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Cibo, religione e diritto. Nutrimento per il corpo e per l'anima
Cibo, religione e diritto. Nutrimento per il corpo e per l'anima
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Ebook871 pages12 hours

Cibo, religione e diritto. Nutrimento per il corpo e per l'anima

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"Dimmi cosa e quando mangi e ti dirò in cosa credi". Non c'è confessione religiosa che non presenti, in forma più o meno articolata, un proprio complesso di regole alimentari e ciò a conferma del forte legame esistente tra cibo e fede. Le scelte alimentari contribuiscono a definire l'identità religiosa dei fedeli: nutrimento per il corpo e per l'anima. Adeguare la dieta personale alle regole alimentari stabilite dalla propria fede è una forma di esercizio del diritto di libertà religiosa e in quanto tale è oggi tutelata nei paesi democratici. Non mancano però i problemi che questa tutela può generare, specie nelle società a forte presenza multireligiosa. Quali regole alimentari religiose possono essere tutelate? Come queste scelte interagiscono con le norme civili? Lo Stato deve garantire menù e marchi alimentari religiosi? Esiste un mercato alimentare religioso? Il volume affronta questi ed altri interrogativi attraverso la lente del diritto. Partendo dalla ricostruzione delle regole alimentari delle principali confessioni religiose, analizza forme e modalità di tutela dell'identità alimentare religiosa offerte dall'ordinamento giuridico italiano, in alcuni dei principali paesi europei e nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 15, 2016
ISBN9788867353057
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    Cibo, religione e diritto. Nutrimento per il corpo e per l'anima - Antonio G. Chizzoniti

    indagine

    LUCIANO MANICARDI

    Per una teologia alimentare

    SOMMARIO: 1. Aspetti antropologici. 2. Mangiare come atto sensoriale totale. 3. Il ‘proprium’ del senso del gusto. 4. Dalla reazione gustativa alla relazione interpersonale. 5. Cibo, gusto e identità. 6. Cibo e comunione. 7. L’eucaristia: mangiare il corpo del Signore.

    1. Aspetti antropologici

    Per andare alla radice dei rapporti tra cibo e religione, e dunque anche per costruire una riflessione fondata sulla dimensione teologica del cibo e dell'atto di mangiare, occorre sostare su alcune dimensioni antropologiche del cibo e riflettere sulla valenza simbolica dell’atto di mangiare. L'atto di mangiare è un simbolo di potenza straordinaria e come tale sentito in tutte le culture e radicato nella più antica storia dell'umanità, quando l'uomo doveva trovare cibo raccogliendo o cacciando e evitando di divenire lui cibo per altri. Per l’uomo il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo. Il suo legame con la vita è essenziale da quando il bambino è feto nel ventre materno fino alla morte. L’atto di mangiare è rinvio all’attività culturale dell’uomo: implica il lavoro, la preparazione del cibo, la socialità, la convivialità. Infatti, l’uomo mangia insieme con altri uomini e il mangiare è connesso a una tavola, luogo primordiale di creazione di amicizia, fraternità, alleanza e società. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano anche sorrisi e sguardi, parole e discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. Il mangiare implica dunque anche la creazione culturale più straordinaria: il linguaggio. Legato com’è all’oralità e al desiderio, l’atto di mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale dell’uomo. È dunque un simbolo antropologico di pregnanza unica che coglie l’uomo nelle sue profondità più intime e nascoste e lo situa nel legame con la terra, con il cosmo, con la polis, con la società, con il mondo. Non esiste per l’uomo un assenso più totale a tutto ciò che lo circonda dell’atto di mangiare. È il modo umano di dire il proprio sì, perché è nello stesso tempo il sì del corpo e dell’anima … Ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone di mondo che accettiamo di mangiare¹.

    L’atto di mangiare rinvia l’uomo al suo essere corpo sia come bisogno che come legame con l’universo: mangiando, infatti, noi assimiliamo il mondo in noi e lo trasformiamo. Il mangiare inoltre ricorda all’uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte. In alcune visioni bibliche (cf. Is 25,6-8)² la sparizione della morte è connessa a un sontuoso banchetto imbandito da Dio, au-tore della vita e vincitore della morte. Il rapporto del cibo con la vita e con la morte, fornisce il sostrato antropologico più elementare per la sua elaborazione religiosa e teologica (si pensi al fenomeno del cibo per i morti o all'usanza di mangiare in prossimità del tumulo presenti in diverse tradizioni religiose e popolari). Né si dimentichi che nel cristianesimo l'eucaristia è stata chiamata farmaco di immortalità. In una visione religiosa il rapporto antropologico cibo vitale - morte inevitabile, può essere superato.

    Il cibo va anche preparato. Se tante religioni sottolineano la pratica virtuosa del dare da mangiare, questo implica ancor prima il far da mangiare, il cucinare. Il fare da mangiare è arte di passaggio dal crudo al cotto, dalla natura alla cultura; è lavoro, e può divenire capolavoro. E cucinare per qualcuno equivale a dire: Io voglio che tu viva, Io non voglio che tu muoia. Far da mangiare è la più concreta manifestazione di amore. E di amore divenuto quotidianità. Se tra gli umani esiste un amore incondizionato questo è quello della madre nei confronti del proprio figlio e la madre non solo dà il cibo, ma è il cibo per il figlio, perlomeno fino allo svezzamento. Il rapporto con la madre ricorda che chiunque venga al mondo fa esperienza di altri che gli danno da mangiare e che ogni cucciolo d’uomo deve imparare gradualmente a nutrirsi da sé, a mangiare da solo. Ma ricorda anche la dimensione affettiva del mangiare. Léo Moulin ha scritto che noi amiamo mangiare ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare, che a noi piace ciò che piace a lei: Non solo mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare, ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, proprio perché mangiamo con i nostri ricordi … Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, così conditi di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita³.

    Mangiare è un’arte: sa mangiare chi è all’altezza della propria umanità. Gli animali si pascono, l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare⁴. Ma mangiare richiede tempo e capacità di relazione e comunione. La cultura del fast-food esige che si mangi in fretta e da soli, in anonime mense, in piedi in uno snack bar, o utilizzando pasti preconfezionati e cibi surgelati. Perché anche il preparare da mangiare richiede tempo. In una cultura della globalizzazione nemica del tempo e dello spazio, che erode i limiti e abbatte i confini, si tende a velocizzare i tempi di preparazione dei cibi e a staccarli definitivamente da un territorio, da una dimensione regionale per omologarli e renderli disponibili a New York come a Hong Kong, a Milano come a Mosca. Il cibo poi spesso non è ricevuto, ma preso, scisso da una relazione con chi lo prepara e lo prepara per me. Impersonalità, individualismo, fretta, e anche perdita del gusto, stanno uccidendo l’arte del mangiare e del fare e dare da mangiare. Sintomi di questa scissione del mangiare dal suo fondamento umano e relazionale sono le disarmonie e le patologie in rapida crescita nei paesi occidentali, in cui comunque vi è abbondanza di cibo e di denaro per acquistarlo: obesità, anoressia, bulimia, disturbi alimentari di vario tipo. Nella carenza come nella sovrabbondanza di cibo, si gioca l’umanità delle persone e la loro dignità.

    2. Mangiare come atto sensoriale totale

    Per entrare nella dimensione spirituale insita nel mangiare occorre analizzare il gusto nella sua materialità. Se il gusto è la capacità di discernere i sapori degli alimenti, l’atto di mangiare è un atto sensoriale totale, che investe tutti i sensi⁵. Per valutare un cibo entrano in gioco diverse modalità sensoriali in bocca: gustativa, tattile, termica. La bocca, questo organo così simbolicamente importante perché soglia tra interiorità ed esteriorità, attua la prova della verità del cibo facendo non solo passare il cibo dall’esterno dell’uomo alla sua interiorità fino a ingerirlo e digerirlo, ma anche cogliendo l’interiorità del cibo stesso, facendolo passare dal suo aspetto esteriore alla sua interiorità e questo attraverso la sua distruzione, la sua masticazione. Ora, l’opera di gustare il sapore di un cibo richiede l’alleanza dei sensi.

