Benzine
By Gino Pitaro
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Book preview
Benzine - Gino Pitaro
mago
Grisù al contrario
Rimasto però con il megafono in mano non so cosa dire, cosa esprimere. Farsi portatore delle istanze dell’università, contribuire nei dibattiti, riuscire a mediare tra le fazioni degli studenti, mi aveva posto agli occhi degli altri un po’ come protagonista. E ora, capeggiando la folla davanti al palazzo del potere, faccio scena muta. Tutti i discorsi fatti, gli appunti, i dibattiti, le proposte, i programmi di intesa con gli altri atenei e le altre comunità di universitari diventano un grande libro bianco.
Ho l’altoparlante in corrispondenza delle labbra. Il mio sguardo spazia nel vuoto riflessivo, incerto.
È Guido, uno studente estremista – di cosa non si è mai ben capito fino in fondo – a togliermi d’impaccio. Mi si avvicina con fare deciso, invitandomi a lasciargli il megafono e mi dice: «Luigi, dai, se non te la senti inizio io», e comincia quindi con un «Siamo qui oggi, per gridare al mondo che siamo incazzatiiii…».
Ci rimango male, insomma non sono stato capace di dar voce alla protesta, io che voce ero stata, non nei comizi, ma nelle tavole rotonde, nei dibattiti, tra i miei colleghi, tra gli assistenti del professore, valvassino tra i valvassini di un sistema arcaico e medievale, il quale determina le sue nomine in base a convergenze d’interesse, clientele e parentele. «Come fa uno Stato a puntare su se stesso se non crede nei giovani, nell’universitaaà, nella ricercaaaa, nella culturaaa!».
Scendo un gradino di quel podio di legno, e voglio nascondermi, mimetizzarmi. Lo faccio passando dietro le spalle di Elvira, una collega con i capelli cespugliosi e stopposi, grassa, che ha sempre l’alito cattivo, la quale con la coda dell’occhio mi guarda con un po’ di dispiacere, voleva che fossi io a parlare. Di certo è rimasta delusa.
«Il parlamento ha deciso di tagliare altri fondi, di distruggere l’universitaaà! Ma i soldi per le scuole private, certe scuole private, li trova sempreee! Noi oggi siamo qui per dire che non siamo d’accordo, che lotteremo e occuperemo anche il parlamento se ci negano il diritto allo studiooo, alla formazioneeee al lavorooo…» e via i primi applausi e i rumorosi consensi.
Sì ma, che cacchio, cosa penseranno gli amici venuti qui. Non che siamo un’organizzazione con dei capi, ma alcuni di noi vengono considerati delle guide, insomma, mi dispiace per quello che è– anzi non è – successo, proprio perché ho visto in questi mesi riporre una certa fiducia in me, anche in me. Ora, non è capitato nulla di grave, però…
«Questi signori che stanno qui dentro non sono nulla senza i nostri voti, quelli dei cittadini, quelli degli studenti. E a noi devono rendere conto, perché l’università è l’avanguardia della societaaà! Se non ci ascoltano noi saremo il fuoco che li divoreraaà! Faremo lotta non solo nell’universitaaà, ma la porteremo tra i precariii, gli impiegatiii, gli operaiii!».
A questo punto, per non destare sospetti anche io mi risolvo ad inneggiare a ciò che il compagno d’università con una bandana da pirata urla al megafono.
Giusy mi si avvicina e dice: «Ma Luigi, mi aspettavo che avresti parlato tu…».
«È che mi sento poco bene, è giusto che il movimento dia più spazio a tutti».
Lei mi guarda come se il non parlare mi avesse stigmatizzato come traditore. Insomma, la prima cosa è la protesta, e questa sta andando avanti, però mi giungono delle occhiate di lieve disappunto, forse anche dispiacere, soprattutto dalle ragazze.
