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Teoria del maquillage
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Teoria del maquillage

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Fin dai tempi remoti il trucco, al pari di altri segnali visivi quali l'abbigliamento e gli ornamenti (tatuaggio, body painting, uso di oggetti ornamentali), non ha avuto solo lo scopo di polarizzare l'attenzione ma ha svolto importanti funzioni comunicative, indicando ad esempio l'appartenenza a un gruppo, la posizione di rango, le intenzioni ad agire e particolari stati d'animo. Solo in un secondo momento la cosmesi è stata progressivamente associata alla bellezza femminile e a finalità seduttive. Se oggi il maquillage è una prassi consolidata - Coco Chanel è stata una delle prime a capirne la straordinaria efficacia nel veicolare un'identità di marca e nel costituire una fonte importante di risorse economiche -, attraverso i secoli esso è stato sottoposto a giudizi diversi, dall'apologia al rifiuto totale o alla stigmatizzazione moralistica, come testimoniano autori appartenenti a contesti storico-culturali differenti quali Ovidio, Tertulliano, Thomas Tuke, Charles Baudelaire e Matilde Serao.
LanguageItaliano
Release dateJun 14, 2011
ISBN9788889891933
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    Teoria del maquillage - Ovidio-Tertulliano-Tuke-Baudelaire-Serao

    Teoria del maquillage

    Centopagine

    Ovidio-Tertulliano-Tuke-Baudelaire-Serao

    Teoria del maquillage

    a cura di Federica Fioroni


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    Il seguente E-BOOK è stato realizzato con T-Page

    Introduzione

    1. Antropologia della cosmesi

    Gli studi di Marcel Mauss hanno evidenziato già negli anni Trenta che le cosiddette «tecniche del corpo» (dalla risata all’andatura, la postura nel sonno, il mangiare, il lavarsi e l’attività sessuale) recano tutte l’impronta dell’apprendimento, perché un vero e proprio comportamento naturale non esiste; ne consegue che non si può parlare di un corpo in stato di natura, ossia privo di ogni artificio, in quanto esso, in una misura minore o maggiore, è da sempre condizionato dal contesto socio-culturale. Se è vero che la natura deve essere espressa in simboli, prodotti dalla mente a partire dall’esperienza, e dunque artificiali e convenzionali [Douglas 1979, 3], anche il corpo, essendo sempre e ovunque mediato dall’azione sociale, è un corpo culturale che noi colmiamo con dei significati [Combi 2000, 47-59].

    Le pratiche che si iscrivono sul corpo, che lo de-scrivono trasformandolo in una superficie vuota su cui tracciare dei segni, hanno l’importante funzione di concorrere alla costruzione del significato corporeo; esse si collocano strategicamente sulla pelle, la cui rilevanza per la configurazione dell’identità del soggetto risulta innegabile. Nel folklore di molti popoli ricorrono storie mitiche legate alla pelle: limitandosi alla mitologia greca, si possono ricordare le vicende di Marsia, che, avendo osato sfidare Apollo in una gara musicale, viene scorticato vivo dal dio come punizione per la sua hýbris; di Eracle, che, reso invincibile dalla pelle del leone di Nemea, muore tentando di liberarsi da una tunica intrisa nel sangue di Nesso che la moglie Deianira, convinta di poter così assicurarsi l’amore eterno del marito, incautamente gli fa indossare; di Medea, la quale, per vendicarsi di Giasone, manda in dono alla rivale Glauce una veste avvelenata, che si rivelerà una pelle-tortura: una volta indossata, essa uccide la giovane e anche il padre accorso in suo aiuto. In tutti questi casi il derma si rivela un simbolo complesso – in cui coabitano vita e morte, rinnovamento e svestizione totale –, che privando il corpo della sua protezione gli sottrae la vita stessa. Il motivo della pelle è ricorrente anche in varie fiabe che riprendono racconti popolari, dove essa ha per lo più la funzione positiva di fornire al personaggio dei confini protettivi, una sorta di dermascheletro, consentendogli al contempo un contatto con l’ambiente [Calabrese 1997, 68]; emblematico è il caso di Peau d’âne (1694) di Perrault, ripresa dai fratelli Grimm, in cui la protagonista, indossando una pelle d’asino che le permette in buona sostanza di cambiare identità, si salva dai progetti incestuosi del padre. La forte valenza simbolica della pelle risulta anche nelle pratiche perverse dei serial killer: si veda la vicenda reale di Ed Gein, a cui è ispirata la figura finzionale di Buffalo Bill, l’assassino del film The Silence of the Lambs (1991) di Jonathan Demme, il quale indossava vestiti ricavati dalla pelle delle sue vittime, compiendo una delirante operazione di trasferimento identitario.

