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Le vie della seta
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Le vie della seta

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“Le vie della seta”, è il diario, tra ricordi, cronaca, informazioni, compilato durante un viaggio nel Pamir, regione dell’Asia centrale divisa fra Afghanistan, Cina, Kirgizistan e Pakistan.
Meta di viaggiatori alla ricerca “del tempo perduto” , il Pamir è circondato dalle vette più alte del mondo, solcato da fiumi e laghi, e possiede tutte le caratteristiche e le suggestioni per attrarre turisti non convenzionali.
In questo diario l’autrice descrive tutte le tappe del tragitto. L’esperienza inizia a Samarcanda e prosegue nei territori del Tajikistan, della Kirghisia per arrivare in Cina percorrendo quella che fu la Via della seta.
Durante questo percorso, in cui si avvicenderanno come guide Firous, Duna e Shamil, il gruppo di viaggiatori si troverà ad affrontare gli inconvenienti e le difficoltà che luoghi poco frequentati dal turismo possono riservare, senza contare la delusione nel constatare che nulla rimane incontaminato e che la realtà spesso è lontana dall’immaginario del viaggiatore.
LanguageItaliano
Release dateFeb 16, 2016
ISBN9788869630668
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    Le vie della seta - Carla Reschia

    Carla Reschia

    LE VIE DELLA SETA

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2016 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    Via Milano 44

    73051 Novoli (LE)

    ISBN 9788869630668

    LE VIE DELLA SETA

    L’espressione Via della seta viene dal tedesco Seidenstraße: il primo a usarla fu infatti il grande geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877. Quella che un giorno sarebbe stata così definita era un reticolo di itinerari terrestri, marittimi e fluviali di circa 8.000 km, che permettevano alle carovane di attraversare l’Asia centrale collegando Chang’an (oggi Xi’an) in Cina all’Asia Minore e al Mediterraneo attraverso il Medio Oriente e il Vicino Oriente. Le sue diramazioni si estendevano poi a Est alla Corea e al Giappone e a Sud all’India…

    SAMARCANDA

    Tornare a Samarcanda è un privilegio. Già una volta, è raro. Da ragazzina, quando il nome mi faceva sognare mi pareva impossibile riuscire a vederla davvero. E la prima volta che ci sono stata, sì, avevo la sensazione di essere entrata in un libro, in un racconto di viaggio. Sette anni dopo, il nome è sempre suggestivo, ma non fa più quell’effetto di fiaba. Samarcanda si chiama anche, a Roma, una cooperativa di tassisti. Ho preso un taxi Samarcanda per partire alla volta di Samarcanda e, coincidenze a parte, i miti si logorano anche così, con l’inflazione delle parole usate a casaccio. Ma è bello rivedere i viali, la luce, le tessere colorate delle cupole, i vestiti colorati delle donne. È un Islam gentile, garbato, pieno di suggestioni, come ci piaceva immaginarlo prima di Osama, dell’Isis e tutto il resto. Le ragazze non hanno veli, ma nell’ultimo giorno di scuola vestono, secondo un’usanza russa trapiantata qui dall’impero sovietico, una divisa bianca a gale che pare un costume da cameriera frivola. Percorrono il Registan a sciami, insieme ai ragazzi, ridono, abbordano gli stranieri con impertinente curiosità per fare sfoggio di qualche mozzicone d’inglese. Quanti anni hai, come ti chiami, whatcoontryar’yufrom? Italy? Che lingua parlate in Italy? Una sola, sempre la stessa, ma a popoli nomadi e incrociati, figli di una babele inestricabile di etnie, tribù e dialetti, una lingua sola pare troppo poco. Insistono, sorridendo. Si meravigliano che non si parli russo, la lingua franca dell’Asia centrale. Chiedono, insistentemente, foto. Meglio se digitali, per farsi mostrare il risultato e ridere a singhiozzo, indicandosi a vicenda. Se ne scattano anche fra loro e si fanno immortalare civettuole accanto ai turisti più avvenenti. Tutti amano alla follia le foto in questa città musulmana dove forse nessuno è ancora venuto a ricordare che riprodurre gli esseri viventi è sacrilegio. Anche la madrassa di Sherdar, sulla destra, mostra fra i mosaici due leoni, un’esibizione trasgressiva di natura e di forza, speculare e opposta ai rigorosi ricami astronomici voluti sull’altro lato della piazza da Ulugh Beg, il principe astronomo nipote di Tamerlano che preferì la scienza alla forza e pagò questa bizzarria, impensabile nell’Asia medievale, con la vita.

