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Il segreto della Mata Atlantica
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Il segreto della Mata Atlantica

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La Naturopatia incontra la medicina tradizionale brasiliana Utilissimo libro per chi voglia conoscere le proprietà delle piante utili per la propria salute descritte in modo semplice e completo. Libro indirizzato ai discenti della naturopatia. è stato scritto nell’intento di rendere più interessante la materia attraverso fantasiosi racconti di fatti accaduti in Brasile a due pajés indios, i curandeiros delle loro tribù. Il primo di questi si chiama Itagiba ed appartiene al XV secolo e la sua scienza empirica gli fa praticare un tipo di fitoterapia legata alle piante allora presenti nei boschi e tra la vegetazione di quell’epoca. L’altro dal nome Ararê, coadiuvato dal figlio Auá Tupã, studente nella Facoltà Universitaria di Biochimica, vive invece nel nostro tempo: il suo operare prende in conto le antiche conoscenze alle quali si aggiungono quelle sulle piante importate dai colonizzatori portoghesi. L’apporto delle nozioni scientifiche del figlio Auá Tupã rende più attuale la materia che trova così spiegazione in chiave moderna. Infine Embuguaçu, personaggio onirico, è l’indio di epoca molto più remota del primo che apre una visuale, impensabile ai giorni nostri, su un antico segreto nascosto nell’interno più fitto della Mata Atlantica
LanguageItaliano
Release dateSep 28, 2013
ISBN9788888278636
Il segreto della Mata Atlantica

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    Il segreto della Mata Atlantica - Learco Learchi d'Auria

    umana.

    Prefazione

    L’ autore Learco Learchi d’Auria in questo nuovo romanzo ha affrontato , in maniera veramente magistrale, lo studio delle numerose piante che la Mata Atlantica mette a disposizione di coloro che ne conoscono le proprietà e la magia.

    Ha saputo descriverne le caratteristiche e le potenzialità terapeutiche, da vero intenditore, come sa fare solo chi lascia parlare il cuore e l’intuito. Certamente la ricerca puntuale ed approfondita ha consentito all’autore di produrre un’opera di pregevole valore culturale e pratico, ottimo manuale per coloro che vogliono utilizzare i doni della natura per un uso terapeutico appropriato.

    Nei tempi antichi queste conoscenze appartenevano agli sciamani e ai curandeiros e l’autore, con brillante intuito, assegna a due indios il compito di spiegare e magicamente trasferire consigli e rimedi ai tempi nostri, facendoci comprendere come operare.

    Anche i non addetti ai lavori possono trarre insegnamenti e metterli in pratica, assicurandosi così di conservare il più a lungo possibile la salute e, nel momento del bisogno, potersi curare eliminando gli effetti tossici dei medicinali.

    Nel ringraziare l’autore per averci fornito questo utilissimo strumento di conoscenza gli auguriamo di continuare a produrre per tutti altri lavori di tale pregio.

    Elisa Savarese

    Presidente dell’Università Avalon

    Cera, una volta, un dottore che non curava

    le malattie ma si preoccupava di curare gli ammalati…

    Sembra l’inizio di una favola ma favola non è.

    L’antica scuola di questo pensiero

    si è andata via, via perdendo ed oggi si è

    protesi a curare solamente la malattia

    dimenticando che la volontà del paziente,

    a guarire, rappresenta il cinquanta per

    cento del successo di una buona terapia,

    l’altro cinquanta per cento dipende dai

    farmaci più adatti allo scopo.

    Che ogni individuo sia il prodotto dei

    propri contrasti è cosa nota.

    La conflittualità nascente dagli opposti

    che si fronteggiano pone qualche serio

    interrogativo sull’equilibrio del corpo

    e dello spirito nonché della loro armonia.

    La miglior cura è quella preventiva e

    consiste nella conquista di una vita sana

    protesa all’equilibrio di ognuno.

    Rimettendo l’ammalato al centro di ogni

    attenzione si ritorna all’antica scuola di

    pensiero di mens sana in corpore sanoed il

    tornare alle origini, a volte, non è del tutto errato.

    Dedico queste mie pagine agli studiosi

    di naturopatia che ogni giorno si trovano

    impegnati in una battaglia contro il male

    oscuro che dello stress della vita moderna

    è il prodotto peggiore.

