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Enosim, Hieracòn
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Enosim, Hieracòn
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Enosim, Hieracòn

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About this ebook

"Il ritorno alla fine è stato inevitabile [...]. È una porta che si deve chiudere, un filo che si deve spezzare".

Un'isola come protagonista, un viaggio a ritroso nello spazio e nel tempo. Il tentativo di recuperare un passato che non è dell'individuo, ma è di tutti. Cosa vuol dire ricordare e perdersi, cosa significa appartenere? Una riflessione sulla memoria e sul tempo, a volte amara e disincantata, a volte divertita e lucida.

"Un’isola insegna a fare a meno del passato [...].Qui è sempre tutto in attesa, continuamente, come il giorno prima della creazione".
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2015
ISBN9788892520806
Enosim, Hieracòn

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    Enosim, Hieracòn - Giuseppe Ghigino

    Giuseppe Ghigino

    Enosim, Hieracòn

    UUID: cbba662a-eba7-11e5-a0fd-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    PARTE PRIMA

    Occhi fissi nel buio

    Il sentiero nascosto

    Atlantide

    Archeologia di me stesso

    Alla deriva

    PARTE SECONDA

    La sagra del Santo

    Niniana e Merlino

    Il ritorno di mio padre

    Profumi adolescenziali

    Il cimitero personale

    I nidi dei naufraghi

    PARTE TERZA

    Il fantasma degli addii

    Sprazzi di luce a mezzanotte

    La casa sul mare

                                                                                                   Finalmente posso dirvi addio...

    PARTE PRIMA

    Occhi fissi nel buio

    17 gennaio, mercoledì

    Il ritorno alla fine è stato inevitabile. Ci ho girato e rigirato intorno; ci ho frapposto mille ostacoli, ogni volta una scusa diversa, ma ora basta, non si può più. Sarà che l’inverno quest’anno mi sembra più freddo; le giornate sono tutte grigie, anonime, senza calore; passano perché devono passare, come nuvole portate dal vento: ma tant’è, non incidono più. Sono una ruota che gira a vuoto, consumo solo energia; l’ingranaggio si è inceppato e non funziona. Sarà che quest’anno mi sento più vecchio, improvvisamente, senza che me ne fossi mai accorto prima. Per esperienza ho capito che le cose non cambiano gradualmente. Restano uguali a se stesse anche per molto tempo. A un certo punto, quando ti eri già illuso che potessero rimanere così, ecco che il meccanismo all’improvviso si muove, fa uno scatto; e il tempo, che fino ad allora era rimasto a guardare, con un balzo poderoso ti lascia indietro, sempre più indietro. E poi alla fine, parliamoci chiaro, non riesco più a dirmi bugie. Fino a qualche giorno fa avevo un bel parlarmi sopra, fare un chiasso insopportabile per non sentire; ora se devo vedere vedo senza cortine, e forse è meglio così. Ho capito ad esempio che sarà l’ultima volta che torno, e che tardare non serve a nulla. È una porta che si deve chiudere, un filo che si deve spezzare. Sono come un pescatore con la lenza che non tira, aspetto il pesce che non abbocca. Non voglio essere così. Mi sentirò più felice, dopo; più libero, in un certo senso. Camminerò senza pendere all’indietro, andrò dritto dove devo andare.

    17 gennaio

    Sono un bugiardo. Devo dire le cose come stanno, senza tergiversare. Ieri sera mi ha chiamato mia sorella, per l’ennesima volta. Ha detto che si è stufata di aspettare, che si è organizzata con la ditta per la demolizione. Non ha più senso indugiare. Oltretutto lei è vecchia, se per vecchiaia intendiamo l’età in cui non si ha più voglia di scherzare; e lei non scherza. Mio nonno scherzava moltissimo, fino a poco prima della morte: sarà per questo che non l’ho mai considerato vecchio, nonostante fosse morto alla bellezza di novantasei anni. Ma ora tutto questo non conta. Ora contano i fatti, e davanti ci siamo io e lei. Tutto il resto è superfluo. Ho accettato subito perché anch’io non ho più voglia; ma soprattutto volevo vedere se aveva davvero intenzione di farlo. Per adesso sembrerebbe di sì. Voglio vedere se andrà fino in fondo.