    Però il Registan, orgoglio di Samarcanda, è sempre più ingessato, con gli edifici che, come in un capovolgimento dell’apologo di Dorian Gray, diventano sempre più nuovi invece d’invecchiare. Ci vanno giù duri con i restauri qui a Samarcanda. Hanno iniziato i russi negli anni ‘70, per far vedere quanto avevano a cuore la periferia dell’impero. Così, dopo aver trasformato il reticolo di vicoli e canali della città vecchia in un quadrilatero di viali da parata, avevano messo mano al luogo simbolo della città, incaricandosi di raddrizzare minareti e ripristinare facciate. Ora il presidentissimo Karimov ne segue le orme con entusiasmo. Il risultato, un po’ triste, è un Registan da sagra di paese, con pedane, tribune e, alla sera, lo spettacolino son et lumiere.

    I minareti ricostruiti svettano, i mosaici luccicano come plastica, nei cortili interni e nelle celle dove gli studenti studiavano il Corano e fuggivano le femmine tentatrici, donne esuberanti dai sorrisi carichi di denti d’oro vendono abiti, monili, artigianato, tappeti. Suzane, suzane ripetono, agitando i grandi teli ricamati a mano che fanno parte del corredo nuziale tradizionale. Si chiamano così, e sono infinita fonte di equivoci per i turisti ignari, che inevitabilmente pensano a un nome di donna e ne traggono conclusioni precipitose. In una stanzetta ce n’è un intero campionario, con tutti i materassi, i cuscini, i quaranta cambi d’abito che la consuetudine richiede alla sposa. E ci sono gli abiti nuziali d’antan. Vestiti da operetta carichi d’oro per gli uomini, involucri di stoffe preziose provvisti di veli e di spesse grate di tessuto che nascondono anche gli occhi, per le donne. Nemmeno le braccia dovevano uscire: le maniche erano finte, servivano solo a indicare lo stato civile. Per evitare equivoci e forse per segnalare una possibile occasione. Con un facile simbolismo, erano sciolte per le nubili e fermate insieme sulla schiena da una spilla per le spose.

    Le donne di Bukhara, informa una guida, sono state le prime in Uzbekistan, nel 1850, a rifiutarsi di indossare quel costume che il clima torrido rende punitivo. In Afghanistan vestono ancora così, peraltro. Ma l’eterno dilemma del viaggiatore (turista?) politicamente corretto sta tutto qui: il burqa è più affascinante (etnico?) del completino in poliestere, la catapecchia in fango nella foto viene meglio del palazzone sgarrupato con il mosaico finto arabo che cade a tocchi dalla facciata. Il mercato è più pittoresco quando espone capre e verdure appassite invece di radioline e giocattoli in plastica made in China.

    E del resto, signora mia, nemmeno l’artigianato è più quello di una volta: confrontare per credere i (le?) suzane esposti al museo cittadino con quelli sgargianti di coloranti chimici agitati dalle mercantesse. Aveva ragione la guida che mi accompagnò in questo stesso giro sette anni fa: «Si è perso il segreto di quei colori». E non ci sono più nemmeno le mezze stagioni, verrebbe da rispondere. Ma è vero, è proprio così. Si è perso il segreto, e nessuno pare dispiacersene più di tanto.

    E Samarcanda ci piaceva di più quando non aveva ancora quest’aria da metropoli rampante e l’odore del grasso di montone che saliva dal plov esposto nelle bancarelle all’aperto, sotto il sole di mezzogiorno, poteva pure tramortirti.