    A questi missionari del bene per il bene

    dell’essere umano, è giusto che vada la

    riconoscenza di tutti..

    (Learco Learchi d’Auria)

    Prologo

    Quando gli era stato proposto di scrivere un trattato sulle erbe e sui prodotti naturali utilizzati, sin dall’antichità, dalle tribù indie dell’America Latina, la cosa non l’aveva mandato in visibilio per nulla ma la domanda gli era pervenuta dall’Università dalla quale dipende la Casa Editrice con la quale lo scrittore era legato da contratto. Anzi, più che una domanda suonava come un ordine perentorio e diretto.

    «Mio caro Learco, nel passato avete avuto tante idee geniali dalle quali sono nati altrettanti romanzi avvincenti ma adesso sono a proporvi una sfida!» Aveva detto la responsabile della docenza e della casa editrice che gli si era rivolta con quel suo modo manieroso, tipico dei partenopei veraci, ed aveva così continuato:

    «vivendo in Brasile avrete appreso tantissime cose e tra queste anche quelle sugli usi e sui costumi degli Indios e sul loro sistema di cura omeopatica a base di erbe, radici, foglie e cortecce nonché attraverso il contatto epidermico con fanghi, pietre e sabbie. Che ne direste di mettere queste esperienze a disposizione di tutti? Diverrebbe un libro molto interessante e con il vostro stile di scrittore quelle conoscenze antiche potrebbero divenire uno dei testi di appoggio del nostro Corso di Naturopatia. Sapete già che gli studenti di quel corso vorrebbero apprendere quanto è possibile su quelle antiche conoscenze tribali per compararle con quelle attuali del mondo farmacologico europeo.»

    Effettivamente la cosa non gli giungeva nuova. Nel corso delle conferenze che, di tanto in tanto, teneva sul Brasile ai giovani corsisti una larvata richiesta gli era giunta. Learco non ne sapeva molto di erboristeria, alchimia farmaceutica e cose del genere ed ogni volta riusciva ad eludere l’aspettativa di quei giovani portando il dialogo su altri terreni a lui più congeniali. Adesso non poteva più scappar via: si trovava intrappolato dalla Presidente che, con aria sorniona, lo stava osservando così come fa il gatto col topo prima di dare la zampata.

    Il fatto era che la Presidente, pur avendo un corpicino esile ma nervoso, sapeva imporsi con la sua personalità talmente spiccata che difficilmente le si poteva opporre un rifiuto. Era una anziana insegnante di Vico Equense che quando parlava si rivolgeva, compitamente, alle persone dando del voi. Quella del voi è una espressione di grande riguardo che, nella napoletaneità del linguaggio, si dà alle persone che più si stimano. Da tutti, nonostante avesse un cognome molto noto nella regione, era chiamata semplicemente la Preside, che stava per abbreviazione di Presidente. Quando si parlava di lei, poco mancava che ci si mettesse sull’attenti togliendosi il cappello, per chi lo portava in capo. Ciò non toglie che avesse una mentalità giovane che gli proveniva dall’aver vissuto accanto ai suoi ragazzi come amava definire le leve che preparava ad affrontare il futuro nel mondo accademico ed, anche, in quello professionale e questo fatto la rendeva molto simpatica a Learco. In qualche occasione avevano avuto dei battibecchi e più d’una volta l’anziana professoressa s’era lasciata andare, definendo Learco: «…un ragazzaccio troppo cresciuto ed impertinente». In altre occasioni aveva, invece, asserito: «voi siete, come sempre, un galantuomo… peccato che dopo di voi la fabbrica abbia cessato la produzione!» Tra il serio ed il faceto, si era instaurato uno strano rapporto fatto di stima, confidenza, affetto con un pizzico di gelosia da parte della donna, anche se mai nulla era avvenuto tra i due, che continuavano a darsi alternativamente del voi e del lei.

    «Anche questa volta la escravagista mi ha incastrato!» S’era detto Learco mentre prendeva posto sull’aeromobile che lo avrebbe riportato in Brasile.

    Escravagista era l’appellativo che Learco aveva appioppato a quella donna terribile alla quale non si era mai sentito di dire di no. Neppure a richieste, talvolta balzane, come quella di un trattatello sull’erboristeria brasiliana aveva potuto dare un diniego.

    «Come farò a scriverci su un romanzo, solamente il Cielo lo sa.» si era detto.

