vita del Paese; dovunque gli italiani immettevano un flusso di sanità e un ritmo di equilibrio nella decadenza circostante.

    È odio di governanti francesi, ebrei e meteci, i quali premeditano e ordinano gli arresti in massa; odio di ufficiali, di soldati, di poliziotti, i quali eseguiscono gli ordini con l'aggiunta personale di una inaudita brutalità, è odio di folle, che al passaggio degli italiani indrappellati, al transito dei corno gli, di là dai fili spinati dei campi, prorompono in invettive e minacce, iterando i medesimi miserabili ritornelli - sale italiani sale macaroni! - a testimoniare come l'astio sia generale, uniforme, antico, tenace....

    È insomma - occorre rendersene conto e compenetrarsene - l'odio di tutta la Francia verso tutto il popolo italiano.

    Se alla, fine della stia vita di larva retorica la Latinità aveva bisogno di una pietra tombale, eccola. Sotto questo blocco di documenti, il vecchio fantasma equivoco giace per sempre.

    Secondo. A parte quanto ci offende come italiani, il trattamento infetto dalla Francia ai nostri connazionali ci colpisce come europei: come partecipi, voglio dire, di una comune civiltà dei popoli d'Occidente.

    Che una particolare crudeltà albergasse nelle genti galliche, lo si sapeva dalla loro rivoluzione irta di picche, balenante di ghigliottine: smisuratamente grondante di sangue. Ma ci s'era illusi che il contatto sempre più frequente con le altre genti del Continente avesse a poco a poco smussata l'antica barbarie. Ci s'era lasciati ingannare dai vezzi della politesse parigina.

    Questo volume dimostra che l'acerba - ma anche franca e anche ardita - violenza d'un tempo, lungi dallo scomparire e dall'attenuarsi, si è andata invece corrompendo nel teppismo degli apaches e nel sadismo dei degenerati. Non per nulla la letteratura e il cinema dell'ultimo decennio francese apparivano tanto gremiti di malviventi, su desolati sfondi di delinquenza metropolitana e coloniale. Non era, quella dei libri di Carco o dei filmi di Renoir, una falsa Francia: era una Francia autentica: quella stessa che qui si scopre in piena e cruda luce, con empiti di corruzione umana e anche con scorci di sporcizia ambientale quali non sì potrebbe supporre esistano ancora - alla metà del Novecento - nel centro d'Europa.

    Fra gli occupanti germanici, irreprensibili, fra i correttissimi soldati italiani i quali a Mentone tengono il primo lembo delle terre che saranno nostre, e le canaglie monturate che con le loro triste gesta empiono queste centinaia di pagine, corre una differenza che non è soltanto di stirpe o d'idea: una differenza di educazione, di livello, di civiltà. Talmente forte, che nella ricostruzione d'Europa non si potrà non tenerne il debito conto, per un dovere di profilassi sociale e di igiene collettiva.

    * * *

    Nell'analizzare l'accaduto si nota, accanto al livore antitaliano e allo sfogo teppistico, un terzo elemento.

    Si trattò anche, infatti, dì una persecuzione indirizzata a uno scopo preciso. Quale? Quello di estorcere al maggior numero possibile di italiani una dichiarazione di lealismo verso la Francia .

    Questo pure è da notare. Questo pure è istruttivo. Mentre le Panzerdivisionen rombavano sugli asfalti di Piccardia e gli Alpini scalavano il San Bernardo, la Francia ufficiale proseguiva disperatamente la sua politica di naturalizzazione contro natura.

    Nazione infeconda, essa non cercò mai seriamente di curate le radici morali della propria sterilità. Aveva scelto invece altre vie. Da decenni aveva tentato con prepotenza di rinsanguare i vecchi suoi ceppi, collegati dal lungo vincolo unitario, mercé l'apporto dì quanti straripavano per legge di vita e di lavoro sulle sue tene disertate, figli di differenti razze prolifiche. Inoltre essa non rifiutava affatto, anzi sollecitava, il dubbio contributo degli elementi marginali d'ogni società nazionale: il flusso dei rifugiati, degli spostati, dei falliti. Né sceverava l'ebreo dall'ariano, il negro dal bianco.

    Tutto valeva a far numero. Numero, ma non blocco: tant'è vero che, all'urto della guerra, al collaudo estremo, il conglomerato ecco si sfaldava, si fendeva lungo tutte le sue incrinature.