    L’olfatto: l’aroma dei cibi, percepito per via retronasale, è essenziale. Già il profumo ci invoglia o ci respinge. L’olfatto è il gusto preliminare. Con l’odorato, noi già pregustiamo il sapore del cibo. Possiamo dire che si mangia anche con il naso.

    La vista: il modo in cui un cibo è presentato e una vivanda è servita in tavola è decisivo. Vi è un rapporto diretto fra apparenza e appetenza. Il giallo solare di un risotto allo zafferano è una festa degli occhi. Lo sguardo anticipa il sapore del cibo attivando le esperienze anteriori che la persona ha memorizzato e mettendo in moto l’elaborazione simbolica del reale. Diversi esperimenti hanno mostrato che cibi squisiti a cui si è data forma di animali o di altre sostanze sentite come repellenti hanno suscitato reazioni di disgusto e rifiuto di assaggiarli. Versare un vino raffinato in un bicchiere di metallo (che non consente neppure di valutare i riflessi rubino o violaceo del vino) o servire una deliziosa portata su un piatto di plastica fa perdere ai cibi buona parte della loro attrattiva. Stiamo già ammiccando al gusto come metafora, al gusto inteso come senso del bello. Nella cucina giapponese i servizi di legno laccato sono preferibili a quelli in porcellana perché gradevoli al tatto, non pesanti, non rumorosi. Per Junichiro Tanizaki la cucina giapponese la si guarda e la si medita mentre la si gusta, a partire dalla scelta delle stoviglie: Chi tiene tra le mani una stoviglia di porcellana la sente fredda e pesante. Temibile conduttrice di calore, è scomoda da maneggiare se la si riempie di cibi caldi. Urtata, rintocca sinistramente. Al contrario, i servizi di legno laccato sono leggeri, gradevoli al tatto, delicati, non rumorosi. La minestra la si serve ancora nelle ciotole di legno laccato: esse hanno virtù che mancano a quelle di ceramica o di porcellana⁶.

    Il tatto interviene valutando la consistenza dei cibi, molli o duri, cremosi, capaci di sciogliersi in bocca; la stessa sensibilità termica della bocca è importante per apprezzare il gusto di un cibo. L’antropologo Leroi-Gourhan ha scritto che il gusto gastronomico è legato in linea generale al sapore e alla consistenza, e a volte più alla seconda che al primo⁷.

    L’udito. Esiste la sonorità di un alimento: il carattere croccante di un’insalata o delle fette biscottate o del pane appena sfornato. Ma poi il senso dell’udito è implicato nel fatto che antropologicamente si mangia insieme e la tavola è luogo di scambio, dunque di discorso. A tavola non si scambia solo il cibo, ma anche la parola.

    In sintesi: la bocca è istanza di frontiera tra dentro e fuori: dà luogo alla parola, al respiro, ma anche al sapore delle cose e il gusto non può essere dissociato da questa matrice nella quale si mescolano i diversi sensi⁸.

    3. Il ‘proprium’ del senso del gusto

    Il gusto esige di introdurre dentro di sé una particella del mondo. Suoni, odori e immagini hanno origine fuori di noi, mentre il sapore si sprigiona in noi. Il gusto compare in noi, nella nostra bocca, nel momento in cui si mescola con la nostra carne e vi lascia una traccia sensibile. Vi è un rapporto stretto fra gusto e interiorità. E questa è la base antropologica di tanti usi culturali e religiosi di ingestione di cibi, anche di carne umana, che vengono assimilati, interiorizzati, divenendo parte costitutiva di colui che mangia. La sostanza mangiata si transustanzia nel mangiante, ne accresce la potenza, ne opera una trasformazione. Vi faccio notare come il materialistico l'uomo è ciò che mangia (Feurbach) si affianca stranamente al teologico metabolismo eucaristico che consiste in questo: una volta che io ho mangiato il pane, corpo di Cristo e ho bevuto il vino, sangue di Cristo, io sono trasformato nel Corpo e nel Sangue di Cristo a tal punto che non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me (cf. Gal 2,20). Sant'Agostino afferma: "Se vuoi comprendere [il mistero] del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: 'Voi siete il corpo di Cristo e sue membra' (1 Cor 12, 27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi" (Discorso 272).

    Come gli altri sensi anche il gusto è un’emanazione dell’intero corpo ed è radicato nella storia personale di ciascuno, ma esso è un senso della differenziazione, che deve cioè discernere buono e cattivo, dolce e amaro, salato e acido, ecc. In Occidente, infatti, i sapori base sono quattro (salato, dolce, acido, amaro), ma in realtà il numero dei sapori è infinito⁹ e certamente nella storia umana vi sono dei cibi scomparsi e così anche dei sapori. Il gusto non deve solo discernere ciò che è commestibile o no, ma anche la qualità, le sfumature del sapore. Il gusto, inoltre, è sempre totalmente coinvolto nella percezione: la sensazione gustativa è una forma di conoscenza e un’affettività all’opera.

    Ora, la funzione prima del gusto è quella di permettere all’uomo di distinguere il buono dal cattivo, ciò che si può mangiare o ciò che si deve rigettare. In materia di alimentazione il giudizio di valore non è facoltativo, ma è necessario perché ne va della vita o della morte di colui che mangia. La distinzione di buono e cattivo insita nel gusto nella sua dimensione fisiologica e biologica apre il discorso verso una distinzione che si pone sul piano dei valori e che attiene la sfera più propriamente etica. In ogni caso, studi specialistici mostrano che il gusto, dunque il mangiare, ha un’influenza determinante nel processo di formazione della persona umana.

    4. Dalla reazione gustativa alla relazione interpersonale¹⁰

    Il bambino viene nutrito in funzione dei gusti dei suoi genitori, a loro volta segnati dal gusto della società e del gruppo umano in cui vivono. Secondo gli studi e le osservazioni sperimentali di Matty Chiva, in origine la sensazione gustativa è nient’altro che un fenomeno fisiologico, il riflesso gustativo-facciale: fin dai primi momenti di vita il neonato reagisce con una mimi-ca facciale alle stimolazioni sapide. E la reazione differisce a seconda che il sapore sia salato, zuccherato, amaro o acido. La mimica all’origine non comporta una connotazione emozionale, ma l’acquisisce rapidamente perché il sociale (l’ambiente circostante, soprattutto la madre) capta il fisiologico (appunto il riflesso gustativo-facciale) e arriva a mutarlo in psichico. Il fisiologico ha dunque un riflesso sociale, comunicativo, che diviene poi atteggiamento psicologico del bambino. Chi sta intorno al bambino ne capta le reazioni, le mimiche e le interpreta (la mamma nota che un certo cibo gli piace o non gli piace, è buono o è cattivo). Così chi sta intorno al bambino si adatta alle sue reazioni e non gli dà ciò che non gli piace; analogamente, il bambino impara a utilizzare le sue mimiche per comunicare con il suo entourage, per fargli capire le sue preferenze, per manipolarlo. Lo studio dei riflessi gusto-facciali oltrepassa il solo livello del gusto alimentare e riguarda il farsi della persona: dal riflesso gustativo-facciale inizia un cammino verso la comunicazione orientata. Si disegna il passaggio dalla reazione gustativa alla relazione interpersonale. La sensazione gustativa con la sua doppia connotazione di informazione e di emozione si inscrive nel contesto relazionale e sociale dell’individuo. Questo è decisivo per la costruzione della personalità umana. Naturale negli animali, questo senso del buono e del cattivo è negli uomini legato alla cultura. I viaggiatori ben conoscono le variazioni etniche e regionali dei gusti. E dei cibi sentiti come disgustosi. E noi vedremo come questa dimensione comunicativa sia nelle religioni orientata alla comunione. Si pensi, in ambito cristiano, all'eucaristia.