    Da un punto di vista strettamente fisiologico, la pelle è una struttura elastica molto resistente composta di due strati integrati (epidermide e derma), che rappresenta il 20% del peso corporeo del lattante e circa il 18% di quello dell’adulto, costituendo il più esteso degli organi del corpo umano, oltre che il più vitale per la sopravvivenza: si può vivere da ciechi, sordi, privi di olfatto e gusto, mentre la perdita di grandi porzioni di pelle, ad esempio nei casi di ustione, risulta fatale. Inoltre, mentre gli altri organi di senso sono prevalentemente ricettivi, la pelle è sia ricettiva-passiva, sia espressiva-attiva, ossia rivolta verso il sé ma anche verso l’ambiente: non solo registra impressioni, ma comunica stati d’animo di pudore, angoscia e rabbia tramite reazioni quali rossore, impallidimento, essudazione, pelle d’oca. Da un punto di vista socio-antropologico la pelle è il confine dell’io, rappresentando sia il medium della distanza e della separazione sia quello del loro superamento tramite il contatto [König 2002, 438-442]. Sistematizzando in chiave psicoanalitica alcune indicazioni di carattere antropologico, Didier Anzieu ha elaborato la teoria dell’Io-Pelle: egli parte dalla constatazione che la corteccia cerebrale deriva dallo sviluppo della superficie dell’embrione, costituendo dunque una sorta di pelle interna, mentre l’epidermide è la superficie esterna del corpo. Potremmo intendere tutta la vita psichica come una questione di relazione tra superfici, mentre al contempo la formazione del soggetto psichico appare imprescindibile per quella del soggetto corporeo, in una visione che supera la separazione cartesiana tra res cogitans e res extensa [Anzieu 1994, 21 ss.]. Anche quando non si trova bene nella sua pelle, l’uomo è condannato a se stesso: essendo la muta riservata al mondo animale, egli può realizzarla solo simbolicamente, tramite le varie pratiche di body marking che possono essere intese come tecnologie di muta corporea e identitaria, ovvero come specifiche modalità di azione sul corpo in grado di incarnare l’iscrizione del proprio desiderio [Marenko 2002, 23].

    Fin dai tempi remoti segnali visivi quali l’abbigliamento e l’ornamento (trucco, tatuaggio, body painting, uso di oggetti ornamentali) non hanno avuto solo lo scopo di polarizzare l’attenzione ma hanno svolto importanti funzioni comunicative, indicando ad esempio l’appartenenza a un gruppo, la posizione di rango e molti altri messaggi relativi alle intenzioni ad agire e a particolari stati d’animo [Eibl-Eibesfeldt 2001, 321]. Nello specifico, tatuaggio, scarificazione, pittura corporale e piercing sono rimasti a lungo confinati presso le culture non occidentali, a partire dai Greci, i quali non praticavano affatto l’uso di tatuare il corpo a scopo ornamentale o come segno di status particolare, e anzi vi era una netta contrapposizione tra il corpo naturale e illibato dell’uomo greco e il corpo iscritto e marchiato dei Barbari e degli schiavi, mentre l’unica forma più o meno legalizzata di scrittura corporale era la cosmesi femminile [Condello 2003-2004]. Significativo risulta quanto racconta Erodoto nelle Storie, il quale attesta che i Traci avevano l’abitudine di tatuarsi come segno onorifico (V 6), e gli Sciti praticavano una sorta di scarificazione durante il rito funebre (IV 71); tutte le altre testimonianze antiche, in particolare quella di Cesare nel De bello Gallico, secondo cui «tutti i Britanni si tingono con il succo della pianta di guado, che produce un colore turchino, e per questo diventano di aspetto più orribile in combattimento» (V 14, 2), sottolineano in modo analogo l’irrimediabile alterità del corpo tatuato, scarificato o dipinto.

