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Nove ragazzi e un misterioso suicidio
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Nove ragazzi e un misterioso suicidio
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Nove ragazzi e un misterioso suicidio

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TRAMA NOVE RAGAZZI E UN MISTERIOSO SUICIDIO

George, Jake, Julien, Jessica, John, Erick, Natasha, Mike e Phil sono amici di vecchia data, ma un giorno questo legame si spezzerà a causa di uno scherzo di cattivo gusto di Frank e Nathan, rispettivamente i fratelli maggiori di John, Mike e Pihil. Il gruppo si allontana appena arriva alle superiori.

Ormai al secondo anno Jake, Julien e Jessica incontrano un nuovo amico, di nome Ronald, tormentato ed umiliato dagli indiscutibili John ed Erick, ora divenuti i ragazzi più temuti della scuola. Mike e Phil, intanto, hanno fatto amicizia con un ragazzo di nome Pete, che stufo delle angherie dei più prepotenti, decide di entrare nel gruppo di quest’ultimi, composto tra l’altro da Natasha, Jane, Monica e Samantha, la più perfida.

Un giorno però le loro vite cambieranno perché il suicidio del loro amico George, avvenuto verso la fine del primo anno, sta per prendere una piega decisamente diversa. Pare che la polizia pensi si tratti di omicidio e John, Erick, Natasha, Mike, Phil, Jake, Julien, Jessica e Ronald verranno accusati come potenziali responsabili a causa di un personaggio misterioso di cui hanno già sentito parlare, ma nessuno conosce la sua vera identità.

La storia, essendo parte di una saga, continuerà, ovviamente, nei prossimi libri!
LanguageItaliano
PublisherBruno Desando
Release dateNov 17, 2015
ISBN9788892518797
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    Nove ragazzi e un misterioso suicidio - Bruno Desando

    Bruno Desando

    Nove ragazzi e un misterioso suicidio

    UUID: be9227a0-9d3a-11e5-afa3-119a1b5d0361

    This ebook was created with StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Table of contents

    L’inizio

    In presidenza

    La festa di benvenuto

    Interrogatorio

    Prima del 10 giugno – Prima parte

    Fine dell’interrogatorio

    Prima del 10 giugno – Seconda parte

    In sala mensa

    Prima del 10 giugno – Terza parte

    La festa di Natale

    Prima del 10 giugno – Quarta parte

    Senza via d’uscita

    Prima del 10 giugno – Quinta parte

    Ancora in trappola – Prima parte

    Prima del 10 giugno – Sesta parte

    Ancora in trappola – Seconda parte

    Prima del 10 giugno – Settima parte

    Colloquio coi genitori

    Un tuffo nel passato

    Fuori pericolo

    Messaggio di Vendetta

    Notes

    L’inizio

    Un suicidio, un secondo di totale follia, un solo desiderio di vendetta, un crudele ed ingiusto destino, un’unica ed inesorabile voglia di dire basta, un semplice gesto dietro ad una apparente libertà ed accettazione fuori dai limiti umani…

    10 giugno. Una data impressa nelle menti di tutti, un giorno particolare e leggermente oscuro in ogni suo piccolo, quanto travagliato, dettaglio. Un giorno che sicuramente avrebbe fatto la storia a Val Rellaine.

    Una piccola cittadina, con meno di centomila abitanti, immersa in un mistero, abbastanza complicato quanto scandaloso, che pareva essere quasi del tutto colmato.

    Erano passati circa tre mesi da quando la polizia aveva ritrovato il biglietto, fulcro dell’intera vicenda, eppure non c’era persona, bambino o anziano che fosse, che non ne parlasse in giro con qualche passante o qualche amico di vecchia data.

    E’ finita. Non ce la faccio più. Mamma, amici miei, vi voglio bene tutti indistintamente. Addio!

    Erano queste le parole inquietanti che si ripetevano ormai da giorni e che quasi le si erano tenute impresse nella mente come una filastrocca.

    Quella casa in fondo alla strada, subito dopo la chiesa, era divenuta il luogo ufficiale da cui il signor Leonard aveva iniziato, e continuava a svolgere, le indagini di quello strano caso che a prima vista appariva come al quanto insolito e leggermente fuori schema per una cittadina tranquilla come quella.

    George Ryan, sedici anni. Ragazzo estroverso e pieno di risorse. Abbastanza intelligente, sempre puntuale sia a scuola che agli appuntamenti, un tipo molto timido che riusciva quasi sempre ad isolarsi e a farsi etichettare come l’eremita del liceo. Aveva capelli folti e, molto spesso, seppur mal volentieri, spettinati e in disordine, una bocca piccola e stretta, delle lentiggini sulle estremità delle guance rosee e delicate e degli occhi giganti da far invidia a chiunque, con quel loro colore tendente al blu oceano.

    È così che lo ricordavano i suoi tre amici, gli unici con cui era riuscito a relazionare e a fare qualche chiacchera nei primi due anni delle superiori.

    A scuola, al Val Rellaine High School, le voci circa il suo suicidio si rincorrevano il più veloci possibili e ognuna era diversa dall’altra, alcune con particolari aggiuntivi, altre con schizzi e incongruenze molto poco raccomandabili.

    Jake Martins, Julien Morrison e Jessica Holmes, i ragazzi a cui George era in qualche modo affezionato. Erano i pilastri a cui si aggrappava ogni qual volta avesse un problema, ogni qual volta avesse bisogno di un consiglio, ogni qual volta si sentisse solo ed escluso da tutti gli altri.

    Il primo giorno di scuola era sempre lo stesso: ragazzi che affollavano l’immenso corridoio riempiendolo di schiamazzi e urla, a volte, anche molto fastidiose, coi loro mille problemi e con gli unici desideri che in un’intera giornata galleggiavano nelle menti di ogni singolo adolescente: cercare di passare il più in fretta possibile quelle ore di lezione che, decisamente, non erano poche; ed uscire dal liceo per andare fuori con gli amici o studiare all’aperto, respirando l’aria settembrina, con quel suo strano profumo di brezza marina.

    Quel 15 settembre, però, era iniziato in maniera del tutto diverso, con un’atmosfera cupa e triste, nascosta dietro ai volti increduli dei giovani studenti ancora sconvolti dalla notizia del suicidio di George.