    5. Cibo, gusto e identità

    Il modo di mangiare, cucinare e gustare è un prodotto della storia, del modo in cui gli uomini si collocano nella trama simbolica della propria cultura. Situato all’incrocio fra soggettivo e collettivo, il gusto attiene anzitutto alla sfera della percezione dei sapori, ma supera questo ambito e diviene possibilità di esprimere una preferenza nei confronti di oggetti e di attività. Diviene attività spirituale. Non a caso quella raffinatezza rara che è il buon gusto, l’aver gusto, fa riferimento proprio a questo senso. Dall’arte di discernere i sapori si passa all’arte di riconoscere un quadro, di apprezzare un testo letterario o un’opera artistica di valore. Si passa alla capacità di discernere il bello. Il gusto definisce il piacere di vivere. Si parla di visione del mondo, perché non parlare anche di degustazione del mondo¹¹? A seconda delle culture e delle modalità con cui gli uomini si adattano ad esse, gli individui sviluppano sensibilità gustative legate a specifiche preferenze culinarie. Il fatto che il giudizio sia una componente del gusto, dice di una capacità di interpretazione dei sapori a sua volta segnata dall’appartenenza a una determinata cultura e a una certa società e dalla storia personale di ciascuno. Infatti, i sapori che ogni individuo percepisce sono imbevuti di affettività. Nel gustare un sapore emergono ricordi e affetti, emerge una storia passata che non è solo dietro, ma dentro di noi. Il gusto alimentare è memo-ria in atto dell’infanzia che la storia personale ha poi arricchito o affinato. Gaston Bachelard confessa: Questo bicchiere di vino chiaro, fresco, secco, riassume in sé tutta la mia vita di campagna. Si crede che io beva: io ricordo¹².

    Magistrale l’analisi del rapporto gusto-memoria nel celebre passaggio della Recherche in cui Proust descrive le sensazioni provate assaggiando "uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Petites Madeleines, che sembrano modellati nella valva scanalata di una conchiglia di san Giacomo intinta in una tazza di tè. Il gusto suscita un piacere e una gioia potenti ma la cui verità, scrive Proust, non è nella bevanda, ma in me. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio spirito" ed ecco che emergono dal profondo i ricordi del passato, a Cambray, quando la zia Léonie gli offriva la madeleine intinta nel tè. Prosegue Proust: Quando, di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo¹³.

    L’influenza dei cibi mangiati nell’infanzia è decisiva nel formarsi del gusto della persona. Il bambino finisce con l’apprezzare i piatti della cucina familiare, quindi evolve nel gusto e nelle relazioni e impara a gustare sapori che prima gli ripugnavano per emulare i ragazzi più grandi, per adattarsi al cibo della mensa scolastica, ecc. Il giovane muta i suoi gusti per adattarsi al suo ambiente sociale: vi è una socializzazione alimentare. In questo senso vi è anche una rottura tra figli e genitori circa i gusti alimentari, soprattutto dato il gusto oggi imperante presso i giovani del fast food. Si pensi poi al junk food (cibo spazzatura): alimenti o bevande ad alto contenuto calorico e basso valore nutrizionale, cibi ricchi di coloranti, conservanti, sostanze chimiche (merendine, hamburger, caramelle, bibite sintetiche) e poveri di vitamine, minerali, aminoacidi, minerali e fibre. La generazione del fast food sta perdendo la raffinatezza del gusto. Il cibo deve pizzicare, pungere (ketchup), le bevande sono gassate e molto zuccherine. Anzi, non solo i giovani, ma un po’ tutti, visti i prodotti alimentari che ci si trova sui bancali dei supermercati e la disaffezione al far da mangiare. Si pensi alle pesche o alle albicocche oggi così belle da vedersi sui banchi del mercato e così insapori al gusto: L’albicocca non ha più altro gusto se non quello della parola che formuliamo per dirne il nome¹⁴.

    Così si dà ragione a chi afferma che la tavola incarna il peggio della globalizzazione perché non si mescolano più i sapori, ma li si riduce a un minimo comune denominatore che ne consente la diffusione generalizzata. Ovunque nel mondo lo stesso prodotto ha il medesimo sapore e la stessa consistenza¹⁵. Lo specialista di antropologia dell’alimentazione Claude Fishler parla di OCNI, sigla che significa Oggetti Commestibili Non Identificati. Assistiamo qui a un momento di quella rivoluzione per cui se nella vecchia Europa il pasto comportava un tempo e uno spazio ritualizzati, protetti dal disordine e dalle intrusioni, ora questo è cancellato dal fenomeno del fast food. Lo studioso di antropologia culturale Vito Teti ha scritto: In molti contesti l'alimentazione è sempre meno un collante, un elemento di socializzazione e di comunione, un tratto altamente simbolico, una forma di iniziazione al mondo della vita. Non costituisce più un fatto di identificazione con un luogo, ma è perdita di luoghi, di rapporto con la terra, con la produzione, con le stagioni¹⁶.

    Tra cibo e identità culturale vi è una stretta relazione. La cucina degli emigranti sta riempiendo le nostre città di odori e sapori che prima non conoscevamo. Spesso l’emigrante segna le feste e le ricorrenze più importanti (matrimoni, feste religiose) con banchetti di cucina tipica del proprio paese d’origine. L’emigrante si nutre anche di nostalgia. I banchetti nelle grandi feste sono eventi rituali che rafforzano il senso di appartenenza e l’identità del gruppo emigrato. Il piatto tradizionale rinnova la coscienza delle proprie origini comuni. Nel fatto di nutrirsi è sempre viva questa radice che ci fa ritrovare nella cucina qualcosa di più del semplice nutrimento, una reliquia della memoria che si riattiva ogni volta che mangiamo¹⁷. Le migrazioni costituiscono spesso un trauma, uno shock culturale dovuto all'abbandono delle categorie relative alla cultura di partenza, a partire dalla lingua madre. Il trauma poi, non è solo del momento iniziale ma spesso si cronicizza: alterità linguistica, differenza climatica, incomprensione dei rapporti di gerarchia sociale, dei meccanismi del funzionamento sociale, della burocrazia, diventano il pane quotidiano di uno stato di smarrimento che ha conseguenze anche sul piano della sofferenza psicologica. Recuperare il regime alimentare noto, di origine, è una forma privilegiata per operare una terapia ricreando l'ambiente di provenienza. Il cibo appare svolgere qui una funzione di riappropriazione identitaria: diviene il ponte verso la propria terra, i propri luoghi. Il cibo riesce a colmare distanze che ormai sono di migliaia di chilometri dal paese di provenienza. E ovviamente anche il modo di preparare il cibo e di consumarlo: preparare e offrire da mangiare hanno, nel contesto migratorio, lo stesso fine culturale dell'atto vero e proprio di mangiare. Per l'uomo è importante non solo ciò che mangia, ma anche come lo mangia, con chi e dove. Per l'emigrato che subisce lo sradicamento dalla lingua madre, il pasto che noi diremmo etnico diviene non solo luogo di rico-struzione dei legami sociali e in cui si parla la lingua madre, ma diviene esso stesso una lingua in cui ci si riconosce e ci si sente rassicurati. Plinio stesso, nella Naturalis historia, scrive che non c'è nessuno che non trovi nel cibo un lenitivo alla propria ira, afflizione, tristezza e a tutte le passioni: perciò bisogna considerare ciò che esercita un'azione terapeutica non solo sul fisico, ma anche sul morale. La presenza di uomini e donne di culture differenti provoca il diffondersi di cucine etniche e la trasformazione dei gusti locali in un movimento che è bidirezionale: avvengono contaminazioni e passaggi tra gusti e cibi della cultura ospitante e della cultura ospitata. In ogni caso, il cibo degli altri diviene anche possibilità di arricchimento per la società di accoglienza, andando incontro a quei cittadini che cercano nuovi ed esotici sapori.