    Meglio rifugiarsi tra le foto antiche, esposte nell’ombra fresca dell’interno della madrassa di Ulugh Beg. Qui, dove un tempo centinaia di studiosi imparavano, accanto alla teologia, l’astronomia, il Registan ritrova nelle stinte immagini in bianco e nero la sua autentica natura di mercato, intasato di cammelli, uomini in colbacco e merci accatastate. I minareti appaiono come dovrebbero essere, logori, spezzati dal tempo, le facciate ritrovano una patina di cadente grazia. Essere, per un attimo Ella Maillart, vedere quella scena animarsi, dimenticare i monili di plastica cinese, sentire gli odori e le grida. Ed è tutto un amaro confrontare, scambiandosi sorrisi cinici da viaggiatori disillusi, mentre il tour prosegue e si scopre che è ringiovanita e addirittura è tornata integra la moschea dedicata a Bibi Khanum, leggendaria moglie amatissima e forse traditrice del grande Tamerlano. Troppo grande, troppo ambiziosa, aveva cominciato a decadere subito dopo la costruzione e dopo il terremoto del 1897 era diventata un’affascinante rovina romantica. In Europa, a quell’epoca, l’avrebbero fatta apposta così, si chiamava «architettura di rovine», per immaginarsi storie rapinose di sceicchi bianchi e odalische vogliose. Adesso è un portone massiccio e squadrato, irto di minareti torniti con lo stampino, che solo all’interno conserva la suggestione del cortile circondato dai gelsi. Sotto l’enorme leggio in pietra grigia della Mongolia che per secoli sorresse il più antico e grande Corano del mondo, le donne strisciano ancora, implorando la grazia di un figlio, mentre una vecchina cerca inutilmente di spazzare le more appiccicose che si accumulano per terra. Questo, almeno, non è cambiato.

    Resistono, tenaci, anche le leggende. Nella cultura di Sherazade tutti coltivano l’arte dell’aneddoto sapiente e curioso, della storia misteriosa o illuminante. Di Bibi Khanum, che forse non è nemmeno mai esistita, si racconta che fosse cinese e bellissima e che per fare una sorpresa al temibile sposo avesse ordinato, in sua assenza, la costruzione della moschea. Visitando ogni giorno il cantiere, piena di zelo coniugale, venne notata da un audace architetto, complice un colpo di vento che le sollevò il velo. La storia prosegue con un bacio chiesto e prima negato, poi concesso (i lavori, insomma, dovevano pur proseguire e lui minacciava lo sciopero), con un misterioso – o forse neppure tanto – segno indelebile impresso sul viso della bella, e con un Tamerlano imbufalito che al ritorno, scoperto l’inganno, come nelle telenovele, fa finta di nulla, sale sul minareto più alto, riempie di moine la maliarda segnata dal peccato e oplà, la scaraventa di sotto. Con dolore immenso, ovviamente. Tanto da volerle dedicare la moschea e, proprio lì davanti, il mausoleo. Che importa se l’unica moglie cinese di Tamerlano che si conosca, all’epoca dei presunti fatti era una vecchia e potente megera.

    Del resto, anche la leggenda ha le sue varianti, che dipendono forse dalla fantasia della guida, o forse dall’ispirazione del momento. In una delle tante versioni si racconta che Bibi, per nascondere il bacio troppo appassionato del galante architetto, avesse avuto l’idea di indossare il velo. E che, con una trovata degna di un politico navigato, avesse deciso di imporlo a tutte le suddite, nel nome del comune senso del pudore. Mal comune mezza virtù, per così dire.

    Modo astuto per ricondurre a un’iniziativa femminile – truffaldina, va da sé – l’imposizione del velo. Eva docet. Nel racconto più politicamente corretto e adatto ai bambini (nessuno viene ucciso) è Tamerlano in persona a imporre il velo alla moglie avventurosa, onde evitare future noie. E l’architetto non viene ucciso ma solo, si fa per dire, rinchiuso in cima a uno dei minareti della sua moschea. Da dove, però, sarebbe fuggito in volo verso la patria. Che era la Persia. Perché in Asia centrale, ancora oggi, l’arte, le novità, la cultura e le tentazioni arrivano da lì.