    18 gennaio, giovedì

    Ho preparato le valigie in tutta fretta. È curioso come faccio le valigie, io. Ci metto tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto faccio scelte importanti, assolute, vitali, come se dovessi partire per Marte e non dovessi tornare più indietro. Perché devo stabilire quali sono le cose importanti, quelle di cui non potrei fare a meno, e ce le infilo. Posso assicurare che non è facile. È come essere costretti a gettare più pesi possibili per non affondare: come fare a scegliere? Di solito sono sempre cose assurde, quelle che porto, sono cose veramente senza senso: i miei due libri preferiti, la mia giacca per le occasioni eleganti - anche quando devo andare in campeggio -; la vestaglia che mi aveva regalato mia madre, la cintura marrone, la pipa - anche se poi non la fumo -; la saliera con dentro il tabacco; il coltellino, quello spuntato, con cui al massimo ci apro le noci; la mia penna preferita, la mia sciarpa, persino la mia teiera. Ora capisco perché gli Egizi erano così attaccati alle loro cose. Se le portavano nella tomba, le conservavano perché c’era la loro vita, perché senza non era lo stesso. Abbiamo assolutamente bisogno delle cose che non cambiano, o che cambiano in superficie; sono il nostro aldilà, la nostra promessa e la nostra unica consolazione. Questa storia di così tante religioni, per cui si deve abbandonare tutto per accedere alla vita eterna, personalmente non ha senso! Non si possono abbandonare gli oggetti, perché l’anima ci si è come incastrata, ci si è invischiata, non la separi più. Per me quantomeno è così. 

    Dopo avere deciso i sommersi e i salvati, la mia vita si riduce all’osso. Non posso dire di averla circoscritta tutta, questo no, ma devo dire che ogni volta ci vado vicino. O forse è solo un’illusione. Ogni scelta presuppone una rinuncia, e molto spesso una rinuncia arbitraria. Forse, se potessi davvero non escludere nulla, porterei tutto il mondo, e anche allora sarebbe incompleto lo stesso.

    20 gennaio, sabato

    Ogni volta che viaggio è lo stesso. Mi sembra sempre che il flusso in qualche modo si spezzi, che ogni cosa si scomponga nei suoi elementi minori. Il mondo a cui ero abituato cessa di esistere, e per tutta la durata del viaggio i componenti elementari si avvicinano e si allontanano fino a provare soluzioni alternative, altri universi possibili con la materia di partenza. Io stesso mi sento annullare in tutta quella confusione; respiro l’aria come per la prima volta, mi guardo intorno istupidito; penso che potrei ricominciare un’altra vita, senza alcuna implicazione anteriore. Quanti errori non farei! Una vita di nuovo daccapo, pura e selvaggia come un fiume che straripa! Ma è soltanto un’impressione. Quando il viaggio finisce, l’unità si ricompone esattamente come prima; il flusso spazio-temporale mi riporta alle coordinate che conosco, e non posso più perdermi neanche volendo. La vita riprende il suo corso.

    Anche il viaggio per l’isola è stato pressappoco così. Con la differenza che, questa volta, invece della solita anarchia di elementi si è verificato il fenomeno opposto: le particelle si sono come condensate, hanno lasciato pochi spazi. La mia vita sembrava recuperare peso, una consistenza inedita a cui non ero più abituato. In qualche modo urtava di nuovo le cose; le incideva, ci lasciava addosso il segno. Ma non era un segno nuovo, netto, pulito, il segno insomma di una volontà che è forte e che si scava da sé il suo passaggio. No, assolutamente. Era un segno già visto, un ricalcare una figura cancellata dalla pioggia e dal tempo. Sapevo già come sarebbe finita, in un certo senso, ma volevo presenziare lo stesso.

    21 gennaio, domenica

    Le linee si sono ricomposte così bene da formare il profilo preciso di un’isola che si ingrandiva ogni minuto di più, un po’ ondeggiante per il mare mosso. È così perfettamente ricalcata da sembrare la stessa di tantissimi anni fa, con la mia vita e le mie cose di bambino; è veramente una copia perfetta.

    Quando sono sbarcato la pioggia era cessata, ma le nuvole sono ancora sospese. A quest’ora non c’è in giro nessuno. Le due linee mi coincidono benissimo, passato e presente; tutto va a meraviglia. Non si ricalcano soltanto i contorni delle cose, ma anche i gesti, i miei gesti, i movimenti che facevo; forse persino i pensieri. Ma di questo non sono ancora sicuro. Certamente, ho l’impressione di ripetere ciò che dovrà accadere: davvero un modo strano di fare il turista!