    Se alcune tribù primitive praticano la scarificazione a scopi curativi, come la popolazione Ndembu (Zambia nord-occidentale) studiata da Victor Turner tra gli anni Cinquanta e Settanta – in caso ad esempio di mal di schiena, si effettuano delle incisioni con il rasoio sulle zone doloranti e si fa penetrare la medicina nei tagli [Turner 1976, 379] –, presso altre popolazioni il tatuaggio e la pittura corporale hanno una forte valenza sociologica, indicando una maggiore autorità e permettendo un riconoscimento immediato dell’individuo e del suo status sociale. Claude Lévi-Strauss nei suoi viaggi in Brasile ha studiato tra gli altri il gruppo amerindiano dei Caduvei, i quali, insieme ai Toba e ai Pilaga del Paraguay, sono oggi gli ultimi rappresentanti dell’antica e ormai estinta famiglia dei Mbaya Guaiacuru, una società fortemente gerarchizzata e divisa in caste: al vertice della scala sociale erano collocati i nobili, divisi in due gruppi (i nobili per eredità e coloro che erano divenuti tali individualmente), poi venivano i guerrieri e infine i servi e gli schiavi. I Mbaya presentavano elaborate pitture facciali e corporali descritte per la prima volta da Sanchez Labrador, missionario gesuita vissuto a contatto con loro tra il 1760 e il 1770; anzi, Labrador e gli altri missionari vennero aspramente redarguiti dagli indigeni per il fatto di essere così stupidi da non decorarsi il viso: «Bisognava dipingersi per essere uomini; colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto» [Lévi-Strauss 1960, 179]. La decorazione della pelle, eseguita esclusivamente dalle donne, prevedeva arabeschi asimmetrici spesso uniti a motivi simmetrici, nell’alternanza di due stili decorativi, uno curvilineo e uno geometrico. I motivi pittorici, rimasti identici attraverso i secoli, un tempo erano tatuati o dipinti, mentre ora si usa solo quest’ultimo metodo, e i disegni sono del tutto indipendenti dai tratti del volto umano: le donne possono riprodurli identici e senza difficoltà su fogli bianchi, come è stato sperimentato dallo stesso Lévi-Strauss.

    Ancora oggi i Caduvei, in particolare le giovani donne, si dipingono solo per essere più attraenti, ma un tempo quest’uso aveva un significato più profondo: al pari del disgusto per la procreazione, manifestato dalla prassi abituale dell’aborto e dell’infanticidio – la perpetuazione del gruppo avveniva per adozione dei bambini, sottratti durante spedizioni guerriere che avevano quasi solo questo scopo –, le pitture facciali erano un mezzo per esprimere il medesimo orrore per la natura e conferivano all’individuo la sua dignità di essere umano, rappresentando «il passaggio dalla natura alla cultura, dall’animale stupido all’uomo civilizzato» [Lévi-Strauss 1960, 183]. Esse inoltre avevano una funzione sociologica, essendo diverse per stile e composizione a seconda della casta: ad esempio presso gli antichi Mbaya i nobili si ornavano solo la fronte, mentre la plebe si decorava tutto il viso; nondimeno il significato alla base di quest’arte complessa e originale sarebbe ancora più profondo. Analizzando la struttura sociale dei Mbaya, si nota che essa non solo prevedeva tre caste ereditarie ed endogamiche, ma anche la suddivisione del gruppo in due metà, le quali risuddividevano le classi: se era proibito al nobile sposare una guerriera e al guerriero sposare una schiava, era d’altronde obbligatorio che ognuno sposasse un partner dell’altra metà in cui era suddivisa ogni casta; in tal modo la ripartizione in due, che si aggiungeva alla divisione in tre, in un certo senso equilibrava l’asimmetria delle classi, come avviene ancora presso i Bororo del Mato Grosso. La pittura caduvea, con la sua commistione di simmetria e asimmetria, non sarebbe altro che la manifestazione inconscia e simbolica, e dunque inoffensiva, di una dissidenza interna alla società.