    Gli amici di quest’ultimo, quella mattina, si rincontrarono, dopo ben due mesi di vacanze estive reclusi in casa propria per evitare qualsiasi persona impicciona o giornalista alla ricerca di scoop, vicino al cancello del Val Rellaine High School.

    Le loro facce, stanche e provate, si fissavano tra di esse come segno di autocommiserazione e le loro prime parole furono così ben chiare e precise da sottolineare la totale spossatezza che riuscivano a nascondere davanti alle solite domande che ormai da giorni la polizia continuava a porgli con maggiore frequenza.

    «E’ divenuto un incubo uscire fuori casa.» disse a un certo punto Jake Martins, con quella sua voce bassa e melodiosa.

    I suoi capelli scuri e brizzolati erano tirati all’indietro con un po’ di gel, e i suoi occhi scintillanti di un castano chiaro riflettevano le espressioni concordanti dei suoi due amici che non facevano altro che confermare quanto diceva.

    Jessica Holmes, quel giorno, portava una coda di cavallo con alcuni ciuffi che le penzolavano davanti la faccia, oscurandole gli occhi verde-acqua, facendoli arrivare fin sopra le sua labbra carnose e ben esposte.

    Julien Morrison, invece, cercava quasi sempre di imitare il suo amico ed avendo quasi la sua stessa corporatura, nonché anche la capigliatura uguale, a volte ci riusciva alla perfezione, pure se alcuni tratti somatici, quali il naso e le orecchie, cambiavano di poco dandogli un’altra prospettiva.

    I tre continuavano a guardarsi in giro mentre tutta la scuola li fissava con indifferenza e con una strana aria misteriosa, come se fossero loro i veri colpevoli dell’intera vicenda. Quegli sguardi accusatori, o almeno come li avevano interpretati loro, cominciavano a dare un po’ fastidio, tant’è che la ragazza, con tanto di rabbia repressa, stava per scaraventarsi contro uno studente che iniziava a stuzzicarla con parole poco piacevoli.

    «Non c’è bisogno di prendersela così tanto. Sono solo degli stupidi.» cercò di calmarla Julien.

    «Quello lì ci stava accusando di aver ucciso George. Non lo sopporto.»

    «Dobbiamo soltanto ignorarli.» la bloccò Jake prendendola per un braccio e trascinandosela via, fino all’interno dell’istituto.

    Il caos gli faceva da padrone: ovunque c’era tanta frenesia e molto nervosismo per quel primo giorno di scuola. Gli armadietti continuavano a scricchiolare senza alcuna voglia di fermarsi, le porte delle tantissime aule emettevano quasi tutte lo stesso rumore e se c’era una cosa, o meglio una stanza, da cui tutti gli studenti stavano alla larga, era quella della presidenza, motivo per cui quel piccolo spiazzo era quasi sempre vuoto.

    I ragazzi del primo, col loro volto terrorizzato e impaurito, facevano ingresso all’interno del liceo con passi lenti e indecisi, con un’aria furba e attenta a qualsiasi ostacolo e a qualsiasi possibile minaccia. Alcuni di loro cercavano di non incrociare gli sguardi di quelli più grandi, sempre in agguato a prenderli di mira, e passavano davanti ad essi col cuore in gola e il sudore in fronte, rimanendo illesi o denominati con strani nomignoli dispregiativi.

    Uno dei tanti era Ronald Wilson, un ragazzino di appena quattordici anni, un tipo abbastanza strano e particolare, con quel volto malaticcio e lentigginoso, che a prima vista lo avrebbe soltanto spinto a finire chissà in quale stupido scherzo. Infatti, non tardando di molto, i due ragazzi più temuti del Val Rellaine High School, John Tyson ed Erick Morgan, conosciuti tantissimo per i loro giochetti stupidi ed infantili che affliggevano agli studenti pivelli, si appostarono davanti all’immenso portone scrutando un po’ in giro, alla ricerca di qualche preda da spennare. E trovarono lui, Ronald. Con quell’aria innocente da bravo ragazzo, se ne stava per gli affari suoi immerso nella lettura di chissà quale libro di fantascienza. Coi suoi capelli perfettamente lisci e di un colore che si avvicinava di più al castano chiaro che al giallo sbiadito, alzò un momento gli occhi blu e scintillanti al cielo e rimase sorpreso di vedere quelle due strane figure possenti e muscolose davanti al suo corpicino gracile e scheletrico. Fece un attimo un piccolo sussulto per sottolineare quanto fosse stupito, ma poi decise di rimanere immobile e di non muoversi più, rimanendo al suo posto.

    «Come ti chiami?» domandò uno di loro con tono di voce presuntuoso.

    «Io?» chiese in maniera impaurita il quattordicenne.

    «Certo, cretino.» disse John avvicinandosi alla faccia di quest’ultimo.

    «Mi chiamo… mi chiamo Ronald.» gli rispose balbettando.

    Il ragazzo più grande, allora, cominciò a deriderlo e a dargli dello stolto. Poi gli chiese il suo nome un’altra volta e, alla stessa risposta, sempre con quel suo modo impappinato, lo schernì ancora e di nuovo, in modo continuativo.

    Terrorizzato di quanto stava accadendo, il povero studente, prese la sua roba dalle gradinate del portone e le infilò immediatamente dentro lo zaino. E mentre fece per metterselo sulle spalle, Erick glielo tolse con violenza dalle mani e lo spiaccicò sotto i piedi.

    «Cosa volete da me?» si rivolse ai due con estremo coraggio, mentre continuavano a prenderlo in giro per la sua voce bassa e balbuziente.

    «Credo proprio che quest’anno ci divertiremo.» ridacchiarono loro, insultandolo a gran voce.

    «Ma che… che vi ho fatto?» si mise a piagnucolare il ragazzino con uno strano nodo alla gola che gli impediva di parlare.

    «E togliti dai piedi!» lo spinsero poi in avanti per riuscire a passare.

    E mentre tutti gli altri guardavano con occhi sbarrati l’intera scena, anche se alcuni non ci facevano per niente caso, John ed Erick, con la loro spacconaggine, ne uscivano gloriosi e con l’orgoglio di essere visti e ammirati da tutte quelle facce ormai arrese alle loro angherie.