    6. Cibo e comunione

    Il racconto Il pranzo di Babette, di Karen Blixen, illustra le differenze di gusto tra persone di diversa levatura culturale e appartenenti a strati sociali diversi. Nel banchetto offerto da Babette la comunità dei rigorosi e pii puritani, persone semplici e povere, mangia senza gustare e senza capire il pranzo fastoso, mentre il generale Loewenhielm, uomo di alta condizione sociale e raffinato, era stupefatto e perfino allibito di fronte ai piatti di altissima cucina e ai vini ricercatissimi che si succedevano l’uno dopo l’altro in quel banchetto nel paesello sperduto di Berlevaag in Norvegia¹⁸. E tuttavia il pranzo sontuoso agisce anche sugli ignoranti che non hanno capito cosa avevano mangiato. Agisce come miracolosamente, è grazia. Il discorso del generale Loewenheilm, illuminato dall’incredibile che è avvenuto davanti ai suoi occhi in quel prodigioso banchetto, è tutto centrato sulla grazia. E il pranzo ha sciolto le lingue, ma anche e ancor di più gli antichi rancori, gli odi sedimentati, e crea il tempo del perdono:

    Le due vecchie che una volta s’erano calunniate ora, in cuor loro, riandavano verso un lontano passato, oltre l’epoca malvagia in cui erano state ferite, ai giorni della loro prima adolescenza, quando insieme si erano preparate alla cresima e mano nella mano avevano fatto risuonare dei loro canti le strade attorno a Berlevaag. Un Fratello della Congregazione dette a un altro un colpo nelle costole, quasi una rude carezza tra ragazzi e gridò: ‘Mi hai truffato con quel legname, vecchio manigoldo!’ Il Fratello così apostrofato era crollato in un celestiale scoppio di risa, mentre dai suoi occhi scorrevano lacrime. ‘Sì, è vero, amato fratello’, rispose. ‘È vero’ ¹⁹.

    Gustare il buon cibo diviene gustare la compagnia, la comunione che si crea attorno alla tavola e al cibo condiviso. La parola compagno deriva da cum panis e indica la condivisione dello stesso cibo. Anche per la Bibbia l’amico è colui che mangia con me lo stesso pane (Sal 41,10). L’amicizia è condivisione del cibo. Il pranzo di Babette scioglie anche i sensi e sollecita l’eros:

    Il capitano Halvorsen e la signora Oppegaarden si trovarono improvvisamente vicini in un angolo e si scambiarono quel lungo, lungo bacio per il quale non avevano avuto tempo durante il segreto titubante amore della loro gioventù²⁰.

    Per la Bibbia, come per la storia della cultura, il mangiare è atto comune, comunitario e comunionale: la tavola condivisa è il luogo in cui si fondano e si nutrono rapporti famigliari e sociali. Il mangiare è segno di festa, e perciò avviene nella convivialità, nella condivisione, nella commensalità: a tavola condividiamo cibo, ma anche quelle relazioni che danno senso al vivere sostenuto dal cibo. Il senso si innesta sui sensi. Il nostro modo di mangiare dice qualcosa sulla nostra identità profonda e sulla nostra affettività. Infatti, mangiare ha a che fare con l’oralità, dunque con il registro del desiderio. Con la bocca noi parliamo, baciamo, mangiamo: la sfera della comunicazione, la sfera affettiva, la sfera nutritiva sono tutte implicate nell’oralità. La nostra storia personale è anche la storia della nostra alimentazione.

    Il credente, poi, mangia dopo aver pregato, dopo aver benedetto l'autore della vita, dopo aver fatto memoria del Creatore che dona il cibo alle sue creature. Il ringraziamento, la benedizione prima del pasto è riconoscimento del Terzo tra chi mangia e il mondo e ricorda che il rapporto corretto tra uomo e mondo è segnato dall'eucaristia, dal rendimento di grazie. L'azione di grazie è il movimento, così centrale nel cristianesimo, che consente all'agire dell'uomo di non cadere nell'idolatria e nel consumo ma di restare nella comunione.

    7. L’eucaristia: mangiare il corpo del Signore

    Il rapporto appena abbozzato tra cibo e comunione ci conduce all'atto liturgico centrale del cristianesimo: l'eucaristia. Il Salmo 34 parla di gustare com’è buono il Signore applicando il gusto, come metafora, alla relazione di fede con il Signore. E il cristianesimo al suo cuore celebrativo ha appunto un banchetto, la memoria del pasto che fece Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della sua passione e morte. Inoltre la prassi di umanità di Gesù di Nazaret ha trovato proprio nella tavola il luogo di narrazione della comunione di Dio con gli uomini. Gesù ha condiviso la tavola con peccatori e giusti facendo di questo luogo simbolico elementare uno spazio privilegiato di rivelazione dell’amore di Dio.

    Ora, l’eucaristia è il mangiare il corpo del Signore²¹. Nel capitolo sesto del IV vangelo l’eucaristia è definita con espressioni scandalosamente realistiche: per tre volte Gesù parla di mangiare la mia carne e bere il mio sangue (vv. 53.54.56) e afferma che la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda (v. 55). Queste affermazioni raggiungono il loro apice nella seconda parte del versetto 57 di Gv 6: Chi mangia me, anch’egli vivrà per mezzo di me. Il testo è realistico fino alla durezza. Forse aveva di mira una tendenza improntata al docetismo, ma questo non toglie nulla all’imbarazzo dell’interprete. Come intendere questa durezza eucaristica? Il realismo eucaristico, nella tradizione cattolica dall’epoca della Controriforma fino quasi ai nostri giorni, si è concentrato sulla presenza reale di Cristo in ciò che viene mangiato (e questo potrebbe essere ribadito anche a partire dal nostro testo), mentre ha smaterializzato il cibo da mangiare e decorporeizzato la manducazione. Io penso che la nostra espressione richieda piuttosto, in primo luogo, una riflessione sull’umanissimo e realissimo atto del mangiare, sul senso simbolico e antropologico del mangiare. Ovvero, ciò che abbiamo fatto finora. Come ha scritto Pierre Benoit: Nell’Eucaristia è il corpo stesso di Cristo che, nella sua pienezza di fonte di grazia, viene a noi; e non è attraverso un contatto più o meno superficiale ed effimero, ma attraverso il modo più intimo e duraturo possibile: l’assimilazione di un alimento²². Tra l’altro, il verbo greco usato qui da Giovanni per mangiare è trógo, che alcuni traducono letteralmente masticare. Abbiamo cioè un riferimento all’attività di masticazione essenziale all’atto di mangiare e che implica la trasformazione del cibo tramite la distruzione delle forme solide per renderle digeribili e assimilabili. Per questa via possiamo recuperare il realismo del testo giovanneo e renderlo eloquente oggi, reagendo anche a quella tendenza verificatasi nella tradizione cattolica che ha spiritualizzato il pane eucaristico riducendolo a esilissima ostia senza gusto che non doveva essere masticata, toccata dai denti del comunicante e ricevuta nelle sue mani, e che ha tralasciato la comunione al calice, al bere quel vino, simbolo del sangue di Cristo, che Gesù, secondo le redazioni di Matteo e Marco dell’istituzione eucaristica, aveva chiesto che tutti bevessero (Mt 26,27; Mc 14,23). Alla luce di quanto sto dicendo appare ancor più fuori luogo la retorica di certe espressioni rinvenibili nella tradizione cristiana sul gusto dell’ostia: il gesuita Jean-Baptiste Saint-Just ritiene l’ostia un Pane degli angeli che supera tutti i sapori che contengono le cose gustose ed eccede tutte le dolcezze dalle quali possono i nostri sensi essere lusingati²³. Non è questa la via per comprendere adeguatamente l’eucaristia.

    Occorre un percorso antropologico, che noi abbiamo già abbozzato, e su questo impianto occorre innestare il discorso teologico. Consideriamo Gv 6,57: "Come il Padre, che è vivente, ha inviato me e io vivo grazie (dià: per mezzo) al Padre, così colui che mangia me, vivrà anch’egli grazie (dià: per mezzo) a me. Il mangiare me è posto in linea di continuità con l’invio del Figlio da parte del Padre: è l’atto radicale ed estremo a cui giunge l’obbedienza del Figlio nei confronti del Padre, è l’esito ultimo della missione ricevuta dal Padre, è il culmine kenotico dell’evento trinitario della rivelazione e comunicazione divine all’uomo. Dal piano antropologico del mangiante risaliamo così al piano teologico del me che si dona come cibo all’uomo. Il mangiare me" è allora l’espressione più radicale dell’amore di Cristo (e di Dio) per l’umanità. Questo mangiare è reso possibile dal dono che il Padre, nel suo amore per l’umanità (3,16), fa del Figlio inviandolo nel mondo perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza (10,10) e che il Figlio liberamente fa di sé, per amore dell’umanità (10,11.18; 15,13). Ciò che è fondamentale in questo mangiare è dunque il dono che ne è all’origine: questo cibo, infatti, non viene dall’uomo, ma sgorga dall’amore di Dio per l’uomo e tende alla comunicazione dell’amore in cui consiste la vera vita. "Per la Bibbia, l’alimento è come il sacramentum elementare mediante il quale l’amore di Dio raggiunge l’uomo: questi riceve la creazione, di cui è centro, dal Creatore per la sua felicità e gliene rende il contraccambio benedicendolo. La comunità conviviale, espressa dal segno della frazione del pane, sgorga dunque dall’amore, ma per la media-zione dei beni della creazione"²⁴.