    Attraverso il paese deserto, come se fossi l’unico sopravvissuto. Ho lasciato l’auto sul lungomare, mi stiracchio e mi guardo un po’ attorno. Il disegnatore evidentemente ha cominciato dalla base materiale del soggetto: ha inserito prima di tutto le case, le strade e le porte; le persone ce le mette dopo. Ma a me va bene così. Posso godermi il reticolato urbanistico di questa piccola città; posso osservare lo sfondo. Le travature sopravvissute al disastro miracolosamente si ricompongono, senza fatica, si riempiono di cemento armato e pittura, di inferriate e di finestre; le porte si aprono attraverso un buco nel muro, spuntano i garofani da dentro i vasi di cotto; le insegne ricominciano a penzolare, i bar si aprono, si riformano le vecchie facciate. La piazza pretende di nuovo il suo spazio, le case intorno glielo concedono: si riformano così i giardinetti, quattro sedili rotondi con dentro un ficus gigante ciascuno. Si riproduce l’ombra - la cara vecchia ombra! - che dalle foglie grosse come una mano sventola a destra e a sinistra a seconda del vento, fa da tetto alla pioggia e ripara dal sole in estate. Molto bene, lo sfondo è completo, o quasi. In fondo svetta la vecchia chiesa col campanile aggrondato, il rosone con su l’immagine della Madonna, il portone a quattro ante incassato verso l’interno, come una dentiera al contrario. Abbiamo finito? Certamente, se si aggiunge a tutto questo il riflesso azzurrino delle pozzanghere sul pavimento piastrellato e scalfito in più punti, lo sventagliare delle nuvole che passano, la comparsa improvvisa del sole che comincia a infarinare le pareti e a colorare quell’aria di albume di un primo mattino di un ventuno gennaio qualunque.

    Siamo pronti adesso per l’elemento umano? Avanti! Solo che il pittore, evidentemente, ha voluto provare un abbozzo, un ghiribizzo stanco prima di procedere al disegno vero e proprio. In quel momento infatti, caracollando come se l’isola si muovesse con le onde, mi passa davanti una donna vestita di grigio fumo, una donna attempata anche se a guardarla bene neanche troppo; una specie di miscuglio tra una strega e un’accattona, per dirla tutta. Si tratta chiaramente di una persona malata, nella testa dico, una di quelle che in un paese trovi sempre, sedute da una parte a biascicare commenti insensati, a fare cose inutili come sbucciare pere per non mangiarle, o a contare i sassolini nella mano. Ma soprattutto a nutrire piccioni. Di quelle persone, insomma, che è sempre meglio non guardare per non averci nulla a che fare, per non essere costretti a rispondere alle loro domande sconclusionate o ai loro richiami quali che siano. Tirare avanti come se non ci fosse nulla di strano. E così faccio io.

    Per fortuna il resto della gente non ci mette molto ad apparire. La prima è la gamba di una signora che sta spazzando il pianerottolo. Segue quindi l’altra gamba e tutto il resto. Ce n’è un’altra che spalanca rumorosamente la finestra: l’acqua depositata si riversa di sotto e per poco non faccio una doccia. Ma era solo la prima finestra, perché in un attimo - il regista ha dato il via - tutte le altre si aprono ed escono braccia, sorrisi, emicranie, smorfie e chi più ne ha più ne metta. Il paese si rianima d’un tratto. Le porte dei negozi si aprono facendo suonare i campanelli, nelle botteghe si entra e si esce e si battono gli scontrini. C’è chi scrolla i tappeti dal piano di sopra, c’è chi passa e starnutisce. Una fila di bambini con gli zaini più grossi di loro si arrampica su per la salita in direzione delle scuole, mentre un’adulta con un fazzoletto rosso si sta sbracciando a più non posso perché gli ultimi non si allontanino. I bambini si spingono sulle pozzanghere e si stropicciano gli occhi. Quattro signori anziani spuntano all’improvviso contemporaneamente dai quattro angoli dei giardinetti, indicandosi a vicenda e prendendo posto in uno dei sedili. Ci sono i portuali con le tute arancioni che stanno ammiccando dalla porta di un bar con la luce dell’insegna che va e viene: hanno la sigaretta in bocca e reggono il loro fondo di caffè. Qualcun altro sta passando a grandi falcate facendo ondeggiare il suo mazzo di chiavi; un altro ancora che risponde al cellulare. Un vecchietto tutto grinze si dà da fare con un bastone e uno straccio per lucidare i vetri della proloco. C’è anche qualche carrozzella parcheggiata, col tettuccio. Il sole fa capolino dalle nubi bucate.