    Questa storia andava avanti ormai da ben tre anni e nessuno osava dire una parola o lamentarsi, anche perché il signorino Tyson, essendo figlio di un uomo abbastanza ricco in città, e fratello dell’indimenticabile Frank, capitano della squadra di football e conosciuto anche meglio come donnaiolo dell’intero liceo, era riuscito, senza alcuno sforzo, a spianarsi la strada e a diventare quel che chiamavano il leggendario, accompagnato dal suo indiscutibile amico e braccio destro Erick, e da altri tre ragazzacci, reclutati un anno fa, i cui nomi erano rispettivamente Pete Jameson, Jason Montgomery e Stefan Portland.

    John, quindi, si poteva considerare il capo dell’istituto, quello che decideva le sorti degli studenti, se erano all’altezza del suo stupido gruppo di teppisti o erano automaticamente emarginati e continuati a essere vittime dei suoi più spaventosi e crudeli scherzi, che d’altronde godevano di una buona reputazione, in quanto erano del tutto originali in ogni loro particolare.

    In presidenza

    Ronald quel giorno denunciò l’intero accaduto, cosa che non faceva quasi mai nessuno, al preside della scuola, il signor Alex Mengel.

    Un uomo abbastanza giovane, coi suoi trent’anni portati benissimo, il suo aspetto da vero e proprio ventenne, occhi piccoli e sporgenti, di un colore castano scuro, capelli neri come il carbone e brizzolati sulla parte superiore della fronte, sopracciglia folte al punto giusto e delle labbra grandi e carnose. Tipico amante degli animali e con un carattere ardi poco gentile e affettuoso, quasi come se fosse più uno psicologo che un direttore.

    La stanza della presidenza si trovava a metà corridoio, nell’ala destra, poco lontano dagli armadietti dei ragazzi.

    All’interno era piccolo ma sufficiente per farci entrare una cattedra di legno, con tanto di scartoffie e roba simile, e uno scaffale pieno zeppo di libri vecchi e ammuffiti. Sul soffitto, invece, penzolava un lampadario abbastanza particolare, adornato con strani pallini blu e argentati, e sulla parete sinistra stava attaccato il condizionatore, ormai fuori uso da un bel po’.

    Il ragazzino, con quel suo volto sudato e impaurito, se ne stava seduto ad aspettare che il preside finisse di compilare alcune scartoffie, che sembravano essere più di una dozzina.

    L’uomo, con quell’aria seriosa e rara da vedere sulla sua faccia limpida e senza rughe, continuava a scrivere senza sosta qualcosa su uno dei fogli che aveva davanti.

    Il signorino Wilson, incuriosito da ciò, cercava in qualche modo di guardare o di sbirciare quello che il signor Mengel stava facendo, senza però riuscire nell’intento.

    Ma quest’ultimo, accorgendosene, tutto ad un tratto decise di smettere e di posare la penna sul tavolo, rivolgendo il suo sguardo verso il quattordicenne.

    «Puoi andare.» gli disse garbatamente.

    Ronald, stupito da quell’affermazione, decise di opporsi, pur senza insistere piùdel dovuto, e, ricevendo l’ennesimo ordine, scattò all’in piedi e mise la sedia al suo posto. Salutò con gentilezza il preside e, senza aggiungere più nient’altro, si diresse alla porta in religioso silenzio.

    La richiuse alle sue spalle e, dovendo aspettare ancora la campanella della seconda ora, pensò bene di andare un attimo in bagno. Svoltò l’angolo e camminò un bel pezzo fino ad arrivare sull’ala destra, poco prima di un gigantesco cartellone dedicato alla festa di benvenuto per il nuovo anno scolastico.

    Fece per entrare, quando si vide tirare all’indietro da una mano bella grossa, che con violenza lo spinse fino al primo armadietto del corridoio.

    Il ragazzo, voltandosi con difficoltà, notò che John ed Erick, con tutta la forza che avevano in corpo, gli tenevano ben ferme le braccia e la testa in modo tale da non potergli permettere di muoversi.

    «Mi fate male!» urlò lui, tutto dolorante.

    «Che cosa pensavi di ottenere raccontando tutto al signor Mengel, eh?» gli domandarono in modo minaccioso loro.

    Il povero quattordicenne, trovandosi in una situazione del tutto complicata, ed essendo da solo, riuscì solamente ad emettere un piccolo e leggero grido disperato.

    Ma i due, per evitare che qualcuno lo avrebbe potuto sentire, gli tapparono la bocca e lo trascinarono, contro la sua volontà, verso il bagno.

    In quel frangente, come per miracolo, comparirono da dietro la porta, assorti nei propri pensieri, Jake, Julien e Jessica. I tre, al primo impatto, assistendo all’intera scena, rimasero per un momento immobili per lo spavento e cominciarono a guardarsi l’un l’altro, cercando di capire cosa avrebbero potuto fare.

    La ragazza, così, in seguito ad uno sguardo d’intesa e di complicità rivolto ai suoi amici, s’incamminò verso Ronald, e cercò, in qualche modo, seppur con difficoltà, di liberarlo da quei due.

    Jake e Julien lo presero per un braccio e lo allontanarono per alcuni metri chiedendogli se stesse bene.

    La signorina Holmes invece, dal canto suo, riuscì a parlare con John ed Erick, in modo tale da fargli capire che quello che avevano appena fatto era sbagliato.

    «Siete degli sciocchi. È evidente che quello successo con George non vi ha insegnato proprio nulla.» li rimproverò in maniera pacata.

    «Qui gli sciocchi siete voi! Quale parte di E’ vietato mettersi contro di noi non vi è chiara?» le urlarono contro.

    «Siete un caso perso.» farfugliò Jessica.

    «Andiamo via, non ho voglia di discutere con lei!» le disse Erick dopo averla fissata con quei suoi occhi di ghiaccio.

    «E ringrazia di essere una ragazza, o avresti fatto la stessa fine di quello storpio.» la minacciò ancora John, seguendo il suo braccio destro verso la fine degli armadietti.

    «Guarda tu che idioti.» disse poi la sedicenne borbottando sotto voce.