    Ma, ciechi anche davanti a questa evidenza, i dirigenti francesi non seppero se non proseguire e accelerare - nell'imminenza, stessa dello sfacelo, e durante - la loro tradizionale politica della naturalizzazione coatta. Moltiplicando l'illegittimità, cercarono (invano) di strappare a centinaia di migliaia di persone, appartenenti a un popolo con cui la Francia si trovava in guerra, una frettolosa domanda di cittadinanza francese. Manovra propagandistica, per dimostrare una presunta dissidenza di masse emigrate col proprio Governo e con le sue decisioni? O, come abbiamo accennato, rinnovato tentativo in extremis di inflazionare le cifre della popolazione?

    L'una cosa e l'altra. Certamente un nesso intercorre, fra codesto tentativo in grande stile e il fatto che a un dato momento milioni di francesi preferirono - alla morte - la vita, sia pure accompagnata dalla disfatta e dalla prigionia. Oscuramente, la Francia sentiva che l'esito stesso della guerra era per essa secondario, di fronte alla imprescindibile necessità di far massa, di far numero... Finché la Francia restava al suo livello demografico, senza salassi paragonabili a quello della guerra mondiale; finché rimediava a una perdita di vite non rilevante, sia pure attraverso mezzi dì artificiosa coartazione, la Francia, questo paese demograficamente in bilico sull'orlo del fatale regresso, conservava la speranza - o l'illusione - di poter mantenere l'antico posto nella gerarchia europea.

    Il numero è potenza: certamente. Ma è potenza quel numero che sorge dall'energia spirituale e fisica di una razza. Non è potenza - è anzi debolezza - il numero ottenuto artificiosamente per via di imposizioni agli immigrati (o per la scorciatoia obliqua del meticciato ). La sconfitta francese ne fornisce la più chiara riprova.

    Né potrà restare potenza, e grande potenza, nell'Europa di domani, un paese che non possiede più in se stesso le forze per mantenere e accrescere il proprio numero: ed è portato perciò come questo libro conferma - a metodi inammissibili di trasferimento forzoso da una a un'altra nazionalità, tentando di imporre con la violenza quella cittadinanza che in uno Stato degno di questo nome è un bene prezioso da concedere con la più gelosa parsimonia.

    Queste pagine gridano vendetta. Ma non è vendetta quel che noi perseguiamo.

    Soltanto, quando sarà venuto il momento di reintegrare all'Italia le popolazioni e le zone che le spettano, nonché di operare tutta una salutifera revisione delle posizioni francesi, riportando la Francia al suo limite e indicandole la via del risanamento, non si venga a chiedere proprio all'Italia quella «pietà», che in questi casi serve solo a rendere vacillante la mano del chirurgo.

    Alessandro Pavolini

    Esodo da Parigi

    RAPPORTO DELL'AMBASCIATORE D'ITALIA A PARIGI

    All'Eccellenza il Cavaliere Conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo

    Ministro degli Affari Esteri Roma

    Roma, 25 giugno 1940-XVIII

    Fin dal 20 maggio, in seguito alla nota iniziativa presa dall'Ambasciatore di Francia a Roma, la R. Ambasciata di Parigi entrava in contatto col Quai d'Orsay allo scopo di stabilire i limiti e le modalità del rimpatrio di funzionari, impiegati e dirigenti di istituzioni coloniali nella eventualità di una rottura dei rapporti diplomatici fra i due Paesi.

    Dopo un primo scambio di vedute nel corso del quale la Direzione Generale degli Affari Politici volle sostenere il criterio della reciprocità numerica, al quale fu opposto da parte nostra il criterio della reciprocità assoluta e, in linea subordinata, quello della reciprocità proporzionale alla consistenza delle due collettività, il Quai d'Orsay manifestò a più riprese il desiderio di sospendere dette conversazioni, facendo sapere che l'iniziativa dell'Ambasciatore francese era stata disapprovata dal suo Ministro e che pertanto non era il caso di dare alla stessa seguito ulteriore.

    L'occasione offertaci dall'Ambasciata di Francia a Roma, di regolare fin dal periodo pre-bellico la spinosa questione che si sarebbe presentata all'inizio delle ostilità, era troppo favorevole ai nostri interessi perché io mi decidessi facilmente a lasciarmela sfuggire. Detti perciò istruzioni al Consigliere di Emigrazione Tommasini, di mantenere vive le conversazioni ufficiose iniziate al riguardo e, senza tener conto del desiderio espresso dal Quai d'Orsay, continuai ad informarlo delle istruzioni e delle disposizioni che mi venivano mano a mano da Voi comunicate circa le modalità di una eventuale partenza delle rispettive rappresentanze.