    Sì, perché Learco aveva deciso che se proprio doveva scrivere di erbe, indios e leggende, lo avrebbe fatto sotto forma di romanzo. Certe nozioni se inserite nel contesto di un racconto le si memorizzano meglio. Già in passato la stessa cosa era accaduta quando la Presidente gli aveva commissionato un libro sulla leggenda di Atalon, l’antica Atlantis, i cui sopravvissuti avevano fondato poi la città di Avalon dalla quale l’Università prendeva il nome ed anche una certa simbologia del logo, la Corona Navalis, legata al mare così come all’Oceano era unito il destino di Atlantide. In quell’occasione il romanzo era stato concepito con fatica ma dopo le prime pagine la penna iniziò a scorrere più veloce ed i romanzi divennero tre: una trilogia completa sul tema.

    Mentre l’aereo volava spinto dai suoi quattro motopropulsori, anche la fantasia di Learco aveva cominciato a viaggiare ma con ali differenti e già si vedeva addentrarsi nella Mata Atlantica facendosi strada impugnando un tagliente machete.

    Brasile – Stato di São Paulo, Litoral Sul Paulista - Città di Peruíbe, Giovedì 17 maggio 2012 - Casa dello scrittore Learco Learchi

    Le diciassette ore di viaggio da Napoli a São Paulo via Francoforte e poi le altre tre per attraversare la capitale in metrô, prendere l’onibus e giungere nella sua casa di Peruíbe lo avevano spossato. Si era messo subito a letto e stava dormendo profondamente cercando di riprendersi ma il suo era un sonno agitato. Molte furono le visioni che si susseguirono: tutte surreali ed improbabili.

    Mentre osservava, stupito, il ripetersi di eventi già vissuti nel proprio passato, gli apparve, materializzandosi dal nulla, un indio vestito con paramenti alquanto strani per un esponente della propria razza. Cingeva un grembiule di pelle di capretto bianco bordato da strisce di stoffa colorata di rosso ed un risvolto triangolare col vertice in basso, anch’esso con lo stesso bordo formava il disegno della lettera M. Tre rosette rosse, poste a triangolo, completavano l’addobbo di quel paramento frangiato di pendenti coccarde dorate. Una fascia gli avvolgeva la spalla destra, scendendo sul lato sinistro: era azzurra - anch’essa bordata di rosso- portava ricamati in oro alcuni simboli: tre stelle poste a triangolo, due rametti d’acacia incrociati, un compasso ed una squadra che all’interno racchiudevano una piccola M ed alla base si notavano i due simboli delle lettere J e B. In fine un pendente metallico scendeva dal vertice inferiore era costituito anch’esso da un compasso ed una squadra incrociati. Al collo portava una grande lucente collana, che pareva d’oro, lavorata a maglie incrociate ed inframmezzate da tonde medaglie, dalla quale pendeva un altro compasso ed una squadra incrociati al centro, nei quali stava la lettera G e da questa si dipartivano raggi dorati.

    «Lettere, triangoli, rosette, stelle, rami d’acacia, squadre e compassi…son tutti i simboli della massoneria che la mia memoria ha registrati tra i ricordi di gioventù: quando, in Italia, ero un Apprendista dei segreti alchemici. Sto certamente sognando!» si disse, lamentandosi, mentre si rigirava nel letto. Poi si chiese: «…ma cosa significherà questo strano sogno?» la risposta non tardò a venirgli, dalle parole che l’indio pronunciò.

    «Messaggero son, che dall’alto io vengo, notizie recandoti di Colui che è!» con queste parole esordì quell’indio, che poi aggiunse in guisa di auto presentazione: «…Embuguaçu è il mio nome, guardiano e sesto della stirpe india dei Gran Sacerdoti del Sacro Tempio sepolto nella Mata.»

    «Mata… di quale Mata stai vagheggiando?» chiese Learco, ancora sbigottito per quell’apparizione.

    «La Mata Atlantica, la tipica foresta pluviale costiera , ricchissima in termini di biodiversità.»

    «Foresta ricchissima di cosa?» chiese Learco ancora intontito dal sonno.