    Guardandoli andare via, dopo avere avuto la certezza di non vederli più, si voltò verso i suoi amici e si recò immediatamente da Ronald, inginocchiandosi per terra, iniziando a fissarlo per un momento nei suoi occhi blu lucenti.

    «Voi li conoscete?» chiese con un filo di voce il signorino Wilson, ancora tutto dolorante.

    «Sono John ed Erick, due imbecilli da cui devi stare proprio alla larga. Metterti contro di loro non servirà a niente.» gli raccomandò Julien rispondendo al suo quesito.

    «Perché?» domandò ancora.

    «Perché il padre di John, il signor Mark, è uno degli uomini più ricchi della città, ed Erick… Beh, fa da leccapiedi al suo amico. Si conoscono fin dall’asilo, ed è comprensibile che vadano d’accordo. Sono soltanto degli stupidi arroganti.» scherzò Jake strappandogli un debole sorriso.

    «Conosco perfettamente Mark Tyson… è l’uomo che vuol far chiudere il collegio per orfani.» spiegò lui affaticato.

    «Tu… Tu stai al collegio per orfani?» gli pose la domanda Julien un po’ imbarazzato.

    «Beh, si. Sono lì da parecchio tempo.» replicò timidamente mentre veniva aiutato a rialzarsi da Jessica «E suo padre vuole chiuderlo per farci costruire dei parcheggi.» continuò con tono stretto e poco convinto.

    «Dev’essere dura vivere lì?»

    «Ormai ci sono abituato.» ridacchiò il quattordicenne che, ringraziando almeno un paio di volte i tre ragazzi per averlo salvato, riprese dal pavimento il suo zaino ricoperto di polvere e se lo mise sulle spalle.

    Gli altri, invece, aiutandolo a recuperare le sue cose cadutegli durante lo scontro, si presentarono coi loro rispettivi nomi.

    «Io sono Jessica… Jessica Holmes.» iniziò a parlare la sedicenne «E loro sono Jake Martins e… Julien Morrison.» concluse infine.

    «Io invece sono Ronald… Ronald Wilson. Tanto piacere.» disse lui in modo impacciato, stringendo la mano ad ognuno di loro.

    Jake, poi, raccolto l’ultimo oggetto da terra e dopo averlo donato al suo legittimo proprietario, squadrò per un momento i suoi amici, facendo segno di guardare verso il cartellone per la festa di benvenuto.

    Julien, capendone subito la sua intenzione, si fece avanti e, con un po’ di tentennio, propose al ragazzino se avesse voluto partecipare a quell’evento, a cui solitamente era vietato andarci da soli.

    Quest’ultimo, trovandosi di fronte a una tale richiesta, il che per lui era del tutto anormale ricevere appuntamenti da qualcuno, rimase impassibile e disorientato, con la testa rivolta nel nulla e lo sguardo perso nel vuoto. E solo dopo averci riflettuto per parecchio, all’in circa una manciata di secondi, riuscì ad emettere il suo verdetto.

    «Ma si! Perché no?» affermò in maniera grintosa.

    «Bene, allora ci vediamo lì. La festa inizia alle sette.» affermarono loro.

    «Ci vediamo lì.» sorrise lui.

    La festa di benvenuto

    Quel giorno, al mare, tutto era predisposto in modo ordinato e le prime tende da campeggio spuntavano di già sull’immensa spiaggia umida e popolata da una marea di ragazzi pronti a passare la notte lì, sotto quel cielo candido e pieno di stelle. Più a nord, dove quasi di sabbia ce n’era si e no qualche spicchio qua e la, si ergeva maestoso un enorme palco con tanto di luci e strumenti musicali, che avrebbero sicuramente intrattenuto e fatto divertire tutte quelle persone fino a tarda notte.

    John ed Erick erano con un gruppetto abbastanza allargato, attorno ad un fuoco acceso con della legna raccolta nel pomeriggio, e si apprestavano a sistemare le varie cose per prepararsi a dormire appena finito il concerto.

    Pete Jameson, entrato nella banda già da qualche mese, eseguiva i vari ordini che gli venivano impartiti dai suoi capi, tra i quali c’era quello di dover montare la tenda.

    Era solito comandare su Jason e Stefan, ma quando era certa la presenza degli indiscutibili John ed Erick non osava fiatare in alcun modo, quasi diveniva irriconoscibile: tutto nervoso, rigido e molto fissato in quello che faceva, in maniera tale da non dover passare per uno sciocco.

    Quella sera si era incaricato di sorvegliare sui due e di fare le commissioni che gli erano state dette di svolgere.

    «Jason, Stefan, sbrigatevi! John ha detto che suo fratello Frank e Nathan saranno qui a momenti!» sbraitò a lungo.

    «Arriviamo!» gridavano gli altri, con un sacco pesante alle spalle.

    E, mentre, uno di loro fece per poggiarlo per terra con delicatezza, emise un breve sorrisetto e si girò verso il signorino Tyson.

    «Ehi, ma quelli non sono i fratelli di Nathan?» chiese con quel tono di chi sa già la risposta, indicando due ragazzi con uno zaino scuro sulle spalle.

    «Si, sono loro. Eppure Nathan non ci aveva detto che sarebbero venuti.» commentò Erick.

    «Beh, sai com’è fatto. Non è che tra loro scorra buon sangue.» replicò John, quasi divertito.

    A quel punto, rimanendo con lo sguardo fisso verso di loro, ordinò agli altri di proseguire il lavoro che gli era stato assegnato e, prendendo delicatamente il suo amico per un braccio, gli fece strada fino al chiosco dove vendevano le bibite.

    «Dove stiamo andando?» domandò quest’ultimo.

    «Adesso lo vedrai.» rispose in maniera enigmatica l’altro, continuando a camminare.

    I due ragazzi, appena sopra citati, erano Mike e Phil Roberts, fratelli di Nathan, nonché fedele amico di Frank.

    Erano gemelli e frequentavano il terzo anno di liceo. Avevano dei capelli lisci come la seta di un colore tendente al castano scuro e degli occhi tondi e neri, un naso ben proporzionato e una bocca larga, con il labbro inferiore un po’ più sottile rispetto a quello superiore. Avevano sedici anni, ma il loro aspetto lasciava presagire che ne avessero di più.