    Leggende, miti, invenzioni. Anche Tamerlano lo è: si chiamava Timur Barlàs, diventato Timur i lang, Timur lo zoppo, dopo essere sopravvissuto, miracolosamente si riteneva, alla freccia che gli aveva piantato in una gamba un pastore derubato di una pecora. Solo l’infinita indifferenza dell’Occidente per le lingue degli altri ne ha fatto un nome unico. E solo l’altrettanto grande benevolenza per i dittatori degli altri ne ha fatto, in contrapposizione a Gengis Khan, un condottiero relativamente «buono», meritevole di aver distolto, almeno per un po’, gli ottomani dall’Europa.

    Se gridi Timur per strada in Uzbekistan si voltano in cento. Vanno fieri gli uzbeki del loro condottiero che nacque povero e divenne grande tagliando teste a mucchi e coltivando l’hobby di ricostruire le città dopo averle spianate. La riflessione riaffiorerà più volte nel corso del viaggio: è un problema di prospettive. E se così poco è rimasto di quella Asia mitica che da Marco Polo in poi ci ha incantati, forse è anche per questo iato. Da noi i grandi uomini conquistavano per costruire: strade, città, templi, imperi. Lasciavano il loro nome, come una scia, ovunque passassero. Qui, nel cuore dell’Asia i grandi hanno soprattutto sterminato, distrutto, incendiato, fatto terra bruciata. A nessuno pare strano. Come non pare strano conservare gelosamente la religione di quegli arabi che arrivarono qui per imporla attraverso la guerra e di cui pure si ricorda con puntiglio (o con ammirazione?) ogni sciagurata impresa, ogni città rovesciata, ogni civiltà estinta. Tamerlano che buttava giù ma poi almeno edificava, anche, che uccideva e poi dedicava monumenti, nell’immaginario collettivo asiatico deve apparire quasi un sentimentale. Lui di sicuro aveva di se stesso una grande opinione: «Ho teso una mano sicura ai viaggiatori di tutte le province e di tutti i regni per aver notizie sui paesi stranieri. Ho inviato da ogni parte mercanti e capi carovana; ho dato loro l’incarico di recarmi gli oggetti più rari che si trovano in Tataria, in Cina, nell’Hindustan, nelle città d’Egitto, d’Arabia e dei Franchi» ha lasciato scritto nelle sue Istituzioni, nel 1405.

    Ed è doveroso tornare a rendergli omaggio nel suo mausoleo di Guri Amir, la tomba dell’Emiro. Ci si arrivava passando per vecchie vie, dove la cupola azzurra a grandi coste appariva come una visione. Ma i «restauri» hanno colpito anche qui, e ora gli ospiti del vicino hotel a molte stelle Afrosyab possono godersi dal balcone la vista dell’edificio «nudo», al centro di una spianata di aiuole che dovrebbe renderlo più monumentale, e invece lo mortifica e lo banalizza.

    Dentro, il tripudio di dorature sulla volta (due chili e mezzo di oro, informa la guida), sorveglia l’ordine perfetto delle pietre tombali. Quella di Tamerlano è uno spettacolare blocco di giada verde scuro, accanto, più piccole, quelle di due figli, Shah Rukh, padre di Ulugh Beg, e di due nipoti, lo stesso Ulugh Beg, e Mohammed Sultan. Ma l’unico sepolcro che ha l’onore dei crini di cavallo in cima a un lungo palo, segno mongolo per la tomba di un santo, è quella del maestro di Tamerlano, Sheikh Umar.