    Di questa insistenza nel voler trattare un argomento che il Ministero degli Esteri francese avrebbe volentieri escluso dai rapporti con la R. Rappresentanza non ho, in seguito, avuto ragioni di pentirmi; nell'assenza di un governo operante, essa mi ha permesso, come dirò più avanti, di riferirmi ai preesistenti accordi e di farli valere quando la grettezza delle autorità poliziesche francesi di frontiera avrebbe voluto bloccare a Bellegarde una parte dei due cosiddetti treni diplomatici.

    Tutte le questioni relative ad una eventuale partenza furono così sollevate al Quai d'Orsay, secondo le Vostre istruzioni, fra il 20 maggio e il 9 giugno. Tutte furono oggetto di accordi ufficiosi e di promesse più o meno formali. Le liste del personale appartenente all'Ambasciata e ai Consolati furono compilate sulla traccia di quelle inviate da Roma, consegnate e approvate. Le liste degli insegnanti, del personale addetto agli uffici di turismo, Camere di Commercio, uffici di navigazione, stabilimenti Simca, furono anche consegnate e approvate ai fini della sollecita concessione di un visto d'uscita dalla Francia. Infine fu convenuto, non senza difficoltà, che in caso di conflitto avrei potuto portare con me nel treno diplomatico trenta persone di mia scelta contro l'impegno che nel treno in partenza da Roma avrebbero potuto prendere posto dieci cittadini francesi designati dall'Ambasciatore François-Poncet.

    Contemporaneamente allo svolgersi di queste conversazioni, la R. Ambasciata si adoperava attivamente a facilitare la concessione dei visti di uscita ai connazionali desiderosi di rientrare nel Regno, e provvedeva ad alleggerire, mediante il rimpatrio di famigliari e di elementi non strettamente indispensabili, le liste del personale che avrebbe dovuto prendere posto nel treno diplomatico.

    Anche di questa ultima precauzione che in quel momento avrebbe potuto apparire superflua, dato che le liste erano già state approvate dal Quai d'Orsay, non ho avuto ragione di pentirmi. Mi domando, infatti, con quali mezzi la sconvolta amministrazione francese avrebbe potuto assicurare l'evacuazione di oltre mille persone facenti parte dei RR. Uffici, quando soltanto cinquecento di esse hanno posto gli uffici competenti nel più serio imbarazzo per la soluzione dei più elementari problemi logistici.

    Con accordi di reciprocità più o meno precisi e con effettivi da rimpatriare notevolmente ridotti arrivai dunque al mattino del giorno 10, quando un Vostro telegramma m'informava che alle ore 16,30 dello stesso giorno l'Italia avrebbe dichiarato la guerra alla Francia e all'Inghilterra.

    Le poche ore che mi restavano avrebbero dovuto essere dedicate, nelle mie intenzioni, a perfezionare col Ministero degli Esteri gli accordi dei giorni precedenti, ma purtroppo il Quai d'Orsay non aveva nella mattinata del 10 che una sola preoccupazione: fuggire. Aprirsi un varco nei cortili del Quai d'Orsay fra casse, bauli, cesti di carte destinate al fuoco era già cosa difficile, ma una volta superato questo ostacolo i rari visitatori non trovavano di fronte a loro che porte spalancate e uffici deserti. Il Comm. Tommasini, da me inviato al Ministero, ebbe tuttavia la ventura di incontrare nei corridoi il Capo del Cerimoniale, signor Lozé, anche egli sul punto di partire, e poté così consegnargli gli ultimi appunti concernenti varie questioni relative alla «eventuale» partenza della R. Rappresentanza in Francia e al viaggio marittimo della R. Rappresentanza in Inghilterra. Il Sig. Lozé disse che avrebbe portato con se questi appunti nella nuova sede del Governo e aggiunse che per comunicazioni di carattere urgente avrei potuto rivolgermi, a partire dal giorno successivo, al Signor Peretti della Rocca, Ambasciatore a riposo, il quale sarebbe stato incaricato di mantenere il collegamento fra le Rappresentanze diplomatiche rimaste a Parigi e il Ministero degli Affari Esteri.