    Mi rimetto di nuovo in macchina e seguo la provinciale che passa lungo la costa. Le case alle mie spalle si allontanano, tutto rimane in stand-by. Ora le linee si sono fermate, sono in attesa. Probabilmente mi avevano già preceduto e in questo momento stanno ricostruendo la casa, alla fine della strada. Ci vuole del tempo, capisco bene; gliene avrei concesso anch’io, tant’è vero che rallento e lascio fare. Mi dirigo verso la parte settentrionale, dove le spiagge si diradano e lasciano spazio a una scogliera più alta, che discende giù a picco. Lì ci sono le grotte, una miriade di fessure che attraversano la roccia, alcune piccole e strette da non poterci passare, altre invece grandi abbastanza da farci entrare una barca. Ancora più in là, su un promontorio affacciato sul mare, su una spianata di erba rada e qualche ciuffo di lentisco c’è la nostra casa, casa mia e di mia sorella. Si trova staccata rispetto alle altre, molto più vicino al mare; le altre sono addossate al territorio collinare e quindi più riparate dalle intemperie e dal vento. Anche adesso, per esempio, sono sicuro che sia la sola ad affrontare gli avanzi di pioggia, impantanata in mezzo al fango e alla gora. O perlomeno me la immagino così, dopo tutti questi anni. Fino ad ora è stata Elisa che veniva a controllare. Era lei che parlava col sindaco, con gli assessori; era lei che trafficava la questione. Io non ne avevo voluto sapere, convinto che la salvezza fosse lontano, il più lontano possibile. Ma mi sbagliavo, è evidente. Quando ti metti a scappare, hai già sbagliato in partenza.

    Eccomi a destinazione. La deviazione è segnalata da un cartello sciupatissimo con l’immagine delle Colonne. Faccio la curva con attenzione, la strada è fradicia e ho le gomme da cambiare. Avanzo senza guardarmi intorno perché sono troppo concentrato ad evitare le buche e i fossi, che in certi punti sono profondi mezzo braccio. La campagna mi preme sui finestrini, sul parabrezza: un’infinità di giallo e verde, con spruzzatine di arancione dove crescono i papaveri anzitempo. Ci sono i muri perimetrali, c’è qualche vacca che muove la testa tranquilla, c’è persino un cavallo giù in fondo che sembra scolpito sull’erba, se non fosse per la coda che si muove. Nel complesso è proprio come la ricordavo, una tovaglia striata distesa sopra un tavolo apparecchiato, con le gobbe e gli avvallamenti che sono tipici di quella zona costiera. Il vento forte fa fischiare la presa dell’aria, ogni dosso minaccia di staccarmi il sedile. Ma non importa, sono quasi arrivato. Perché a quel punto è l’istinto che mi guida, anzi il ricordo. Ma il ricordo non è tanto qualcosa che vedo, quanto qualcosa che faccio: mi ricordo perfettamente quando girare il volante, dove girare e come. E mi ricordo perfettamente quando fermarmi. C’è uno spiazzo sferzato dal vento, con lunghe erbacce che si piegano orizzontalmente. Mi faccio largo tra le pietre sporgenti, trovo il punto più adatto e mi fermo. Già da lì si può vedere la casa. Voglio essere sicuro che le linee abbiano avuto il tempo di sistemarsi nel modo migliore, che abbiano curato anche i più piccoli dettagli. Mi guardo quindi un po’ intorno e faccio vagare i pensieri. Ci sono nuovi corpuscoli che si sollevano, ma questa volta sono nella mia mente. Come la polvere in un vecchio cortile, a una folata improvvisa di vento.

    «Ho trovato un accesso al mare! Ho trovato un accesso al mare!».