    Altre leggende, su questa pietra di giada che, non pare, ma è spezzata in due. Nel 1740 Nadir Shah, il condottiero persiano che nello stesso anno distrusse Khiva, la portò in Persia come bottino. Mal gliene incolse. Gli capitò di tutto, il figlio maschio, l’erede, si ammalò di un male misterioso e incurabile. Non gli restò che riportarla indietro, con tante scuse. E pensare che non è nemmeno la tomba vera, perché, in un’epoca di distruzioni e di saccheggi, ci si era premurati di preservare i sepolcri veri dai profanatori con un piccolo trucco. Le tombe di Tamerlano e famiglia sono in una cripta sotterranea: la disposizione è esattamente uguale a quella sovrastante, salvo per i fronzoli, e l’accesso è vietato a tutti. Ma allungando qualche sum il divieto diventa già meno tassativo. L’altra volta non c’era stato bisogno di soldi: l’universitaria entusiasta che ci accompagnava ci aveva portato spontaneamente, ostentando appena un po’ di mistero, a vedere quelle lapidi spoglie. Raccontandoci una storia ancora più sinistra di quella di Nadir Shah. Perché il vero sepolcro di Tamerlano, ha sopra un’iscrizione degna del personaggio: «Chiunque aprirà questa tomba sarà sconfitto da un nemico più terribile di me». Scherzetto sempre efficace, da Tutankhamon in poi. Ma il 19 giugno 1941 una spedizione scientifica guidata dall’antropologo sovietico Mikhail Gerasimov, ispirata dallo spirito scientifico e dal materialismo storico, disturbò il sonno dell’emiro. Una simile profanazione, dettata dall’esigenza di scoprire che Timur lo zoppo era effettivamente sciancato e, per l’epoca e l’etnia, abbastanza alto (1,67 cm.) non poteva restare impunita.

    Tre giorni dopo, il 22 giugno 1941, la Germania nazista di Adolf Hitler attaccò l’Unione Sovietica, infrangendo il patto che Molotov e Ribbentrop avevano così fruttuosamente stipulato.

    Quando Stalin seppe della sfortunata coincidenza, pare, tanto per non sbagliarsi, fece esattamente come Nadir Shah e ordinò di rimettere tutto a posto. Detto fatto: il 22 febbraio 1943, i sovietici ebbero la meglio nella sanguinosa battaglia di Stalingrado, prima grande sconfitta militare tedesca e inizio dell’avanzata verso Berlino. Se ne potrebbe dedurre che Tamerlano preferiva Stalin a Hitler? O forse che lo riteneva il suo erede più degno? Chissà.

    Ma la mia tomba preferita di Tamerlano resta il semplice mausoleo di Jahsngir che lo aspettava, e non lo accolse mai a Shakhrisabz, il luogo dove era nato, il 9 aprile 1346 e che amava. Lui voleva essere sepolto lì, in quella città che aveva reso più grande e potente di Samarcanda e che oggi è un borgo quieto e sonnolento, dove, all’ombra delle rovine del palazzo Ak Saray, un giorno d’estate ho visto dei bambini nudi fare il bagno in una fontana pubblica. «Se pensi di sfidare il nostro potere, guarda quest’edificio», è ancora scritto sui mozziconi della porta. Ma fu distrutto anche quello, nel XVI secolo. E così bene, con tanta cura, che forse nemmeno Karimov potrebbe ricostruirlo, adesso.

    Di tomba in tomba, nella Samarcanda che ricordavo una delle rivelazioni era stato lo Shah-i-Zinda, la collina del re vivente, una sorta di cimitero monumentale che corona il colle di Afrosyab, il primo sito della città, dove ancora oggi si seppelliscono, con tanto di vista panoramica, i defunti nelle viscere della città sogdiana. Scalinata impervia per arrivarci, ma poi uno spettacolo indimenticabile di azzurri e celesti. Mausolei grandi come una moschea, di ogni forma di ogni taglia, resi irresistibilmente romantici dalla fatiscenza. In mezzo erbe, mattoni sparsi, alberi, un viottolo polveroso. La morte così pareva persino accettabile: una passeggiata degna di Werther tra antichi sepolcri e splendori appannati. La guida allora diceva con fierezza che era impossibile restaurare quei monumenti, perché di quei colori, di quelle paste di vetro si era perduta (ancora!) per sempre la ricetta. Ma niente è impossibile, purtroppo. E ora è il trionfo della piastrellina 10 x 15 in similcotto. Saddam aveva fatto qualcosa di simile a Babilonia e forse era l’unico motivo davvero buono per impiccarlo, anche se nel processo-farsa contro di lui non se ne è mai fatto menzione.