    Intanto io mi recavo, sulle prime ore del pomeriggio, dall'Ambasciatore del Brasile, Sig. Souza-Dantas, per metterlo al corrente della imminente dichiarazione di guerra e prendere con lui gli accordi del caso circa la protezione della collettività italiana. Rientrai in Ambasciata in tempo per ascoltare, attorniato dai miei collaboratori e da un folto gruppo di giornalisti e di connazionali, la storica parola del Duce.

    Era appena terminata la trasmissione radiofonica che un succedersi di ordini e di alte voci, rompendo il silenzio della strada non più percorsa da vetture e quasi completamente disabitata, mi fece accorrere verso i cancelli dell'Ambasciata. La polizia aveva circondato la R. Sede e respingeva con mali modo i connazionali che correvano a rifugiarvisi. In mezzo ad essi, di ritorno da una corsa in città, il secondo segretario, Conte Del Bono, tentava inutilmente di far valere le proprie immunità. Soltanto dopo lunga discussione col Commissario che dirigeva il servizio di polizia, mi fu possibile liberarlo e farlo entrare in Ambasciata.

    Da questo momento, ore 18,30 del giorno 10, fino alla mezzanotte del giorno 12 quando i carrozzoni polizieschi vennero a prenderci per condurci alla stazione, sono rimasto, con tutto il personale dell'Ambasciata e con un gruppo di connazionali giunti in tempo a penetrare nella R. Sede, prigioniero della polizia. Questo stato di fatto che avrebbe potuto anche attribuirsi in un primo momento a zelo, ignoranza o manifestazioni di animosità di funzionari subalterni, fu avallato in pieno dalla più alta autorità responsabile, il Ministro dell'Interno Mandel, il quale dichiarò al Consigliere dell'Ambasciata del Brasile, che mi considerava, con tutto il personale, in istato di arresto.

    Non starò a dilungarmi sulle antipatiche e scortesi manifestazioni della polizia di Mandel la quale, nella serata del 10, vietò agli Ambasciatori del Brasile e del Giappone e al Consigliere di Spagna di venirmi a visitare. Quest'ultimo riuscì poi, insistendo personalmente presso lo stesso Mandel, a penetrare nell'Ambasciata. A lui potei consegnare alcuni telegrammi diretti a codesto Ministero per avvertirlo che non era stato possibile eseguire alcune Vostre istruzioni a causa della fuga dei funzionari del Quai d'Orsay.

    Il giorno 11 il Ministro Consigliere del Brasile riuscì ad entrare nel Palazzo dell'Ambasciata e da quel momento ci prestò valida e simpatica assistenza.

    I disagi ai quali vennero sottoposti, per tre giorni, i 120 funzionari e ospiti della E. Ambasciata, privi in gran parte del più sommario giaciglio, furono sopportati da tutti con disciplina e con buon umore. Nella non facile impresa di nutrire per tre giorni questo gran numero di persone contro il mal volere della polizia ci aiutò dapprima il Consigliere dell'Ambasciata di Spagna inviandoci commestibili di cui malgrado ogni nostra insistenza rifiutò il pagamento. Poi le signore dell'Ambasciata, fra le quali va tributato uno speciale elogio alla Marchesa Theodoli, organizzarono le cose in maniera soddisfacente.

    Queste tre giornate di prigionia furono particolarmente dedicate da me a convincere le autorità di polizia della necessità di rintracciare molti parenti di impiegati rimasti in città, nonché i connazionali compresi sulla lista di trenta persone che il Quai d'Orsay mi aveva autorizzato a portare nel treno diplomatico. Compito difficile e privo di ogni solida base perché il Quai d'Orsay, partito senza lasciare consegne di sorta ne all'Ambasciatore Peretti della Rocca ne alla Prefettura di Polizia, era la sola autorità, purtroppo lontana e irraggiungibile, che potesse confermare l'esistenza dei laboriosi accordi e delle diligenti liste che avrebbero dovuto regolare la nostra partenza.

    Finalmente, al terzo giorno, il Primo Consigliere dell'Ambasciata del Brasile, coadiuvato dal nostro Vice Console Orlandini, il quale iniziava così la missione affidatagli di collegamento con la rappresentanza della Potenza protettrice, poté ottenere dalla polizia i mezzi necessari per la ricerca in città dei connazionali da rimpatriare. Nel corso della giornata giunsero in Ambasciata, cordialmente accolti dai camerati che li attendevano, alcuni impiegati della C.I.T., della Compagnia di Navigazione Italia, di Banche Italiane. Fra essi erano due connazionali fatti uscire dal campo di concentramento «Buffalo» i quali riferirono che oltre 1500 italiani erano già raccolti in detto campo, privi di ogni assistenza e perfino di nutrimento.