    Raggiungendo il piccolo bar, dopo averli indicati un paio di volte, John ed Erick si posizionarono vicino alla cassa, aspettando di ordinare qualcosa.

    «Faccia anche due cocktail.» dissero poi a un uomo dietro al bancone «Li metta nel loro conto.»

    Mike e Phil, giratisi a fissarli, volsero lo sguardo verso il barista dicendogli che ognuno avrebbe pagato la sua parte. Così, una volta prese le due bibite prenotate, misero i soldi sulla piattaforma e se ne andarono, lasciando il signorino Morgan col portafoglio in mano, pronto a prendere gli spiccioli che gli sarebbero serviti.

    Dopodiché, afferrati i cocktail appena pronti, li presero con delicatezza e si avvicinarono ai due gemelli con un stupido sorrisetto.

    «A quanto vedo, qualcuno ha smesso di essere timido?» iniziò a provocarli John.

    «A quanto pare qualcuno è ancora rimasto un bambino.» commentò Phil con un tono di voce molto basso.

    «Oh, come siamo aggressivi!» fece Erick bevendo un sorso dal suo bicchiere.

    «Come mai non siete nella parte vip della spiaggia. E’ un privilegio avervi qui, tra i comuni mortali.» lo infastidì Mike.

    «Già, beh l’altra parte è chiusa da diversi giorni. Pare che oggi ci tocchi stare qui, per vostra fortuna.» ridacchiarono con quella loro aria strafottente.

    «Mike, per favore andiamocene. Gli altri ci stanno aspettando.» gli mise fretta il fratello.

    «Si, arrivo.» replicò l’altro seguendolo fino a uno spiazzo vuoto con della legna ancora da bruciare.

    «Beh, allora buona bevuta.» gli augurarono infine i due ragazzacci.

    «Anche a voi. Ma… cercate di non esagerare, non si sa mai cosa potrebbe succedere se si assume troppo alcool.» sottolineò uno dei gemelli voltandosi un momento, fissandolo con aria di sfida.

    «Lo faremo.» risposero con voce quasi tranquilla «Grazie del consiglio. E… buona serata.» aggiunsero a mo’ di scherno.

    «Altrettanto!» esclamò Phil, continuando a camminare verso un piccolo cerchio ristretto di ragazzi, tutti messi attorno ad un fuoco misero che emanava poca luce.

    Nella parte destra della spiaggia Jake, Julien, Jessica e Ronald erano già radunati a cerchio, con una lampadina che illuminava il piccolo spazio che erano riusciti ad approvvigionarsi. Avevano steso una tovaglia sulla sabbia umidiccia, e vi avevano posto dei piattini di plastica, bicchieri e posate, il tutto accompagnato con due bottiglie di acqua abbastanza fresche. Erano un po’ lontani rispetto agli altri, posizionati vicino a un cumulo di pietrisco e un insieme di tronchi d’alberi usati, molto probabilmente, per accendere altri falò.

    L’aria poco tiepida e le temperature non del tutto ottimali li avevano costretti ad indossare degli abiti un pochino pesanti, con tanto di giacchette, seppur leggere, e pantaloni lunghi, quelli che generalmente si indossano tra marzo ed aprile, al cambio della stagione.

    E mentre la ragazza e i suoi due amici cercavano di mettere un po’ di ordine, accertandosi che non mancasse nulla, il signorino Wilson pareva essere con lo sguardo perso nel vuoto, coi suoi occhi fissi sulla parte opposta di dove si trovava lui, fermandosi a guardare ripetutamente John ed Erick, che ora erano seduti coi loro compagni a brindare a chissà quale assurdo avvenimento.

    «Ronald, Ronald!» lo richiamarono ininterrottamente i tre per avere la sua completa attenzione.

    «Si… scusate.» disse poi il ragazzino.

    «Sembravi imbambolato, che ti è preso?» gli domandarono ridendo.

    «Stavo notando come…» cominciò a parlare piano piano «Come quei due prima hanno affrontato John ed Erick. Non li hanno nemmeno toccati.» concluse, indicando Mike e Phil.

    «Ah, beh, semplice. Sono i fratelli di Nathan.» iniziò a spiegare Jake «Nathan è un amico di Frank, il fratello maggiore di John. Insieme erano terribili, riuscivano sempre a farti andare su di giri. Per fortuna si sono diplomati, quindi quest’anno non dovremmo averceli tra i piedi.»

    «Wow!» esclamò Ronald con la voce tremolante «Tanto sarò spacciato lo stesso quest’anno.»

    «No, dai! Sono sicuro che John ed Erick, da soli, non faranno molti guai. Tu cerca solo di non incrociare il loro sguardo.» lo rassicurò con un debole sorriso.

    «Quindi Mike e Phil non sono come John ed Erick?» chiese incuriosito il signorino Wilson.

    «Macché scherzi! Se ci sono delle persone che possono tenergli testa sono loro due e Natasha Killer.»

    «Natasha Killer?» domandò il quattordicenne.

    «Si, è quella seduta lì.» fece Jessica indicandogli una ragazza coi capelli biondi avvolti in un elastico color nocciola. Aveva dei lineamenti perfetti, degli occhi scintillanti e di un nero carbone quasi simile alla notte. Indossava degli shorts di jeans, abbinati a una maglietta grigiastra con la spalla scoperta e degli orecchini a forma di goccia che le pendevano fin sotto l’inizio del collo, così giù in grado di sfiorarlo.

    Accanto a lei c’era seduta Samantha Fields, una ragazza di appena sedici anni abbastanza alta e con un corpo invidiabile, capelli ondulati e di un giallo oro tendente a sbiadirsi verso le punte, bocca piccola e ben curata e un naso sporgente e perfetto che alimentava sempre di più l’invidia delle altre coetanee.

    Pete, Jason e Stefan, poi, incrociando, pur se per pochi secondi, lo sguardo terrorizzato di Ronald, avvisarono i loro due amici indicandogli il povero ragazzo con le mani.

    John ed Erick, vedendolo dalla parte opposta della spiaggia, non si lasciarono mica scappare quella grande occasione di poterlo umiliare davanti a tutti come era giusto che fosse, e, carichi di adrenalina e spinti dal desiderio di far del male, si radunarono in fila, pronti a partire col loro passo svelto e deciso, che di certo non lasciava presagire nulla di buono.