    Nell’Antico Testamento il Sal 136 presenta il dono attuale e continuo del cibo a ogni creatura da parte di Dio (v. 25 lett.: Egli dà il pane a ogni carne) come la sintesi di tutti gli interventi che hanno segnato la storia di Dio con l’uomo e in particolare con Israele: la creazione (vv. 4-9), l’esodo (vv. 10-20), il dono della terra (vv. 21-25). Ogni intervento divino è accompagnato da un ritornello che afferma che l’amore di Dio è eterno (o forse, l’amore di Dio è per il mondo): la storia di salvezza è la storia dell’amore di Dio per l’uomo che nel dono del pane quotidiano trova il suo apice. Il testo giovanneo mostra che questa storia della rivelazione e comunicazione di Dio all’uomo trova ora il suo compimento nel Cristo che si dona come pane di vita, come vero cibo per la vita del mondo. L’intervento storico-salvifico definitivo, che sintetizza l’intera storia di salvezza fino al suo compimento escatologico nel Regno, intervento significato dal dono del pane della vita che è il Cristo stesso, è l’evento pasquale, la morte e la resurrezione di Cristo. Questo evento, che porta al suo culmine l’incarnazione, è la visibilizzazione definitiva e radicale dell’amore eterno di Dio, del suo amore per il mondo. Ora, secondo il discorso sul pane di vita in Gv 6 Gesù è il pane di vita in un duplice senso: in quanto Parola di Dio fatta carne, Lógos che rivela perfettamente il Padre, e in quanto cibo e bevanda eucaristici. Questo significa che il mangiare me non può essere scisso, dal punto di vista del mangiante, dal venire a Gesù (6,35.37.44.45), ovvero dal credere in Lui (6,29.36.40.47). Il parallelismo tra credere e mangiare è significativo: Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (6,40); Chi crede ha la vita eterna (6,47); Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (6,54); Chi mangia questo pane vivrà in eterno (6,58). Al credere e al mangiare potremmo aggiungere l’ascolto e l’accoglienza della parola della vita, della parola in cui è la vita (1,4), che consentono ai credenti di essere generati a vita nuova, a figli di Dio (1,12-13). Dirà Gesù: Chi ascolta la mia parola … ha la vita eterna (5,24). In questo modo, la frase Chi mangia me, anch’egli vivrà per mezzo di me (6,57) esprime non solo il culmine della donazione e della comunicazione di Dio all’uomo in Cristo, ma anche il momento più completo e realistico della comunicazione dell’uomo con Dio tramite Cristo.

    Resta un’ultima annotazione, tutt’altro che periferica. Questo mangiare me sovverte la tirannia della morte introducendo l’uomo in quella vita che viene dal Padre e dal Figlio (5,21.26; 6,57), che consiste nella comunione con Dio per mezzo del Figlio (17,3) e che sarà definitiva e senza ombre alla resurrezione nell’ultimo giorno. Al tempo stesso, il mangiare me suppone una morte: per bere il sangue (6,53.54.55.56) occorre che sia stato versato. La morte di Cristo, per il IV vangelo, è in realtà l’atto di un vivente: è l’atto con cui il Figlio consegnò lo Spirito (19,30). È cioè l’ultimo atto dell’amore e della libertà del Figlio. Quel consegnò lo Spirito stabilisce una transitività nella morte stessa di Gesù che diviene dinamica di vita nell’esistenza dei cristiani. Questo dono del Crocifisso va accostato al dono del Risorto, che è ancora lo Spirito (20,22). Celebrare il memoriale della morte e della resurrezione del Signore, del Kýrios, nel pasto eucaristico, significa dunque aprirsi alla potenza vivificante dello Spirito di Dio. In effetti il mangiare me è il comunicare all’umanità pasquale di Cristo, alla sua umanità vivificata dallo Spirito che fa inabitare nel credente la vita divina (6,56). Il cibo eucaristico trasforma così il credente facendolo vivere in comunione con Dio qui e ora e in futuro nel Regno eterno. Nell’eucaristia, infatti, noi comunichiamo al Cristo stesso, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata e vivificante nello Spirito santo, dà vita agli uomini (Presbyterorum ordinis 5). È lo Spirito che dà la vita (6,63) ed è lo Spirito che riempie il calice eucaristico (secondo la bella espressione dell’anafora di san Giacomo fratello del Signore) e che riposa sul pane e sul vino eucaristizzati (espressione di Giustino e di Ireneo che indica che su di essi è stata fatta la preghiera di rendimento di grazie), che trasforma la vita di chi vi comunica. Il mangiare me diviene così un nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo … tramite i quali la grazia dello Spirito santo viene a noi e ci nutre (Teodoro di Mopsuestia) in vista della vita eterna nel Regno. Lo Spirito è dunque la potenza vivificante e comunionale che opera la trasmissione della vita divina nel credente attraverso la partecipazione al banchetto eucaristico. Il frutto della ricezione sacramentale del corpo donato e del sangue versato corrisponde di fatto alla misteriosa azione dello Spirito nel destino dei credenti²⁵. Il mangiare me non esenta dal morire, ma facendo partecipare allo Spirito di Dio che rimette i peccati e dà la vita ai morti, fa vivere di quella potenza di vita che è l’agape di Dio più forte della morte. L’eucaristia, come sacramentum charitatis è dunque anche il sacramento del dono dello Spirito.

    ¹ G. MARTELET, Genesi dell’uomo nuovo. Vie teologiche per un rinnovamento cristiano, Queriniana, Brescia 1976, pp. 31-33.

    ² Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato. Il testo ebraico di Is 25,8 dice letteralmente che Dio inghiottirà la morte, cioè mangerà, divorerà quella morte che nella storia tutto e tutti divora.

    ³ L. MOULIN, L’Europa a tavola, Mondadori, Milano 1993, pp. 12-13.

    ⁴ A. BRILLAT-SAVARIN, Fisiologia del gusto, Biblioteca Ideale Tascabile, Milano 1996, p. 23.

    ⁵ Cf. D. LE BRETON, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 335-348.

    ⁶ J. TANIZAKI, Libro d’ombra, Bompiani, Milano 2000, p. 33.

    ⁷ A. LEROI-GOURHAN, Ambiente e tecniche, a cura di Marco Fiorini, con uno scritto di Alberto Cirese, vol. II di Evoluzione e tecniche, Jaca Book, Milano 1994, p. 120.

    ⁸ D. LE BRETON, Il sapore del mondo, cit., p. 344.

    ⁹ A. BRILLAT-SAVARIN, Fisiologia del gusto, ovvero, Meditazioni di gastronomia trascendente, La Biblioteca Ideale Tascabile, Milano 1996, p. 48.

    ¹⁰ Per questo paragrafo mi rifaccio agli studi di MATTY CHIVA, Le doux et l’amer, PUF, Paris 1985 e, soprattutto, «Comment la personne se construit en mangeant», in Communications 31 (1979), pp. 107-118.

    ¹¹ Cf. il capitolo «Dal gusto in bocca al gusto di vivere: una degustazione del mondo», in D. LE BRETON, Il sapore del mondo, cit., pp. 349-416.

    ¹² G. BACHELARD, Il diritto di sognare, Dedalo, Bari 1987, p. 202.

    ¹³ M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, I, Dalla parte di Swann, Newton Compton, Roma 2009, pp. 37-39.

    ¹⁴ M. SERRES, Les cinq sens, Grasset, Paris 1985, p. 252.