Intanto Guido cala il primo asso: «Diceva Italo Calvino che un Paese che non punta sulla scuola non lo fa per interesse economico, ma lo fa per garantire la cricca di potere e creare più distanza fra chi ha i mezzi per emergere e chi non li ha!». E delirio di consensi.
La manifestazione vede altri contributi e alla fine vengono fissati i paletti del discorso, che prevedono un’occupazione di massa sia nelle piazze che negli atenei se il governo non mette mano sull’emorragia economica e sociale dell’università, diventata una vacca magra e malata dalla quale mungere poco latte da destinare comunque altrove.
Me ne vado mogio mogio, defilandomi dall’invito di Giusy a prendere una cioccolata calda con Oscar e Verena. Voglio stare solo.
Mentre prendo il 492 per arrivare alla stazione tiburtina mi sento parzialmente sollevato.
Non è vigliaccheria. È che detesto sentirmi una specie di capopopolo.
Un tizio nero mi si avvicina mentre ascolto Juno Reactor a palla con gli auricolari, indicandomi con la mano qualcosa all’altezza del polso, capisco quindi che mi chiede l’ora.
«Sono le sette e mezza» gli dico.
No, non è nel mio stile. Anche io voglio cambiare lo stato delle cose, ma desidero farlo dalla mia dimensione.
L’africano ancora mi fa un cenno e dice qualcosa, quindi gli indico sette con le dita, e approssimando la mezza facendo un taglio con la mano.
Quale sia è poco chiaro, però mi sento in panni sbagliati nel ruolo di protagonista politico, anche se solo di un movimento studentesco.
Il senegalese insiste (porta una felpa del Senegal sotto una giacca a vento malmessa, sillogismo discutibile). Gli mostro l’orologio, in modo che possa vedere lui stesso l’ora.
Insomma, provo disagio semplicemente perché queste sono le mie cause, ma il mio posto?
Di nuovo l’uomo richiama la mia attenzione. A questo punto mi tolgo le cuffiette, e lui mi dice: «Amico, ho fame, mi puoi dare qualcosa?»
«Ah, scusa, non ti avevo sentito. Aspetta, ho degli spicci». Mi frugo nelle tasche e gli do settanta centesimi. Lui se li fissa sul palmo della mano, indeciso se tale fatica per farsi dare qualcosa a questo punto debba fruttare un risultato maggiore oppure se debba accontentarsi. Opta per questa seconda soluzione.
Le idee però mi schiariscono un po’ il giorno dopo con Verena. Dopo la lezione di filologia romanza, andando insieme al cineclub a vedere una pellicola di David Lynch, mi dice con rimprovero: «Perché ti sei defilato? Tutti si aspettavano parlassi tu»
«Vè, quello che stiamo facendo lo condivido in pieno… ma non cerco spazi e potere in questo. Non voglio essere e sentirmi un Masaniello, anche se per motivi giusti»
«Ma il movimento ha bisogno di te»
«E io del movimento! Tutti abbiamo bisogno di tutti, ma ad ognuno il suo ruolo, e io non sono adatto a tenere comizi.
Mi sono sentito un pesce fuor d’acqua»
«Vuoi dire che ti chiami fuori?»
«No, voglio dire che mi chiamo dentro, ma desidero farlo secondo quello che sono. Chi sono non so, però mi piace l’idea di contribuire, ma non fa per me mettermi alla testa del movimento»
«Capisco» dice Verena con l’aria di chi non approva troppo, ma poi non ci pensa più, rassicurata dal mio impegno e dalla nostra sintonia.
Verena fa sempre strani discorsi sull’essere, dice che «se uno è alto quanto un tappo però si sente un giocatore di pallacanestro, lo è lo stesso perché è la sua essenza; un cieco a cui piace fotografare è fotografo perché lo è dentro; se tu sei ignorante come una capra ma pensi di essere un professore, lo sei perché ti senti di esserlo»; e io alla sua insistenza sul mio «essere un leader senza sapere di esserlo», dentro il cineclub, mentre prendevo gli inviti gratuiti per l’incontro di Spike Lee all’Auditorium, rispondo: «Sì?!? Do the right thing! Fa’ la cosa giusta! Lo dice anche il suo primo film famoso, e io faccio la mia, di cosa giusta!».