    «La Foresta Atlantica o Mata Atlantica si estende lungo la costa atlantica della Terra de Santa Cruz, l’attuale Brasile, dal nord dello Stato di Rio Grande do Norte, a sud di Rio Grande do Sul. Si estende nell’entroterra orientale, Paraguay e la provincia di Misiones, nel nordest dell’Argentina ed anche lungo la costa in Uruguay. Sono inclusi l’arcipelago al largo di Fernando de Noronha e diverse altre isole al largo della costa brasiliana. Isolata dagli altri principali blocchi di foresta pluviale del Sud America, la Foresta Atlantica è un mix estremamente vario ed unico di vegetazione. Le due ecoregioni principali sono quella costiera atlantica ed una striscia larga da 50 a 100 chilometri lungo la costa che copre il 20 per cento circa dell’intera regione e l’ecoregione principale dell’interno della Foresta Atlantica, che si estende attraverso le pendici della Serra do Mar nel Brasile meridionale, in Paraguay ed Argentina. Queste foreste si estendono fino a 600 chilometri verso l’interno e costituiscono la gamma più in alto sul livello del mare: a circa 2.000 metri. L’altitudine determina almeno tre tipi di vegetazione della Foresta Atlantica: la foresta di pianura, quella della pianura costiera, le foreste montane, e le praterie d’alta quota chiamate anche campi rupestri.»

    «Va bene, grazie per la lezione… ma perché mi racconti tutto questo?»

    «Te l’ho spiegato perché la Mata è una grande farmacia vegetale della quale dovrai occuparti nei prossimi mesi.»

    «Secondo te dovrei andarci?»

    «Com certeza, se vorrai scriverci su un libro! Non lo ricordi più l’impegno preso con la tua professoressa schiavista di scrittori?»

    «Ah già… il libro per gli studenti di naturopatia.» ammise Learco non troppo convinto, e poi volle aggiungere: «… ma non saprei da dove cominciare e poi so scrivere solamente romanzi e poesie.»

    «Questo è un falso problema. Puoi intessere la trama di un romanzo e la fantasia non ti manca.»

    «Quello che dici è vero ma c’è un particolare: non ci capisco un’acca di erbe, foglie, cortecce e radici.» replicò lo scrittore.

    «è per questo motivo che Lui mi ha mandato per dirti che dovrai incontrare un Pajé curandeiro.»

    «Dove lo trovo un tipo simile?»

    «Sei tonto o lo fai? Qui vicino, tra Peruíbe ed Itariri, c’è una località chiamata Bananal dove è situata l’Aldeia in cui vivono gli indios… è lì che lo potrai assumere come guida.»

    «Dovrei assumerlo?»

    «Sì, si chiama Ararê e già che ci sei, assumi anche il figlio, Auá Tupã-cunun: ele estuda na faculdade de bioquímica, ma puoi chiamarlo, per brevità, come fan tutti Auá Tupã. Non ti costeranno molto e ti saranno utilissimi con l’esperienza degli Antichi Padri e la conoscenza della scienza moderna.»

    Dopo queste parole l’apparizione svanì così come si era presentata dal nulla.

    Brasile – Stato di São Paulo, Litoral Sul Paulista - Città di Peruíbe, Venerdì 18 maggio 2012 - Casa dello scrittore Learco Learchi

    Quando lo scrittore aprì gli occhi, il sole era già alto nel cielo ed i suoi raggi entravano nella camera da letto trafiggendo le persiane accostate.

    La giornata trascorse veloce tra il lavoro di riordino della casa e quello del lavaggio della biancheria. Learco pareva non avesse fretta di iniziare il nuovo romanzo incentrato sui verdi segreti della Mata Atlantica, anche perché stava sentendo i fastidiosi sintomi di una colica che la renella, talvolta accumulata nel calice del rene destro, stava causandogli.

    Gli sovvennero le ultime parole udite in sogno e decise di recarsi a Bananal, nell’aldeia indigena. Una volta giunto chiese senza indugio di Ararê, né ebbe il dubbio sull’esistenza di quella persona che lo raggiunse poco dopo nel fabbricato adibito anche a reception degli ospiti.

    Ararê era un indio di circa cinquant’anni con capelli scurissimi, tarchiato e non molto alto. La sua conoscenza delle proprietà fitoterapeutiche dei prodotti della Mata gli aveva avvalso il diritto di esser considerato il pajé curandeiro della propria tribù.

    Dopo le rispettive presentazioni l’indio si mise ad osservare il fondo degli occhi di Learco e se ne uscì con una frase alquanto strana per lo scrittore.