    ¹⁵ D. LE BRETON, Il sapore del mondo, cit., p. 403.

    ¹⁶ V. TETI, Il colore del cielo. Geografia, mito e realtà dell'alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma 1999, p. 107.

    ¹⁷ D. LE BRETON, Il sapore del mondo, cit., p. 364.

    ¹⁸ K. BLIXEN, «Il pranzo di Babette», in Eadem, Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 1989⁶, pp. 35-37.

    ¹⁹ Ivi, p. 40.

    ²⁰ Ibidem.

    ²¹ Cf. L. MANICARDI, Il corpo. Via di Dio verso l’uomo, via dell’uomo verso Dio, Qiqajon, Bose 2005, pp. 57-68.

    ²² P. BENOIT, Esegesi e teologia, Paoline, Roma 1964, p. 194.

    ²³ Citato in P. CAMPORESI, La casa dell’eternità, Garzanti, Milano 1987, p. 250.

    ²⁴ J.-M. R. TILLARD, Eucaristia e fraternità, OR, Milano 1969, pp. 22-23.

    ²⁵ J.-M.R. TILLARD, L’Eucharistie et le Saint Esprit, in Nouvelle Revue Théologie 90 (1968), p. 371.

    ANTONIO FUCCILLO

    Saziare le anime nutrendo il pianeta?

    Cibo, religioni, mercati

    SOMMARIO: 1. Abitudini alimentari, dinamiche sociali di controllo e conformazione giuridica. 2. Comportamenti religiosi alimentari e sviluppi di mercato. 3. Appartenenza religiosa e regole alimentari: le influenze sui consumi. 4. Uno sguardo d'insieme sui consumi di cibi religiosi nei principali mercati. 5. Economia, religioni ed etica nelle strategie imprenditoriali del mercato alimentare. 6. Il cibo come bene comune. Le religioni a promozione di un mercato alimentare etico. 7. Lo sfruttamento commerciale dei cibi religiosamente orientati. Le nuove dinamiche delle imprese agro-alimentari e della ristorazione.

    1. Abitudini alimentari, dinamiche sociali di controllo e conformazione giuridica

    L’alimentazione è centrale nella vita di tutti gli essere umani, il cibarsi è cioè uno dei gesti antropologicamente più densi¹. Non solo l’alimentazione intesa come nutrimento (che è ovviamente essenziale) cioè come la necessità di approviggionarsi di ciò che serve per vivere o per lo meno (in alcuni contesti) sopravvivere. L’alimentazione intesa come comportamento di vita, di costume, di moda.

    Qui si realizza la prima grande frattura tra i ricchi del mondo ed i poveri, tra coloro che hanno troppo e coloro che hanno troppo poco². I primi giocano con l’alimentazione assumendo le modalità del cibarsi tra i must della propria vita, collegandola a ritualità modaiole e legandole direttamente ai costumi del tempo che viviamo. Proliferano, infatti, nelle società ricche i centri di educazione alimentare, i dietisti e dietologi, i ristoranti etnici, quelli per vegetariani e vegani e così via. I comportamenti alimentari, quindi, sono strettamente legati al condizionamento sociale che viviamo, ai ritmi di lavoro, alle mode del tempo, a chi cerca il diverso per distinguersi nell’universo degli eguali. Intorno a tali abitudini si muove l’immenso mercato del cibo, proponendo ai consumatori soluzioni ai loro reali o presunti problemi alimentari. Chi avrebbe pensato soltanto pochi anni fa ad un vigoroso aumento nell’offerta di prodotti "diet come alimenti e bevande senza zucchero oppure light restaurants e negozi specializzati in alimenti proteici ed integratori . Il mercato, infatti, segue e previene i gusti dei consumatori, e le nostre società grasse ci vogliono magri, belli e tonici" ed anche se non lo siamo ci dobbiamo socialmente uniformare se non vogliamo essere esclusi dal contesto.

    La parte del mondo, invece, che non ha cibo sufficiente insegue il problema inverso, quello di ottenere ciò che serve ad un adeguato nutrimento, le mode interessano meno ed il mercato dei cibi iperproteici, ad esempio, in quei contesti assume altri significati, si traveste non da dimagritore ma da nutritore; così come il cibo etnico diviene non fattore di distinzione sociale ma di identificazione sociale e di stessa sopravvivenza³.

    Attraverso l’alimentazione, infatti, si realizzano gli intrecci tra la corporeità degli individui con le dinamiche sociali di controllo, diventando il cibarsi uno dei simboli esemplificativi della struttura sociale e delle dinamiche ad essa connesse⁴.

    Gli appena cennati fenomeni, tuttavia, rientrano da un verso nella necessità, dall’altro nella conformazione sociale e sono da sempre studiati dagli antropologi, dagli economisti dai sociologi e dai politologi.

    Diversi sono invece i condizionamenti sul mercato alimentare dei precetti religiosi in quanto legati alle osservanze, quindi, al rispetto dei precetti giuridici degli ordinamenti confessionali, di conseguenza allora di competenza anche del giurista⁵.

    È stato di recente felicemente affermato: dimmi cosa mangi e ti dirò in cosa credi, con il pensiero che vola verso i divieti islamici, la cucina ebraica kosher [...] e le molte altre peculiarità alimentari proprie di confessioni religiose vecchie e nuove, compresa ovviamente la Chiesa cattolica che pur caratterizzandosi per l’assenza di specifici divieti non manca di regole alimentari relative ad esempio al digiuno per non parlare dell’uso rituale del cibo⁶. In tale ambito è ancora più necessario indagare il vincolo genetico consustanziale che lega il fatto religioso all’ordine sociale e alla sua strutturazione normativa, evidenziando il potentissimo impatto conformativo che le forme del religioso esercitano sulle strutture delle società e del loro diritto⁷.

    Le religioni, dunque, dettano i comportamenti che, radicati come sono nelle loro tradizioni anche millenarie, hanno influenzato i costumi e quindi inluenzano i consumi. Quanto del nostro cibarsi è indubbiamente condizionato dalle tradizioni religiose⁸?

    Tali condizionamenti si trasformano in veri e propri precetti giuridici o per diretta previsione dei diritti confessionali oppure per consuetudine alimentare, ma in entranbi i casi l'effetto non cambia, nel senso che si tende a consumare ciò che il proprio credo suggerisce. Il florido mercato dei cibi, quindi, non solo ne è direttamente influenzato ma deve coglierne tutte le suggestioni e le opportunità, attraverso l’analisi delle condotte alimentari religiose ed il loro diretto impatto sui consumi. Sicchè, l’antropologo delle religioni ma anche il giurista sensibile al fattore religioso divengono i migliori alleati dell'imprendi-tore del settore, il primo aiutandolo nella scoperta dei comportamenti il secondo nell'aiutarlo nel proporre le idonee soluzioni giuridiche che tengano opportuno conto delle tipicità culturali, e delle loro differenze. Il paradosso è che proprio in un mercato iper globalizzato sono ancora più necessarie adeguate forme di tutela giuridica anche a garantire il rispetto di differenze e tradizioni, cioè delle stesse tipicità alimentari.

    2. Comportamenti religiosi alimentari e sviluppi di mercato

    I comportamenti alimentari dipendono, quindi, anche da fattori culturali ed a determinare i food use patterns contribuiscono in modo rilevante le credenze religiose⁹. Obbedire ai dettati confessionali costituisce senza dubbio il rispondere ad un precetto giuridico che seppure non sempre assistito da rimedi sanzionatori viene comunque avvertito dal fedele come un vero e proprio obbligo comportamentale da seguire. Ciò vale anche per i meri consigli alimentari religiosi per la grande influenza che esercita il gruppo sui singoli, condizionandone i comportamenti in virtù del vincolo di appartenenza che li lega. Le religioni, difatti, non solo obbligano ma spesso consigliano, assegnano marchi di qualità, influenzano le scelte dei loro adepti quando consumatori di beni e servizi. Hanno una grande capacità di condizionamento e selezione nel mercato ancora più degli altri grandi gruppi di pressione sociale, in quanto utilizzano la forza coinvolgente del vincolo piuttosto che l'effetto distorsivo della pubblicità commerciale. Le religioni sono veri e propri opinion makers.