    Nuova la strada, tirate a lucido le tombe migliori, sparite quelle impresentabili e sostituite da ordinati terrazzamenti. Scomparsi gli alberi, i sassi, la polvere. Rimpiazzate le tessere insostituibili.

    La teoria della parte aggiunta che deve differenziarsi dall’originale, caposaldo del restauro «d’arte» europeo, da queste parti probabilmente sembra un’astruseria da intellettuali. Tutto deve splendere a maggior gloria del re vivente, Kusam ibn Abbas, cugino del profeta Maometto venuto a passare qui la sua vita eterna in un mausoleo ancora più sberluccicante degli altri. Per le comitive di tedeschi va bene così, scattano foto e sorridono compiaciuti ascoltando le sottili alchimie della sepoltura islamica. Perché chi muore di malattia viene lavato, spogliato e consegnato alla terra avvolto in un lenzuolo. E va bene. Ma chi muore da martire, da shaid, combattendo per l’Islam, resta così, con indosso i suoi vestiti, perché non è morto davvero, ma vive per sempre.

    Così fece Kusam ibn Abbas che, decapitato per testimoniare la sua fede, raccolse la testa e con quella sottobraccio si avviò tranquillamente lungo la strada per il paradiso. Saranno andati in paradiso con le loro giacche sovietiche e le loro cravatte a fettuccia i moderni emuli che si sono voluti far la tomba vicino agli eroi e, all’uscita del complesso, esibiscono gli abiti della festa nelle orrende lapidi cinerine contemporanee? Di certo all’inferno si vorrebbero mandare gli autori di queste «migliorie» pretenziose e volgari. Fermarli, riavvolgere il nastro, ritrovare quello scorcio perduto: un vecchio cieco condotto per mano da un bambino che, davanti a lui, sparge l’aroma pungente di un’erba magica bruciata in un braciere di stagno.

    Così li raccontavano i viaggiatori del secolo scorso, e anche di due secoli fa, e così me li ricordo anch’io, un’apparizione struggente tra le tombe non ancora «restaurate».

    «Tutto quel che ho sentito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi», pare abbia detto Alessandro Magno dopo aver conquistato la città nel 329 a. C. Lui le città le fondava. L’onore di distruggerla per la prima volta toccò a Gengis Khan nel 1220.

    Ma ecco, basta una chaikana vecchio stile, con le balconate in legno che affacciano sul viale davanti al Registan, i tagiki in zucchetto bianco e nero, il fumo di spiedini che pizzica le narici e le teiere smaltate sul tavolo, per ritrovare un po’ di armonia, per riprendere un filo e ricominciare il viaggio. Esotico, malgrado tutto. Dettagli. Un pavone che trascina la sua coda fra le aiuole della strada, come fosse in un cortile. Un altro che strilla, dal vicino dedalo di vicoli, con urla da bambino sgozzato. Un pastore con il suo gregge fermo all’angolo della strada. Sta cercando di venderlo a qualcuno, discutono a lungo, alla fine si afferrano il braccio a vicenda e annuiscono. Affare fatto, è semplice da queste parti. Le pecore transitano lentamente vicino alla griglia degli spiedini, ignare della parentela. Difficile, per me, mangiar carne a cuor leggero in un posto dove vedo gli animali da vicino. Una confezione di scaloppine sul bancone del supermercato non ha occhi, coda, muso a ricordarti che è stata un essere vivente.

    Per fortuna c’è il mercato, con la sua strabiliante varietà di verdure e di frutta. Frutta fresca e frutta candita. Di ogni tipo. Fragole, albicocche e ciliegie che sanno del loro sapore e non di nulla, come da noi. Ricordi d’infanzia. Sarà il sole, saranno le radiazioni degli esperimenti oscuri che l’Unione Sovietica regalava alle sue repubbliche centro-asiatiche, le più lontane da Mosca? Non importa. In Asia

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