    Invano ho insistito, fino all'ultimo momento, perché fossero ricercate e condotte in Ambasciata le dieci suore di Vitry-sur-Seine, le dieci di Noisy-le-Grand ed alcune altre di S. Vincenzo di Paola che, già in possesso del visto di uscita dalla Francia, non avevano fatto in tempo a partire coi mezzi ordinari.

    Nel frattempo la polizia penetrava nella vecchia sede dell'Ambasciata al n. 50 della Rue de Varenne, eseguiva una perquisizione nei locali dell'Associazione Combattenti e in quelli dell'Ufficio Commerciale dell'Ambasciata ed asportava documenti. Elevai protesta presso il Ministro Consigliere del Brasile, ma a questi la Polizia rispose che non intendeva considerare la sede vecchia dell'Ambasciata come coperta dall'immunità diplomatica.

    Avevo sperato che la nostra prigionia si fosse potuta prolungare fino all'arrivo delle truppe tedesche a Parigi, giacché, responsabile come ero di tanti connazionali rifugiatisi nella R. Sede, fra cui donne, vecchi e bambini, mi preoccupavo molto di dover partire senza che le autorità francesi potessero organizzare con le dovute garanzie il nostro viaggio, da effettuarsi a un certo punto in prossimità delle linee tedesche e col pericolo di attacchi aerei ad un treno di grandi proporzioni come sarebbe stato il nostro. Avevo quindi pregato il Ministro Consigliere del Brasile di fare possibilmente dell'ostruzionismo alle proposte francesi, ma nel pomeriggio del 12 la Polizia intimò tassativamente l'ordine della nostra partenza. Alle proteste del diplomatico brasiliano per la brevità del tempo concessoci, il Prefetto Simon, Capo Gabinetto del Prefetto di Polizia, rispose che se l'Ambasciatore d'Italia non intendeva partire colle buone, sarebbe partito colle cattive e che del resto a lui Simon nulla più importava di quanto potesse accadere a noi dal momento che era giunta notizia del felice arrivo dell'Ambasciatore di Francia a Roma in territorio svizzero. Ciò era falso, ma ad ogni modo il diplomatico brasiliano ebbe la buona idea di rispondere al Prefetto Simon che rimaneva pur sempre a Roma l'Ambasciatore di Francia presso il Vaticano e che il Governo italiano avrebbe potuto esercitare su quest'ultimo qualche rappresaglia. Fu soltanto per questa considerazione che il funzionario francese si ammansì, ma ad ogni modo rimase fermo l'ordine della Prefettura di tenerci pronti a partire immediatamente, e così le mie insistenze e quelle dell'Ambasciata del Brasile intese a completare il recupero dei connazionali da rimpatriare non poterono più essere rinnovate. Una lunga teoria di carrozzoni di polizia fiancheggiati da agenti motociclisti occupò la Rue de Varenne e i primi furgoni destinati a raccogliere il bagaglio furono fatti avanzare.

    Il carico del bagaglio fu fatto esclusivamente dal personale subalterno dell'Ambasciata e quando questo, sopraffatto di fatica, non poté più tenere il ritmo celere che l'ora avanzata esigeva, furono funzionari dell'Ambasciata che trascinarono sui marciapiedi della Rue de Varenne casse e bauli senza che gli agenti di servizio muovessero un dito per aiutarli.

    Verso la mezzanotte, il lungo corteo di carrozzoni, preceduto e fiancheggiato da agenti in motocicletta, si avviò alla stazione; avrei personalmente usufruito con mia moglie, dello stesso mezzo di locomozione se il Ministro del Brasile non ci avesse gentilmente offerto ospitalità nella sua macchina.

    Traversammo Parigi nella notte in un'atmosfera di tragica desolazione. Ogni tanto si scorgevano passare nell'oscurità fuggitivi trascinanti misere suppellettili: vidi un carro armato abbandonato in pieno Boulevard St. Germain.

    Il treno, oltre a varie vetture di prima e di seconda classe sufficienti per trasportare abbastanza comodamente il personale degli uffici e i membri della collettività, portava due vetture di vagone letto ma non la vettura-salone prevista negli accordi di reciprocità a suo tempo conclusi col Quai d'Orsay.