    La capacità delle religioni, dunque, di influenzare il mercato alimentare oltre che nelle pratiche commerciali si realizza a volte anche quale prezioso alleato nell'indirizzare i consumi verso la sicurezza degli alimenti, la sicurezza delle condotte, la tutela dell’ambiente¹⁰. Le regole religiose alimentari, infatti, hanno nel corso dei secoli condizionato positivamente le abitudini nel cibarsi dei popoli, predisponendo codici di comportamento nei quali si mescolano funzioni escatologiche con vere e proprie misure di prevenzione della salute. Come ignorare che il consumo di alcol in territori molto caldi sia assolutamente più dannoso per la salute che altrove? Oppure che rispettare criteri rigidi per la macellazione animale riduca il rischio di infezioni?

    Anche in materia comportamentale le regole religiose ritualizzano rime-di per la corretta conservazione dei cibi e per il loro consumo, in tale modo il rispetto della regola religiosa costituisce, allo stesso tempo, sia osservanza di fede che norma di igiene. Così pure in termini di sicurezza personale, ancora, ad esempio, la proibizione di consumare bevande alcoliche influisce positivamente sui rischi per la conduzione di veicoli e per lavori ove è richiesta una elevata soglia dell'attenzione. L’individuazione, poi, da parte delle religioni del pianeta come armoniosa creazione ha sempre stimolato la protezione dell'ambiente. Il ruolo delle religioni è poi cresciuto in misura esponenziale in tali settori della vita di relazione di pari passo con il diffondersi della crisi economica e dei disastri sociali che la stessa ha direttamente causato. Queste fanno sentire forte la propria voce a tutela dell'ambiente, dei beni comuni come l'acqua, del cibo¹¹. Su tale ultimo aspetto poi si propone una efficace lettura delle norme religiose che regolano i comportamenti alimentari rivisti anche in chiave solidale e di sostenibilit๲. Il precetto religioso, quindi, fornisce al fedele una chiave di lettura moderna in senso sociale al suo agire nel mondo dell’economia, inducendolo al rispetto di valori come l’equità, la sostenibilità, il rispetto degli altri.

    In quest’alveo si inserisce pienamente la maggiore sensibilità, anche dei giuristi, verso i diritti del mondo animale. La questione delle macellazioni rituali¹³; anche alla luce del Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009¹⁴ solleva l’esigenza di individuare il confine tra il rispetto delle prescrizioni alimentari religiose ed i neo-istituzionalizzati diritti degli animali. Senza, tuttavia, dimenticare come nelle stesse religioni si incontrino principi di protezione animale, fino addirittura a forme di sacralità. Il benessere degli animali assume anche in tale prospettiva il carattere di suggestione religiosa sia che lo si intenda in senso negativo (macellazione) che positivo (culto animale). Situazioni tutte che sembrano rientrare in quelle di riti religiosi e tradizioni culturali protette a pieno titolo dal citato Trattato di Lisbona.

    La relazione dell’uomo con l’ambiente e con la produzione di cibo e l’allevamento degli animali, tra l’altro, è messa in ulteriore crisi dallo sviluppo delle biotecnologie che intervengono nel modificare il disegno della natura¹⁵. La scienza segue ovviamente il suo corso, tuttavia le religioni non sempre accettano le manipolazioni genetiche che, tra i numerosi lati positivi nell’intervenire a protezione della salute ed a rendere le messi meno soggette agli eventi naturali, rischiano, modificando le basi di approvigionamento, di incidere sui cibi alterandoli. La crociata contro le colture OGM, ad esempio, registra consensi nelle religioni soprattutto nella loro componente ecologista¹⁶. La natura con la sua varietà può nutrire il mondo, tutto è cibo, tutto è alimento per qualcos’altro¹⁷.

    3. Appartenenza religiosa e regole alimentari: le influenze sui consumi

    Appartenere ad una religione, dunque, significa per il fedele il seguire regole (precetti) anche alimentari, ma non solo. Il senso di appartenenza lo porta ad omologarsi al gruppo anche nel seguire gli esempi comportamentali suggeriti proprio dalla medesima iscrizione confessionale, il che può portare effetti positivi (come si è visto) nella tutela della salute e dell’ambiente, ma anche decisivi condizionamenti dei consumi. È il caso di notare che se è vero che il precetto religioso può irrigidirsi in ortoprassi rituali divorziate dalle loro matrici di senso, quantomeno nella coscienza dei fedeli, è anche vero che la religione è in grado di mimettizarsi nel discorso e nelle pratiche comuni, laiche, alimentando rigidità inconsapevoli e, proprio per questo, ancor più granitiche¹⁸. Tutto ciò non può non influenzare il mercato alimentare sottoposto, in tale settore, non solo alle solite variabili dell'economia, ma che è anche costretto a tenere in debito conto il ruolo delle appartenenze confessionali che caratterizzano i vari contesti culturali ove operare, ma anche della competizione che contraddistingue il mercato delle religioni ovvero il loro compete-re per acquisire un maggior numero di fedeli¹⁹, una lotta identitaria per l’occupazione dello spazio²⁰. Una battaglia che si combatte anche con i simboli ovvero con i segni che servono ad identificare gli appartenenti al medesimo gruppo²¹, ed è indubbio che tra questi vi siano i comportamenti alimentari e l’importanza che viene loro conferita nei vari contesti culturali²², così che, ad esempio, in alcuni ambienti la violazione dei tabù alimentari può causare uno choc culturale con conseguenze dirette addirittura sulla pacifica convivenza degli individui²³. A tale proposito è utile uno sguardo sui risultati di una indagine effettuata nell’ambito del progetto a tavola con le religioni²⁴:

    Occorre poi tenere in debito conto che le religioni non sono imprese cd. razionali in quanto non possono essere dimostrate, ci si crede oppure no²⁵ il che rende più forti e solidali i vincoli di appartenenza. Il tutto si inserisce anche in un peculiare contesto giuridico di tutele che, a livello europeo, mira a proteggere e promuovere i diritti fondamentali (quindi anche la libertà religiosa con le sue declinazioni) in un ambiente però tipicamente e geneticamente mercantile²⁶. L’agire religiosamente, quindi, tutelato dalle normative di protezione delle varie carte dei diritti influenza i mercati attraverso un condizionamento dei consumi indotto da una operazione di indirizzo e consiglio che le varie religioni compiono nei confronti dei loro adepti.