«Tu dovresti fare il regista, vedi un sacco di film»
«Mah, c’è sempre il megafono di mezzo però, è un pericolo per me»
«Sì, ma se fai il regista non fai comizi»
«Il mondo è un grande comizio, come dice mì zio».
Lei rimane sempre interdetta, non sa se le mie superficiali spiritosaggini la prendono in giro. E un po’ sì, lo confesso, Verena è deliziosa. Rotonda ma dalla carne tonica, ha la faccia paffuta e dei bei lineamenti, i capelli naturali biondo scuri con una pettinatura non tanto di moda e neppure in disuso: ricci, lunghi e sciolti. A me piacciono. La nostra è un’amicizia che forse è qualcosa di più. Non ci siamo dati limiti, ci stiamo frequentando senza particolari scopi, se non quelli di non rovinare il nostro rapporto.
La proiezione viene funestata da una lite, perché non sopporto le persone che parlano ad alta voce in sala, usano lo smartphone, parlano della partita di calcio. Già non ho mai digerito il crunch crunch dei pop corn e delle patatine, quindi mi alzo e mi rivolgo a un tizio che parla al cellulare: «Senti, penso sia interessante quello che hai da dire, però noi vorremmo vedere il film, magari se vai fuori e quando hai terminato rientri è meglio»
«Cosa? Ma stai scherzando? Per due parole ti disturba?
Ma se sei due file avanti!»
«Per favore»
«Scusa, capisci che sei maleducato? Sto parlando!» «Sì, ma siamo al cinema».
Il tizio si mette in piedi e quasi mi sfida, poi si sentono vari «silenzio!», «andate fuori!» e penso che forse sarà necessario regolare i conti in un modo pulp.
Alzo quindi la voce, come non avevo fatto al comizio: «Qui c’è gente che viene a vedere il film, io voglio vedere il film e sentire i dialoghi!» Verena mi guarda preoccupata e mi sussurra di lasciar perdere. Si accendono le luci, la proiezione si interrompe, e finalmente il tizio con un «vabbò, lasciamo perdere, sennò finisce male per te. Dai, guardati ’sto cazzo di film» se ne va.
Con l’ammirazione di molti riprendo il mio posto. La rivincita del comizio mancato. Usciti dal cineclub le chiedo di prendere del materiale per me all’università. Lavoro anche in un call center nel quartiere di Torre Spaccata, ma non lo dico in giro. Non è politically correct l’idea che uno fa il militante studentesco e poi risponde al telefono, o peggio, chiama proponendo la vendita di bulbi dei tulipani d’Olanda – la mia prima campagna. Oh, sia ben chiaro, nessuna incompatibilità, ma avevo capito che questo danneggiava la percezione che avevano gli altri studenti di me, leader combattente, che ti vogliono lontano dalle cose del mondo come un attivista gandhiano, idealista come Guevara, grande come Gulliver – anche se io non ricordo nessuno dei tre con il megafono, del terzo non ci giurerei.
Ubi thermae ibi salus, ibicall center
Dove ci sono le terme c’è la salute, questa è l’attribuzione del luogo dove abito, fissata ai posteri sulle t-shirt e nelle pubblicità murali. Una volta raggiunta la stazione tiburtina mi aspettano venticinque-trenta minuti di FR2, la linea che collega Bagni di Tivoli a Roma. Qualcuno la chiama anche metropolitana regionale, ché sembra molto più figo, ma ci sono dei convogli che assomigliano a vecchi scaldabagni elettrici, e sono rivestiti di tartaro, umori, sudori, esalazioni dei pendolari. Sì, perché Bagni è una popolosa frazione di pendolari, di immigrati, di rumeni. Noi qui non consideriamo