    Si avvicinarono piano piano al signorino Wilson iniziando a deriderlo già da lontano. Spostarono con violenza i bastoni di legna non bruciati e si fecero spazio per passare, proseguendo sempre dritto fino a giungere vicino al quattordicenne impaurito.

    Quest’ultimo, disperatamente impacciato e indifeso, abbassò lo sguardo rivolgendolo verso terra, aspettando che i due cominciassero a torturarlo. Jessica, però, preso un po’ di coraggio, si avventò di fronte a lui e, continuando a ripetergli di non preoccuparsi, si voltò verso Erick e, con aria di sfida, riuscì a prendere parola e a difendere, come meglio avrebbe potuto, il suo nuovo amico.

    «Credo che dobbiate finirla qui.» sottolineò la ragazza «Non so cosa lui vi abbia fatto ma credo che è ora di lasciarlo in pace.» continuò con un tono di voce decisamente più marcato.

    «Guardate chi ha parlato: la sfigata con gli occhiali.» la prese in giro per un momento.

    «Non dirmi che ti fai difendere da una ragazzina.» ridacchiò in modo del tutto ironico John.

    Natasha, osservando dal suo posto l’intera scena alquanto ormai poco insolita e ripetitiva per lei, decise di intervenire lasciando il bicchiere che aveva in mano alla sua amica Samantha. Si fece spazio tra le cose che Jason, Stefan e Pete stavano preparando e andò incontro ai suoi due amici.

    Li richiamò più volte da lontano con certo furore e, notando di non essere ascoltata, decise di intervenire immediatamente piombando proprio nel bel mezzo della discussione.

    «Ok, credo che per oggi voi abbiate fatto abbastanza.» li rimproverò con gentilezza.

    «Natasha, non intrometterti.» la respinsero gli altri.

    «Non è il caso di rimanere qui. John, è appena arrivato tuo fratello e con lui c’è anche Nathan. Non vorrai mica farli aspettare.» li mise al corrente la ragazza dirigendo il proprio sguardo verso due figure imponenti mentre attraversavano il tratto di spiaggia stracolmo di persone.

    Frank, il fratello maggiore del signorino Tyson, aveva appena compiuto diciotto anni e quella sera era particolarmente propenso a festeggiare il suo secondo giorno da compleanno, o meglio dire come amava definirlo lui post compleanno da sballo, insieme ai suoi amici più stretti.

    Aveva degli occhi scuri e penetranti, grandi e tondi, una bocca sottile e lucida, delle guance rosee e perfette, con un naso a punta e delle sopracciglia appuntite al punto giusto; i capelli, lisci e un po’ brizzolati in avanti, erano di un colore tendente al marroncino chiaro ed erano tirati all’indietro con una coltre di gel abbastanza resistente.

    Il suo amico Nathan, invece, possedeva due occhi piccoli e azzurri che gli davano uno sguardo magnetico, abbinati, in modo del tutto strano, a dei capelli neri e lisci come la seta. Aveva una bocca piccola ma ben carnosa, un naso grande ma ben definito e due orecchie a sventola e uniformi.

    Quella sera, per l’occasione, aveva indossato una maglietta grigia, con scollo a V, che metteva in risalto i suoi muscoli, con tanto di pantaloncini scuri e sbiaditi ai lati, che gli arrivavano fin su le ginocchia, e un paio di infradito sottili color azzurro.

    I due, con dei sorrisetti felici di chi non vede l’ora di divertirsi, si affrettarono a salutare Pete, Jason e Stefan, mentre John ed Erick, vedendoli da lontano, e non avendo alcuna intenzione di perdersi l’inizio dei festeggiamenti, lanciarono ancora uno sguardo minaccioso verso Ronald e, dopo avergli sottolineato più volte con tono intimidatorio che avrebbe ricevuto una punizione più che esemplare per aver raccontato al signor Mengel quello accaduto quella mattina all’entrata di scuola, lasciarono il povero ragazzo al suo ormai tragico destino e si recarono, pieni di grinta, verso i loro amici.

    Natasha, così, con volto triste e preoccupato, diede un’occhiata ai quattro ragazzi terrorizzati e, bloccandosi un momento sul quattordicenne appena preso di mira, lo squadrò dalla testa ai piedi come per indicargli di stare attento e non esporsi troppo con quei due. Lo fissò per un’altra breve manciata di secondi in direzione dei suoi occhi spenti e, voltatasi, senza aggiungere o provare a dire neanche una parola, tolse il disturbo raggiungendo gli altri, nella parte destra della spiaggia.

    Interrogatorio

    Il giorno dopo la festa di benvenuto si era presentato alquanto solare e mite dal punto di vista climatico, ma abbastanza triste e desolante per Ronald che, con aria decisamente intimorita, faceva il suo ingresso nell’immenso corridoio caotico che, preso d’assalto dai numerosi studenti, cominciava a divenire soffocante e particolarmente irrequieto. Il ragazzino, ossessionato dal pensiero che potesse incontrare John ed Erick, continuava, pur se contro il suo stesso volere, a immaginare quello che avrebbero potuto fargli se solo avesse incrociato, anche per sbaglio, il loro sguardo. Il sudore scendeva come tante goccioline piccole e fastidiose che gli inumidivano la fronte, le sue mani sottili e delicate gli tremavano come delle foglie alle prese col primo giorno d’autunno e il suo cuore batteva all’impazzata al solo suono dell’iniziale del suo nome e il tutto lo rendeva ancora più nervoso di quanto non lo fosse già.

    Jake, Julien e Jessica erano appena arrivati ai loro rispettivi armadietti e avevano riposto alcuni libri per le ore successive.

    Natasha Killer era apparsa da dietro l’angolo insieme alla sua amica Samantha, con le loro borsette color nocciola, decorate con pallini dorati e a tratti con sfumature floreali.

    Mike e Phil Roberts, invece, coi loro soliti libri in mano e lo zaino in spalla, si affrettavano a raggiungere l’aula di biologia, poco distante dalla palestra.