    «Ewè, njè Ogun njè. Ogun ti ojè, Ewè rè ni kopè!»

    «Chiedo scusa ma non ho capito nulla.» rispose Learco.

    «è un detto che ho appreso da un curandeiro negro. è in lingua yoruba che traduco: le foglie funzionano se la medicina funziona, ma se la medicina non funziona, è perché è sbagliata la foglia

    «Di quale foglia stai parlando?» chiese Learco che ancora non aveva capito.

    «Del farmaco che stai prendendo ma che non ha risolto il tuo problema. L’ho capito scrutando il fondo dei tuoi occhi: hai dell’acido urico nel sangue che si trasforma poi in cristalli: una finissima sabbia che va nei reni.»

    Learco restò esterrefatto. Erano anni che assumeva pastiglie di allopurinolo contro l’uricemia causata dal consumo eccessivo di carne. Il farmaco gli evitava l’attacco di gotta ma non la fastidiosa sabbiolina che gli si formava nei reni.

    «Sì, in effetti ho qualche problema dovuto ad un farmaco che risolve solamente in parte causando degli effetti collaterali. Quando succede devo, per diversi giorni, bere enormi quantitativi d’acqua pura in modo da espellere i cristalli formatisi nelle vie urinarie. Facendo questo ho però delle fortissime coliche. Sono dolori lancinanti molto simili a quelli delle partorienti.»

    «Uhmm… è come immaginavo: hai bisogno di un forte diuretico naturale.»

    «Quel’è, per favore dimmi dove posso trovarlo.»

    «Foglie di abacate… devi farne una tisana in quattro litri d’acqua, le trovi sugli alberi ad ogni angolo di strada…» sentenziò il curandeiro indio che poi aggiunse: « …devi bere il liquido del decotto che è amarissimo. Devi ingollare i quattro litri tutti di seguito e poi siediti sul vaso e vedrai che di lì a poco farai tanta pipì ed espellerai i piccoli cristalli di acido urico solidificato. Sono quelli che causano i dolori addominali che senti.»

    La validità dei consigli avuti nel primo incontro iniziò a convincere Learco sull’utilità di quella nuova amicizia. Forse quel sogno non era giunto per caso.

    Nota sulle ricerche fatte dall’autore su l’Abacate

    (o Avocado che dir si voglia)

    Abacate è la pseudonimo di avocado (Persea americana), un albero genealogico di laureáceas originario del Messico e Sud America , oggi ampiamente coltivato nelle regioni tropicali, comprese le isole Canarie e Madera. L’avocado si adatta più facilmente su terreni leggeri, profondi, drenati e leggermente acidi. Le migliori condizioni climatiche si trovano in regioni con precipitazioni di circa 1200 millimetri all’anno. Ne sono note oltre 500 varietà, originate da tre fonti diverse: guatemalteca, delle Indie Occidentali e messicana. La parte commestibile della polpa è giallo-verde, consistenza morbida, che coinvolge semi di grandi dimensioni. Ha più del 30% di grassi è ricca di zuccheri e vitamine e possiede uno dei più alti livelli proteici . Ha anche quantità utili di ferro, magnesio e vitamine A, C, E e B6. Si consuma da sola o in insalate condite con salse, come la guacamole piatto della cucina messicana , o come dessert, panna montata con il latte, lo zucchero e polvere di cannella in Brasile , oppure con zucchero e limone in Mozambico. La coltivazione dell’avocado si è diffusa prima della conquista spagnola, ma ricevette l’attenzione di orticoltori solamente nel XIX secolo . Dal nome del frutto, Nahuatl in lingua azteca, è derivato quello di ahuacatl (che significa testicolo in analogia con la forma), tradotto in spagnolo con la parola avocado. L’avocado è un frutto arrotondato fatto a pera, il peso medio varia da di 500 a 1500 g. La sua corteccia è di colore variabile dal verde al rosso scuro al marrone, viola o nero. Le sue due varietà principali sono quello Forte (verde) e Hass (viola). L’ albero raggiunge i 15 o 20 metri e cresce meglio in climi caldi.

    La composizione del frutto (valore nutrizionale per 100g) è la seguente:

    acqua 73,23 g; totale dei rifiuti 1,58 g; fibra 6,7 g; valore energetico 160 kcal; proteine 2,00 g; grasso 14,66

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