    Lo gridavo, ma tanto sapevo che non mi ascoltavano. C’era mia madre in cucina con Sandro, il suo compagno. Stavano parlando animatamente, anche se cercavano di tenere bassa la voce. Quando mi videro arrivare, la prima cosa che fece Sandro fu di chiudere la porta, mentre mia madre gli rimproverava anche quello. Stetti ad ascoltarli per qualche minuto dall’altra parte, poi mi diressi all’esterno. Cercavo disperatamente qualcuno per condividere quella scoperta, ma non c’era nessun altro. Mia sorella era fuori con le amiche. Da quando c’era lui dormiva spesso fuori, e aveva deciso le superiori di farle a Pisa. Mia madre non ne voleva sapere ma poi si era convinta, soprattutto perché Sandro non la sopportava. Aveva troppa paura di perderlo. Gli altri ragazzi delle case vicine non li conoscevo - abitavamo lì da poco -, e i miei amici d’infanzia non si spingevano così lontano. Così decisi di avventurarmi da solo, e di mostrarla semmai a qualcuno in un secondo tempo. Mi misi di nuovo a correre verso il punto che avevo trovato. Non era molto distante da casa, in effetti. Bastava scavalcare qualche cespuglio di mirto, superare una macchia di ortiche e si arrivava al punto in cui la scogliera precipitava a strapiombo per una trentina di metri. In quel tratto la pendenza era meno accentuata, e si era formato una specie di solco da cui sporgevano alcuni gradini: certo a chiamarli gradini ci voleva coraggio, ma a quell’età la fantasia non mi mancava. Questa specie di sentiero si incanalava a zigzag e scompariva alla vista dopo le prime curve. Non ero sicuro che portasse veramente giù al mare, ma avevo diverse ragioni per crederlo. Si trattava in ogni caso di un passaggio pericoloso, che bisognava percorrere mani e piedi: un appoggio mancato, un sostegno che si stacca, e addio. In una situazione normale una persona al mio posto avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata: nel mio caso però era diverso. Non si trattava solamente dell’ostinazione di un bambino, per cui spesso le cose importanti sono quelle che agli altri interessano meno, specialmente agli adulti. C’era l’ebbrezza dell’esploratore, l’entusiasmo di scoprire cose nuove. Ma c’era soprattutto il desiderio di scappare, di assicurarmi una via di fuga. Non aveva senso, ovviamente, è evidente. Ma il richiamo era molto forte, e mi tormenta ancora adesso.

    Ormai sono pronte. Lo sento. Gli ho dato tutto il tempo necessario. Mi decido a guardare, ma le mie griglie di riferimento devono impiegare un bel po’ prima di pareggiarsi con quelle di fuori. Innanzitutto ci sono più case. I giardini sono molto più curati; ci sono frutteti e macchie di pini che fanno ombra per lunghi tratti. I muretti sono più alti, i confini sono ben delimitati. Altalene e piscinette, grandi spiazzi per le auto e buffe insegne sui pilastri dei cancelli. Molte saranno residenze estive. Ma andando appena avanti con lo sguardo ci si accorge che in un attimo tutto quel bendidio non c’è più: le proprietà si diradano, i giardini sono meno fioriti e gli alberi si rattrappiscono. C’è una specie di terra bruciata dove i cespugli si aggrappano alle pietre e non c’è più erba, solo qualche ciuffo secco. In quello spiazzo l’occhio viene trattenuto da una forma gibbosa con un tetto, circondata da transenne col nastro bianco e rosso che schiocca nel vento. Sembra un bestione scappato dal circo e circondato da domatori e da guardie, un corpo estraneo che gli anticorpi hanno scovato ma che non riescono a distruggere. Mi domando se ci sia ancora una strada che porti laggiù. Deve esserci, non credo che mia sorella e i periti si siano fatti strada saltando tra le frasche.

    Scendo quindi dalla macchina - il rimbombo della portiera sembra infinito. C’è il profumo di terra bagnata, lo stupore un po’ intontito dopo una lunga pioggia. Ci sono i passeri sui rami e sulle pozze. Ci sono bave al di là del mare, dove sta piovendo ancora: mi dà l’effetto di un quadro che gronda colore. Faccio un giro con circospezione. C’è un’unica grande strada su cui danno tutti gli accessi. Mentre cammino, mi immagino una fila di persone alle mie spalle che torna a casa. Ecco, il primo si è fermato - primo cancello. Il secondo lo stesso; poi anche il terzo e così via. Alla fine rimaniamo in due, io e un’altra figura che prima di deviare mi fa un cenno con la mano. Su quella casa mi ci soffermo un secondo, perché ha più o meno la stessa età della mia. Ci sono luci dietro le finestre, ma il vento cancella le voci. A questo punto sono solo. Poco più avanti c'è un cartello che dice:

    DIVIETO DI ACCESSO - ZONA PERICOLOSA.