    In generale la pittura corporale rientra nel camouflage, una strategia visiva e quindi comunicativa messa in atto da sempre da esseri umani e animali al fine di celarsi, trasformarsi e sopravvivere. La tribù dei Surma, che abita nella valle dell’Omo nel Sudovest dell’Etiopia, si distingue per la pratica di un body painting che coinvolge indifferentemente bambini, giovani, donne e uomini, ricoprendo l’intero corpo con combinazioni bizzarre di astratto e figurativo che non cancellano l’identità del singolo, ma la trasformano e la trasfigurano. Alla base di tali pitture vi è innanzitutto l’espressione di un mimetismo con la natura, in una concezione che vede un continuum tra mondo animale, vegetale e umano, dove «la capacità di se métamorphoser rivela la porosità tra le frontiere, ristabilendo la continuità ininterrotta tra i regni» [Magli 2010, 43]; osservando però il fatto che i volti dipinti dei Surma si caratterizzano per la divisione verticale in due campiture cromatiche e decorative contrapposte, il loro trucco si collega anche alla funzione apotropaica delle maschere nonché ad una forma di intimidazione, che consiste nell’incutere paura per tenere a distanza.

    Tra le varie pratiche di riscrittura del corpo un posto rilevante occupa il tatuaggio (dalla voce polinesiana tatu o tatau, connessa al verbo tau, che significa battere, con riferimento all’operazione con cui si incide la pelle). Secondo Genesi 4, 15 il primo tatuato è Caino, che, dopo aver ucciso il fratello Abele, viene scoperto da Dio, il quale «impose su di lui un marchio, affinché chiunque lo trovasse non lo uccidesse»; ne deriva la concezione, che si protrae fino a Ottocento inoltrato, del tatuaggio come marchio di Caino ovvero come segno identificativo di criminali o comunque di chi vive ai margini della società: ciò risulta evidente anche negli universi finzionali, dall’ex galeotto Collin che compare in Père Goriot (1834) di Balzac fino ad arrivare a Jena Snake Plissken, il carcerato protagonista del film Escape from New York (1981) di John Carpenter. Da una parte vi sono i tatuaggi come segni infamanti subìti, che riguardano una varietà eterogenea di categorie, dai disertori nell’Inghilterra dell’Ottocento alle donne tahitiane bollate come prostitute e quindi marchiate dai missionari, che vengono descritte da Paul Gauguin durante il suo primo viaggio a Tahiti [Gauguin 1987, 103], fino ad arrivare ai numeri incisi sulla pelle nei campi di concentramento; dall’altra parte vi sono i tatuaggi come scelta, praticati dalle popolazioni primitive e non solo: se fin dal I secolo il tatuaggio dei cristiani copti è un segnale visibile di affiliazione religiosa in modo simile all’usanza medievale dei pellegrini di incidersi sulla pelle simboli dei santuari visitati (in particolare quello di Loreto), i samurai giapponesi del periodo Edo recavano tatuato un versetto buddista o le insegne della loro famiglia, affinché il cadavere potesse essere riconosciuto dopo la battaglia. In ogni caso è significativo che a lungo un’analoga condanna morale abbia gravato su tatuaggio e maquillage: mentre il tatuato si identifica con il criminale e l’emarginato, la donna truccata viene spesso associata alla prostituta e in generale a un potere seduttivo che introduce un’anomalia pericolosa per l’ordine sociale [Le Breton 2003, 227]. Tale stigmatizzazione si riconduce anche all’opposizione puro/impuro che, secondo Mary Douglas, sarebbe alla

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