    John ed Erick, dalla parte opposta del cortile, con un passo del tutto veloce e frettoloso avanzavano verso la piccola gradinata del liceo, salendo gli scalini con particolare premura. Si fecero spazio tra le persone appostate dinanzi al grande portone d’ingresso ed entrarono di sfuggita, mentre con la coda dell’occhio intravidero la loro preda mentre cercava di nascondersi dai due.

    «John, è lì lo storpio! Dai, andiamo a prenderlo.» rise il suo amico indicandolo da lontano.

    Incoraggiati dal fatto che era una buona occasione per umiliarlo davanti a tutti, camminarono in gran fretta verso Ronald, con l’intento di giungergli alle spalle e spaventarlo a morte.

    E proprio nel momento in cui, ad un passo dal quattordicenne, stavano per riuscirci, si bloccarono d’improvviso per un avviso al megafono da parte del preside.

    La voce di quest’ultimo, sottile e ormai ben conosciuta da tutti, riecheggiò per tutto il corridoio richiamando l’attenzione anche di altre sette ragazzi.

    «John Tyson, Erick Morgan, Natasha Killer, Jake Martins, Julien Morrison, Jessica Holmes, Ronald Wilson, Mike Roberts, Phil Roberts… si presentino in presidenza immediatamente.» ripetè per due volte il signor Mengel dal suo ufficio.

    I nove volti appena chiamati in causa si guardarono tra di loro con un’incredulità unica e quasi sconcertata. Le loro facce stupite e curiose allo stesso tempo sottolineavano quanto fossero sorpresidi quel richiamo e, rimanendo immobili, ognuno alle proprie postazioni, cominciarono piano piano a comprendere che quello che avevano appena sentito non era stato per niente frutto della loro immaginazione e così, titubanti e pensierosi, iniziarono ad avviarsi, in religioso silenzio, verso l’ufficio del preside.

    Si ritrovarono tutti e nove faccia a faccia, ognuno con un’espressione interrogativa e piena di dubbi. Aprirono la porta con delicatezza e la spalancarono davanti a loro.

    Il signor Mengel era seduto sulla sua sedia girevole, con lo sguardo rivolto verso un signore alto e con capelli scuri, occhi marroni e particolarmente grandi, accompagnati da una barbetta abbastanza sottile che gli circondava la bocca piccola e rosea.

    «Ah, siete arrivati ragazzi!» esultò quest’ultimo.

    «Ci ha fatti chiamare lei.» ripeterono in coro i ragazzi.

    «Infatti.» disse l’uomo dall’aspetto bizzarro «Accomodatevi.» li invitò ad entrare con garbo.

    «Lui è il signor Leonard, il nuovo ispettore che da quest’estate, come alcuni ben sanno, è stato chiamato ad indagare su un caso molto particolare di Val Rellaine.» lo presentò infine il preside.

    «Il suicidio di quel ragazzino?» domandò in modo retorico Jake mentre gli altri, coi volti ancora un po’ stupiti, cominciavano a prendere posto.

    «Esattamente.» fece il capo della polizia «E alle prime luci delle mie indagini che ho svolto finora, sembrate tutti e nove legati in qualche modo a George Ryan. Non è così?» spiegò brevemente il motivo di quella strana riunione il signor Leonard «Non voglio né spaventarvi né mettervi addosso alcuna preoccupazione, questo è chiaro. Voglio solo farvi delle domande e scoprire, se possibile, che rapporto avevate con George. Ho già parlato con alcuni professori e con la psicologa da cui George spesso andava per fare delle sedute e perciò ho già stilato una relazione in cui ho segnato delle cose che possono farmi comodo. Ora devo vedere se sono vere e constatare quello che avete da dire voi a riguardo.» dichiarò in modo chiaro e semplice.

    «Bene, ragazzi. Ora il signor Leonard andrà nell’aula qui accanto e inizierà a fare delle domande ad ognuno di voi.» aggiunse il signor Mengel con quel suo modo di fare serio e tranquillo.

    «Non preoccupatevi ragazzi, sarà questione di pochi minuti.» rispose con un sorriso rassicurante l’uomo con la barba «Quando siete pronti, io sarò di là ad aspettarvi.» li congedò poi, uscendo dalla stanza.

    A quelle parole seguirono brevi secondi di silenzio abbastanza intensi e del tutto strani, quasi come se quei secondi si stessero tramutando in ore. Il ticchettio dell’orologio appeso alla parete e il continuo fruscio che il ventilatore attaccato sul soffitto provocava nella stanza non aiutavano affatto, anzi, continuavano solamente a dar fastidio e creare più tensione e altrettanto nervosismo.

    John, a quel punto, con un volto pensieroso e dubbioso, alzò un momento lo sguardo verso l’alto e decise di prendere parola rompendo, finalmente, quell’atmosfera silente e imbarazzante.

    «Non penserete che quello di George si tratti di omicidio?» chiese.

    «Non so cosa pensi lui, ma sono sicuro che, di qualunque cosa si tratti, non credo voglia interrogarvi perché sospetti che voi abbiate potuto ucciderlo. Ricordate che si è suicidato, non è mai stato detto che qualcuno lo abbia ucciso.» disse Alex sottolineando quale fosse il suo pensiero a proposito.

    «E se non fosse così? Quest’estate a noi tre… ci ha praticamente bombardato di domande. Perché interrogarci ancora?» domandò Jessica indicando i suoi due amici Jake e Julien.

    «Ragazzi, non c’è niente di cui preoccuparvi. Sono solo delle domande formali.» ripeté il preside in modo pacato «E adesso, chi vuole andare per primo?» aggiunse infine, incrociando gli occhi spaventati e un po’ sorpresi dei ragazzi seduti di fronte a lui.

    Prima del 10 giugno – Prima parte

    Ottobre 2014.

    Primo ottobre.

    George Ryan era sdraiato per terra. Il suo zaino era stato scaraventato oltre la fila degli armadietti che occupava la parte destra del corridoio. Il suo respiro era lieve e affaticato, il suo tremore alle mani era divenuto più frequente e accelerato e il suo battito cardiaco era aumentato; riusciva a malapena ad aprire gli occhi e la sua bocca, piccola e sottile, era stata trasformata in uno sbocco di sangue continuo.

    La sua maglietta color rosso fuoco era stata strappata ai lati e i suoi pantaloni, a causa della caduta, avevano subito degli strappi nella parte bassa delle ginocchia.