    Qualche transenna è caduta. Ci sono i segni di lavori sospesi - qualche sacco di cemento, dei guanti, una pala. Vetri rotti e assi di legno dappertutto. C’è persino il vecchio tavolo rovesciato senza più i piedi, sembra un insetto stecchito. Ci sono tazze, piattini, piastrelle spaccate. Un televisore che però non è il mio, si vede che ce l'hanno buttato. I resti di un divano a molle, un materasso. Il materasso è stato usato più volte, ci sono le bruciature di sigaretta, un'infinità. Ci sono addirittura dei giocattoli, soldatini e pezzi di bambole, senza vestiti. Chi gioca più ai soldatini? Una radiolina con l’antenna attaccata; un giradischi e un lenzuolo strappato. E intorno pietre, calcinacci. Tutto questo sarebbe dovuto passare, ma per uno scherzo del tempo - un rigurgito, un’anomalia - me lo ritrovo qui, ancora intatto. Sono oggetti che non sono più oggetti, resti di cose che non hanno più una funzione. Non sono nemmeno immondizia. Non hanno nemmeno più niente da dirmi - sono passati ma sono lì.

    Per la casa non è certo diverso. Ormai è uno scheletro che sopravvive a se stesso. Le finestre sono sbarrate; la porta d’ingresso è scomparsa, non c'è nemmeno il gradino di marmo. Entrando c’è puzza di piscio di gatto, ci sono escrementi a ridosso di un muro. Bisogna stare attenti a non infilarsi qualche chiodo nel piede, ce n'è un mucchio per terra. Dentro l’intonaco ha resistito, nonostante le scritte che lo impestano dappertutto. Con questa luce si vede poco, ma c’è di tutto: nomi, date, disegni. Alcuni sono fatti col gesso, altri con la bomboletta o addirittura con la vernice. L’intimità mi è stata stuprata ed è stata sfregiata con il ricordo di chi c’è passato. Basta abbattere una porta e la tua casa non è più tua.

    Scritte. Ce n’erano dappertutto, lungo tutto l’edificio fatiscente. I magazzini del carbone, con le pareti spesse di pietra impregnate di umido; le finestre erano grandi orbite vuote; il grande ingresso era una bocca senza denti. Il pavimento era coperto di erbacce, venature e pietre sconnesse. C’erano cicche ovunque, cocci di bottiglia. Il tetto era quasi tutto crollato. Restavano solo gli spuntoni che si incrociavano come vecchie ossa. Il piacere di esserci era tutto lì. Scoperchiati, vuoti, in qualche modo lo eravamo già. Non scrivevamo il nostro nome perché pensavamo di lasciare una traccia migliore di noi. Noi non partecipavamo a quella lotta per restare vivi. Quelle scritte erano come corpi in una fossa, si scavalcano l’un l’altro per cercare il sole. Più si andava in alto e più le scritte diminuivano - gli eletti? -, più quei nomi si mantenevano intatti. Ma sbiadivano anche quelli, a poco a poco. Niente da fare, non eravamo d’accordo. Eravamo tutti magri adolescenti, con il corpo allungato e la voce stonata, con le costole sporgenti e le guance scavate dal sesso. Credevamo che ci fosse un’altra via, ma non è vero. In un modo o nell’altro finiamo tutti addossati a un muro.

    I parassiti incidono le carcasse, i vermi le divorano. Non appena un corpo è senza vita, lo riconoscono come tale e lo consumano brano a brano. Non appena un edificio è abbandonato, lo scaviamo noi allo stesso modo, gli incidiamo sulla carne i nostri denti. Sopravviviamo attraverso di lui. Ma questo edificio è davvero morto? Me lo chiedevo sempre quando ero solo a casa, quando le porte erano chiuse e non filtravano rumori; perché allora mi sembrava di sentirla respirare. Premevo un orecchio per terra, restavo in ascolto. Era come un respirare moderato, tranquillo. Era un flusso e riflusso di enormi polmoni, un rimuginare lento e costante. E nel sentirlo mi tranquillizzavo, non so perché, come se fossi tornato nel grembo. Ora però non si sente. Forse è perché c’è tutto aperto, c’è il vento che fischia all’interno; per lo strato di detriti sparso a terra, per il mare che rintrona da fuori; forse il mio udito è calato, d'accordo - fatto sta che non si sente. Sta’ a vedere che è morta davvero.

    Il cadavere di una balenottera. Eravamo tutti intorno a quella massa di carne biancastra, spellata dal mare. Dilaniata dagli animali selvatici

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