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70 volte 7 - La genesi del male
70 volte 7 - La genesi del male
70 volte 7 - La genesi del male
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70 volte 7 - La genesi del male

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About this ebook

Enoch, il millenario figlio di Caino,il primo assassino della storia dell’ Umanità. In una provincia Milanese dalle tinte scure si muovono come su una scacchiera personaggi di svariata natura, mentre un serial killer insanguina le strade notte dopo notte. Una giovane ed affascinante Maestra d’asilo e la sua ristretta cerchia di amici d’infanzia. Uno Psicologo dal passato tormentato e sua figlia tredicenne perseguitata da uno spaventoso incubo ricorrente. Un Ufficiale di Polizia insoddisfatto e alla ricerca di un po’ di pace e quiete nella sua vita. Un anziano Cardinale alle prese con una sconcertante crisi di Fede. Un enigmatico ragazzo Iraniano. Le loro vite sono legate da un filo sottile e sconosciuto, che li porterà ad affrontare le loro paure ed i loro disagi, facendoli scontrare con qualcosa di completamente estraneo alle loro esistenze e alla loro quotidianità. Insieme, seppur ognuno per proprio conto, dovranno fare appello a tutta la loro forza interiore per uscire vivi da un complotto ordito da figure potenti e crudeli.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateNov 25, 2012
ISBN9788867820245
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    70 volte 7 - La genesi del male - Diego Colombo

    Diego Colombo

    70 volte 7

    La genesi del male

    ©Diego Colombo

    70 volte 7 - La genesi del Male

    Editrice GDS

    Via G.Matteotti 23

    20069 Vaprio d’Adda – Mi

    www.editoriunitigds.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Collana Aktoris

    Illustrazione copertina: Fabio Porfidia

    grafica copertina: Iolanda Massa

    L’opera è puro frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a luoghi e/o persone realmente esistenti e/o esistite, a fatti realmente accaduti è puramente casuale e utilizzati a puro scopo narrativo.

    Per il linguaggio utilizzato in alcuni dialoghi, se ne sconsiglia la lettura ai minori di anni sedici.

    Alle persone che continuano ad amarmi per quello che sono.

    SETTANTA VOLTE SETTE

    Parte Prima

    Il Teatrino delle Marionette

    È singolare la luce a volte.

    Fa ciò che vuole, beffandosi dei sensi degli uomini e rivelando ciò che più le conviene, occultando dettagli o astuta- mente distorcendoli.

    Certo, per gli uomini di scienza essa altro non è che una porzione di Spettro Elettromagnetico, quella visibile ad occhio umano, compresa tra i 750 ed i 430 Terahertz di Frequenza.

    Sicuramente non qualcosa di animato, semplicemente, e altrettanto tristemente, un insieme di particelle cui qualcuno ha dato nome Fotoni.

    Tuttavia questi individui hanno smarrito loro stessi all’in- terno delle loro equazioni e dei loro alambicchi, perdendo la capacità di osservare e di meravigliarsi dinanzi a questo fenomeno senza alcun dubbio più simile al divino che al naturale.

    Nel corso dei secoli la scienza ha ridotto più volte a manifestazioni ordinarie la meraviglia di fenomeni quali il fuoco, i fulmini e la stessa luce, spogliandoli della magia del fascino che incutevano nei cuori semplici dei nostri antenati.

    Ma ancora oggi, seppur raramente, sussistono episodi nei quali la scienza e la sua supponenza nulla possono di fronte alla suggestione di pochi, sparuti attimi e luoghi.

    L’alba del Solstizio d’Inverno in alcuni siti archeologici, nei quali la luce si riflette sulle pietre lucide quasi fossero specchi sapientemente posizionati da mani divine... le aurore boreali... o addirittura la fredda luce elettrica dei lampioni di una via cittadina come tante, in quella tiepida notte di fine Settembre.

    L’asfalto bagnato riluceva disseminato di pozzanghere, ognuna un occhio aperto sul cielo, la luna a far loro da pupilla gialla e spettrale.

    L’aria ancora umida per il passato acquazzone ristagnava, impregnata dell’odore del piscio dei cani e del contenuto dei sacchi della raccolta differenziata, squarciati dai gatti randagi.

    All’incirca un lampione ogni quattro era spento o bruciato, trasformando la stradina in un susseguirsi quasi regolare di coni di luce e d’ombra.

    Dai tombini, bocche dai denti di ferro digrignati verso il cielo, spire di vapore si levavano come da braci morenti, ammorbando l’aria.

    Un ragazzo in bicicletta imboccò un portone aperto e scomparve nel buio, come inghiottito da un buco nero.

    Lontano risuonò lamentosa la sirena di un’ambulanza, aumentando d’intensità per poi scemare fino a scomparire, lasciando nuovamente il silenzio.

    Una Toyota sfrecciò rombando nella via, i finestrini ab- bassati e lo stereo a tutto volume dal quale ruggivano note che sarebbe stato assai azzardato definire musica.

    Un gatto si fiondò dietro un cassonetto della spazzatura veloce come un fulmine, ed una coppia di passanti scosse il capo, evidentemente disapprovando quel che il guidato-re stava ascoltando.