    Con tutta la forza che gli rimaneva in corpo cercava in qualche modo di rialzarsi e spingersi con la testa in avanti per vedere cosa stesse succedendo lì intorno.

    Frank Tyson e il suo amico Nathan Roberts stavano immobili davanti a lui, a guardarlo soffrire col suo volto stanco e provato che invocava pietà. I due, così, notando che si stava rimettendo in piedi, lo spinsero nuovamente verso il pavimento mettendogli un piede sulla pancia per non permettergli di muoversi.

    John ed Erick, d’altro canto, assecondando la loro volontà, continuavano a schernirlo e a deriderlo, sputandogli persino in faccia, ricordando al povero ragazzo di non essere altro che un misero perdente senza neanche un po’ di coraggio per ribellarsi.

    Jake, Julien e Jessica, facendosi spazio tra la folla curiosa e divertita, raggiunsero il loro amico in difficoltà e si buttarono a terra per aiutarlo. La ragazza, preso un fazzoletto dalla sua borsa color nocciola, gli asciugò le ferite sulle guance e lo passò su tutta la faccia per togliere via anche i lividi che gli erano rimasti sulla fronte.

    Frank, con quel suo modo di fare scorbutico e arrogante, glielo tolse dalle mani e, prendendola per un braccio, la fece rialzare e la trascinò verso il muro.

    «Ma che scena commovente!» esclamò in modo scherzoso.

    «Dove li hai messi gli occhiali da sfigata, eh?» le chiese Erick, ridendole in faccia.

    «Li avrà fatti sostituire con degli altri ancora più orrendi.» continuò Nathan.

    «Orrendi come i vestiti da vecchia che indossa.» s’intromise Samantha Fields, apparsa da dietro le spalle di quest’ultimo «Ma l’avete vista?» cominciò ad umiliarla ricoprendola di insulti, usando termini abbastanza offensivi, come del tipo piccolo mostro, verme viscido, perdente da quattro soldi, racchia, faccia da strega e tanti altri ancora.

    Jessica, a quel punto, si guardò un momento in giro, notando che tutti continuavano a fissarla con aria divertita e schifata. Le si inumidirono le mani e per la vergogna le sue guance tonde ed uniformi divennero di un colore tendente al rosso chiaro. Iniziò ad ansimare e i suoi respiri, inizialmente leggeri, cominciarono a divenire sempre più profondi e continuativi. Così, non sapendo cos’altro fare, l’unica cosa che le venne in mente fu scappare via, lasciando i suoi amici sul pavimento con lo sguardo rivolto nel vuoto.

    «Davvero coraggiosa la ragazza!» ridacchiò il signorino Morgan.

    «I perdenti non sono coraggiosi.» fece John, mentre suo fratello, intanto, che ancora aveva voglia di divertirsi, si recò verso George e, prendendolo per il collo, lo fece rialzare da terra in un lampo. Gli strappò la parte destra del colletto blu della maglietta e lo scaraventò su uno degli armadietti facendogli sbattere la testa sulla serratura a combinazione meccanica.

    «Sei impazzito, per caso?» domandò poi Jake con un po’ di coraggio.

    «Come hai detto, scusa?» lo rimproverò Nathan «Cerca di portargli rispetto, stupido idiota.» aggiunse in tono minaccioso, colpendolo sulla pancia con un calcio.

    «Forse è meglio se ce ne andiamo.» prese parola Julien.

    Quest’ultimo, trovandosi in seria difficoltà, non avendo alcuna possibilità per sfidarli tutti insieme, decise di riprendere lo zaino di George e porgerglielo con delicatezza, sussurrandogli all’orecchio destro di andare via prima che la situazione sarebbe potuta degenerare in qualcosa di ancora più estremo.

    I tre, a quel punto, riunitisi in un punto fisso, si alzarono in piedi di scatto e sgattaiolarono via, prima di essere fermati nuovamente da quei ragazzacci. Aprirono una spiazzo tra la folla per passare e fuggirono verso l’ala destra del corridoio.

    Due ottobre.

    George Ryan riuscì a svoltare l’angolo e raggiungere l’uscita del liceo. Tutto, intorno a lui, era deserto e gli unici rumori che si udivano erano i suoi passi veloci e il fiato stanco e in segno di arresa. Allungò la mano per aprire la porta dell’edificio quando, sfiorandola, si sentì tirare indietro con violenza. Con la coda dell’occhio, intravedendo i capelli biondi di Erick e quelli scuri di John, capì subito che erano loro e che non aveva nessuna via di scampo.

    Si lasciò trascinare all’indietro, inciampando per sbaglio sul piede di uno dei due, il che lo fece scivolare sul pavimento umido e sporco, sbattendo con la mandibola su una di quelle mattonelle.

    Le ferite del giorno precedente, quelle rimaste sul viso, sulla parte sinistra della guancia, si riaprirono e ne fuoriuscì altro sangue che scorse lentamente su tutta la faccia, gocciolando sulla maglietta bianca che quel giorno aveva indosso.

    Il signorino Tyson lo prese per il collo e lo rialzò. Lo fissò per un paio di secondi coi suoi occhi azzurri lucenti e gli rise in faccia spingendolo in avanti.

    «Stavi andando dal preside, vero?» gli domandò con sguardo severo.

    «No… io, io…» balbettò il povero quindicenne.

    «Tu cosa, moscerino?» echeggiò la voce di Frank dal fondo del corridoio.

    Fece il suo ingresso trionfale col suo amico Nathan e si diresse, insieme a lui, verso il ragazzo impaurito. Gli bloccò le mani e iniziò lentamente a girargli i polsi, cominciando a fargli male. I suoi lamenti erano silenziosi e soffocanti per non dar l’impressione ai due aggressori di quanto stesse soffrendo e, di conseguenza, di non dargli soddisfazione alcuna di continuare a procurargli dolore.

    I suoi occhi si chiudevano per lo sforzo di non gridare e il suo volto, piangente e addolorato, esprimeva quanto fosse difficile sopportare tale strazio.

    «Allora, hai ancora voglia di andare a spifferare tutto al signor Mengel?» gli chiese poi il signorino Tyson avvicinandosi alla sua faccia stanca e provata.

    Il silenzio che si venne a

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