    4. Uno sguardo d'insieme sui consumi di cibi religiosi nei principali mercati

    Osservando i mercati alimentari si nota che tra i settori di maggiore sviluppo vi è quello degli alimenti religiosamente corretti. Il mercato alimentare degli Stati Uniti, ad esempio, ne costituisce un archetipo in quanto paese caratterizzato da una popolazione multiculturale e, di conseguenza, multi-confessionale. Già prima degli anni novanta, molte aziende alimentari avevano messo a disposizione delle comunità ebraiche che vivevano negli Stati Uniti alimenti c.d. kosher, ovvero prodotti nel rispetto delle regole religiose ebraiche²⁷. Tali alimenti potevano essere facilmente reperiti nel 40% principali supermarket degli Stati Uniti²⁸. Negli anni successivi, la rapida espansione che ha avuto il mercato kosher non è stata dovuta solo all’acquisto di tali prodotti da parte di consumatori di religione ebraica, in quanto, ad acquistarli spesso erano anche i consumatori di fede islamica, i quali erano totalmente ignorati dall’industria alimentare²⁹. La parziale simmetria delle regole religiose alimentari islamiche con quelle ebraiche ha condotto gli immigrati musulmani ad acquistare alimenti kosher, adattando le proprie scelte alimentari a ciò che era disponibile sul mercato in quel periodo pur di non disattendere la propria fede religiosa³⁰. I mercati hanno dovuto seguire anche le notevoli mutazioni sociali delle regole alimentari religiose dettate sia dall'adeguarsi delle tradizioni alle nuove abitudini imposte dai ritmi di lavoro moderni, così come dalle necessità dettate dagli spostamenti territoriali³¹. In tale ultima prospettiva, ad esempio, l’aumento della popolazione musulmana negli Stati Uniti, e della contestuale domanda di alimenti c.d. halal, ovvero prodotti nel rispetto delle regole religiose della Sharī’ah, ha favorito l’enorme sviluppo, a partire dal 2000, di un mercato alimentare halal. Ad oggi il mercato statunitense di alimenti kosher ha un valore stimato di 40 miliardi di dollari, mentre il mercato di alimenti halal sfiora i 15 miliardi di dollari. Il gran numero di aziende americane che producono alimenti halal ha reso, ad oggi, gli Stati Uniti il principale paese esportatore di tali prodotti. Infatti, le aziende americane halal esportano i propri prodotti anche verso paesi a maggioranza musulmana (Qatar, Arabia Saudita, ecc.), i quali non sempre hanno a disposizione le risorse alimentari necessarie per la propria popolazione³², e comunque non riuscirebbero a competere con la varietà di prodotti tipica del mercato USA. Tra i principali paesi esportatori di alimenti halal vi sono poi l’Argentina, l’Australia, la Nuova Zelanda e la Cina, i quali, com’è noto, non sono paesi a maggioranza musulmana³³. Il mercato alimentare religioso europeo, seppur in leggero ritardo rispetto al panorama americano, registra un forte incremento negli ultimi anni. A dominare il mercato halal e kosher in Europa sono la Francia³⁴ e la Russia e seguite dal Regno Unito. Dal momento che in Francia vi sono le più grandi comunità ebraiche e musulmana d’Europa, il mercato alimentare nazionale kosher e halal è in forte espansione. Vi sono, inoltre, altri rilevanti fattori per i quali si prospetta un ulteriore incremento delle vendite di prodotti alimentari conformi alle prescrizioni religiose. In primo luogo, ad acquistare tali alimenti, in particolare gli alimenti kosher, sono anche consumatori non appartenenti alla religione ebraica o musulmana, essendo da essi preferiti in ragione della loro salubrità. Si prevede, inoltre, un notevole incremento di immigrati di religione musulmana, i quali, essendo fortemente legati alle proprie tradizioni alimentari, richiederanno prodotti conformi alle regole religiose³⁵. Le distorsioni del mercato sono a tal punto rilevanti in tale settore che consentirisi il lusso di mangiare le pietanze della cucina d’origine costa talora agli immigrati assai più del plausibile e del possibile³⁶. Il numero di fedeli musulmani in Europa, infatti, salirà, nel 2030, a 58,2 milioni e si prospetta che nel 2050 essi costituiranno il 20% della popolazione europea³⁷, con conseguenti riflessi sul mercato degli alimenti. Oltre il futuro incremento del flusso migratorio di musulmani, è necessario valutare un ulteriore fattore di matrice sociale in grado di incidere sull’espansione del mercato alimentare halal, il revival culturale e religioso per le seconde e terze generazioni. Se in passato gli immigrati, trovandosi in un territorio straniero, hanno adattato le proprie tradizioni culturali e religiose alla cultura del paese di accoglienza, oggi, i loro figli e nipoti, nati e cresciuti nel paese di accoglienza dei genitori, reclamano a gran voce le proprie origini e tradizioni³⁸. La rivendicazione della propria identità culturale e religiosa inevitabilmente investe anche le abitudini alimentari, in tal modo crescendo la domanda di alimenti conformi alle proprie regole religiose ereditate dal proprio gruppo di origine. Le prescrizioni alimentari religiosi influenzano, ovviamente, anche le forniture alle cd. comunità separate ed agli istituti scolastici, rendendo a volte necessario l’intervento degli enti locali e delle amministrazioni statali che sono direttamente coinvolte nel servizio³⁹. Anche la scelta dei vettori (aerei, treni, navi) può essere condizionata dalle opportunità offerte dalle compagnie di servizi alimentari conformi alle varie prescrizioni religiose⁴⁰.

    5. Economia, religioni ed etica nelle strategie imprenditoriali del mercato alimentare

    La rilevanza dei comportamenti religiosi per il mondo degli affari è notevole, soprattutto da quando si è sentita più forte l'esigenza di un recupero dell'etica nei comportamenti economici. È stato efficacemente scritto che "religion is one of the more frequently mentioned determinants of the moral values that underpin ethical standards. The major world religions have moral teachings and in various ways indicate disapproval of unethical actions. Most of them teach that an omniscient God observes human actions and holds people accountable for their actions. Therefore, it is logical to assume that adherents to a religion would be less tolerant of unethical behavior"⁴¹. Le religioni assumono sempre più, in tale utile prospettiva, la natura di orizzonti di senso portatori di valori che possono influenzare positivamente le azioni umane, anche se molti non hanno consapevolezza di reiterare attraverso i propri gesti quotidiani i significati di una tradizione religiosa⁴². I giganteschi interessi che si muovono intorno al mercato alimentare costringono gli operatori a tenere in debito conto (come sopra notato) le enormi pressioni e condizionamenti che lo influenzano e che non rispondono alle cure della sola libera concorrenza⁴³. Ne deriverebbe una nuova forma di mercato caratterizzato dalla "redistribuzione che può avvenire con strumenti di solidarietà sociale diretta e con forme di tutela del lavoro dipendente, dell’ambiente in cui si opera e dalla promozione che può essere stimolata dalla implemetazione delle libertà fondamentali e della libertà religiosa per quanto qui interessa, che vanno ad integrare proprio l’idea di benessere sociale, inteso come qualità della vita delle popolazioni⁴⁴. D’altra parte, i comportamenti alimentari sono una delle possibili declinazioni pratiche proprio della libertà religiosa" con la conseguenza che maggiore sia quest’ultima tanto più si può sviluppare il mercato alimentare dei cibi religiosamente orientati. Lo sviluppo degli spazi di libertà assegnati e/o conquistati dalla libertà religiosa cammina di pari passo all’implementazione di una serie di opportunità economiche. Il mondo degli affari si avvale delle culture religiose quali preziosi alleati nella conquista e nello sviluppo dei mercati⁴⁵. Tale operazione ha come ricaduta positiva una maggiore distribuzione del benessere che è in diretta connessione con l’aumento delle opportunità. Nel mercato degli alimenti le ricadute sono immediate. Nel report "Business for peace si arriva alla seguente conclusione business has the capacity to be an important partner in increasing interfaith understanding and peace in a wide variety of ways. Companies are encouraged to take adequate steps to identify the interaction between their core business operations, government relations, local stakeholder engagement, strategic social investment, and how these factors can impact possible social tensions or influence positive outcomes. Resources for considering how companies can implement responsible business practices in complex environments– such as the UN Global Compact’s Guidance on Responsible Business in Conflict-Affected and High-Risk Areas: A Resource for Companies and Investors – aim to assist businesses wrestling with these issues. The examples included here range from advertising campaigns to incentivizing innovative approaches to interfaith understanding through community outreach and awards programmes. Some businesses offer new modes of cross-cultural engagement, such as tourism, while other types of businesses can play a role in building interfaith understanding by preparing employees to work cross-culturally. When companies are sensitive to the religious and cultural issues around them, they can strengthen their social license and increase employee morale and productivity, while also addressing difficult social needs. Business can often be at the forefront of creating space where people from different cultures and religions meet and cooperate. Given their role in building economies and their pioneering work in cross-cultural management, business has an important stake in promoting intercultural and interreligious understanding. Tensions along cultural, religious and ethnic lines undermine stable, sustainable business environments. At the same time, successfully managing diversity and fostering tolerance and understanding – among employees, customers and other stakeholders – is increasingly recognized as critical for long-term business success. Ultimately, the examples offered in this resource and elsewhere demonstrate that business can help to transform religious and intercultural differences that might otherwise erupt into violence into shared understanding and productive enterprise. Making common cause withother companies, organizations and stakeholders on this crucial issue can help both business and society thrive⁴⁶". Le ricadute operative di una tale interpretazione sono moltissime soprattutto nel campo alimentare, ed infatti gli esempi riportati nel "Report" si riferiscono a molte grandi aziende del settore. Si tratta, quindi, di una nuova prospettiva di lettura che sembra ampliare il campo di interesse dei profili pratici della

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