    A Digione salì il console Bosio con tutto il suo personale al completo. Arrivammo a Bellegarde al mattino del 13. Il Comm. Tommasini fu invitato a scendere col funzionario di polizia che aveva scortato il treno, per recarsi al Commissariato della stazione. Accoltovi in modo insolente dal Commissario speciale e dal Tenente che comandava il posto militare e dopo alcune parole amare a Ile quali il Tommasini rispose con fascistica energia, egli si sentì dire che, mancando qualsiasi disposizione da Parigi, soltanto le persone provviste di passaporto diplomatico avrebbero potuto passare la frontiera. Invano il nostro funzionario parlò di accordi presi col Quai d'Orsay e di liste approvate; ottenne soltanto una vaga assicurazione che si sarebbe domandata conferma di questi accordi al Ministero degli Esteri, purtroppo irraggiungibile.

    La sosta a Bellegarde si annunciava così abbastanza lunga e a renderla meno molesta non valsero certamente le misure di «protezione» che le autorità locali si affrettarono ad adottare, stabilendo attorno al treno uno schieramento di sentinelle, obbligandoci a tenere le tendine abbassate e impedendo a tutti di scendere sul marciapiedi o di accostarsi ai terrazzini dei vagoni. Nelle prime 24 ore, le misure «di protezione» vietarono fra l'altro il passaggio interno da uno scompartimento all'altro del treno.

    Per non ritornare in seguito sull'argomento di queste stupide vessazioni dirò fin d'ora che i disagi si aggravarono nei giorni successivi, per esaurimento di luce, per mancanza di acqua nei gabinetti e per le difficoltà di approvvigionamento. I pasti a nostre spese furono quasi esclusivamente composti di uova sode e di salumi.

    Quando il treno dell'Ambasciata giunse a Bellegarde, erano già in stazione, soggetti a peggiori angherie, il Console di Montpellier, Pinna, con tutto il suo personale e il Console Generale di Tolosa, Luppis, col Vice Console Romanelli e con il Consigliere di Emigrazione Vagnetti. Il Console Pinna aveva saputo subito raggiungere la frontiera con tutto il suo personale.

    Il pomeriggio del 13 trascorse senza novità nei riguardi del nostro proseguimento. Soltanto alle 11 del giorno successivo fui avvertito che il Console Generale del Brasile, Signor Milton de Weguelin, il Console Generale degli Stati Uniti, Signor Harold Hilgard Pittmann e l'Addetto Commerciale del Brasile, Signor De Zima Cavalcanti, erano giunti da Ginevra per risolvere la nostra situazione. Ebbi subito con essi una lunga conversazione nei locali del Commissariato di Polizia e li pregai di informare esattamente Roma dello stato delle cose. Da una parte ignoranza completa delle locali autorità circa gli accordi a suo tempo presi col Quai d'Orsay e quindi richiesta francese di lasciare a terra tutte le persone estranee alla rappresentanza diplomatica e consolare — cosa a cui assolutamente mi rifiutavo —; d'altra parte preoccupante ritardo nell'arrivo a Bellegarde di molti Consoli e impossibilità per me di avere informazioni esatte al riguardo.

    La risposta di Roma non tardò a giungere e la sera stessa ero in condizione di dichiarare alle locali autorità francesi:

    1) che non sarei partito prima di avere con me tutti i Consoli;

    2) che non mi sarei mosso se tutte le persone condotte con me da Parigi non fossero state autorizzate a proseguire;

    3) che ove gli 87 operai e impiegati della stazione internazionale di Modane, arrivati nel frattempo a Bellegarde, non fossero autorizzati a partire con me, l'Italia avrebbe trattenuto nel Regno trenta francesi i quali, pur essendo muniti di un visto d'uscita, erano stati fermati a Milano alla dichiarazione di guerra.

    Da questo momento i funzionari francesi si scuotono; si mettono in rapporto telefonico col Ministro francese a Berna; procedono all'esame delle liste da noi presentate, limitandosi a contestare il diritto di passaggio della frontiera per una quarantina di nomi; cessano di prendere atteggiamenti ironici quando parliamo di impegni assunti dal Quai d'Orsay e di liste approvate da esso.

    Sono intanto arrivati i funzionari consolari di Nizza, Cannes, Marsiglia, Chambery, Grenoble, Tolone, Bordeaux, Lione, col loro personale. Non mancano più che i consoli di Le Havre, Monaco e Nantes i quali avranno dovuto conformare la loro azione e il loro

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