    L’orologio della vicina chiesa rintoccò le tre, e i due uomini furono le ultime anime vive a transitare nella via per quella notte.

    E nessuno, né loro, né l’automobilista e nemmeno il ragazzo in bicicletta si accorse di lui.

    Giaceva a terra sotto un lampione spento, a pochi passi dalla luce, vicino ad un cassonetto.

    Occultato da quella luce che con i suoi giochi mostra o nasconde secondo i suoi capricci.

    Solamente il gatto si avvide della sua presenza, ma dopo una rapida ispezione si convinse che non c’era nulla di interessante per lui, e se ne andò per la sua strada, la coda ritta come la corda di un fachiro tesa verso le nuvole.

    Soltanto verso l’alba un paio di occhi umani si sarebbero posati su quel corpo in cui un tempo aveva albergato la vita di un uomo.

    Claudio Zanzi, il netturbino addetto a raccogliere i rifiuti in quel quartiere, sarebbe saltato giù dal retro del camion, si sarebbe diretto al cassonetto e sarebbe rimasto lì impietrito ad osservare la scena, per poi vomitarsi la cola-zione sugli stivali da lavoro.

    Il suo collega alla guida lo avrebbe chiamato, e una volta guardatolo in viso, si sarebbe reso conto che era accaduto qualcosa fuori dall’ordinario… qualcosa di estremamente grave.

    Insieme avrebbero allertato la Polizia, ed in breve la zona si sarebbe riempita di Agenti addetti alle indagini e di criosi tenuti a debita distanza.

    Per tutto il giorno, l’uomo sarebbe stato al centro dell’attenzione.

    Prima la deposizione in Commissariato, poi le domande dei colleghi e degli amici riguardo ciò che aveva visto.

    Il mattino seguente, leggendo del ritrovamento sul giornale, il netturbino avrebbe scosso il capo, dicendo ai col- leghi che la descrizione della stampa, seppur colma di dettagli raccapriccianti, non si avvicinava nemmeno lontana- mente a ciò che lui aveva veduto con i suoi occhi.

    Una volta descritto e stampato sulle pagine profumate di un giornale, l’orrore diventa accettabile ed ordinario… ma trovarselo dinanzi era tutt’altra questione.

    E lui sapeva bene quel che aveva veduto.

    Lo aveva fatto dar di stomaco per tutto il giorno prece- dente, e gli sarebbe rimasto impresso nella mente come un tatuaggio sotto la pelle… per tutti gli anni a venire.

    Indietro, avevano detto i Poliziotti alla gente che andava radunandosi in quella via come avvoltoi intorno ad una carogna.

    Non c’è nulla da vedere, avevano ripetuto più volte gli Agenti, come recitando il copione di un vecchio film poliziesco.

    In realtà, Claudio lo sapeva bene, da vedere c’era eccome… fin troppo… cose però che non dovrebbero mai finire sotto occhi umani… cose che ti cambiano la vita.

    Cose che ti fanno riflettere e ti tengono sveglio la notte… perché non è soltanto un cadavere quello che ti ritrovi da-vanti… è la rappresentazione, cruda e senza scampo, della natura più oscura ed antica dell’Uomo.

    Un Essere Umano che uccide barbaramente un suo simile.

    ***

    Giulia aprì gli occhi nella penombra della camera da letto ed emise un gemito di fastidio spegnendo la suoneria della sveglia del cellulare.

    I primi raggi del sole filtravano dalle persiane chiuse spandendo sul letto una miriade di puntini luminosi, rendendo le lenzuola del tutto simili al manto di un leopardo.

    Un sommesso gnaulio la indusse ad allungare un braccio per accarezzare la gatta dal pelo tigrato che dormiva accanto a lei.

    - Buon giorno Mimì - mormorò la ragazza con voce an-cora impastata di sonno.

    In risposta ricevette una strusciata di muso e una serie in-terminabile di sonore fusa.

    Si alzò dunque pigramente dal letto, infilandosi le ciabatte e dirigendosi verso il bagno.

    Acqua fredda.

    Ecco quel che le serviva per uscire da quello stato di tran- ce che sta tra il sonno e la veglia.

    Senza nemmeno guardarsi allo specchio si sciacquò allora il viso, si lavò i denti e si diresse, ora del tutto sveglia, ver- so la cucina.

    L’orologio appeso alla parete segnava le 06:47 di un tiepido Martedì 28 Settembre.

    Giulia mise su il caffè, guardò distrattamente nel frigo e si diresse nuovamente in camera da letto.

    Si infilò i jeans, le scarpe da tennis e una maglietta bianca con una bocca rossa sorridente, quindi andò in bagno.

    Emettendo un sospiro poggiò i palmi ai bordi del lavandino e si guardò allo specchio.

    Dalla superficie lucida, due occhi azzurri la fissarono enigmatici, un velo di tristezza ad offuscarne la bellezza.

    La ragazza prese i trucchi da una borsetta poggiata su una

    mensola, e cominciò a passare un pennello con un po’ di terra sulla pelle candida del viso.

    Ogni tanto si interrompeva e fissava il suo riflesso, ogni volta con aria più perplessa.

    In fondo, quanti motivi aveva per essere insoddisfatta, quella ragazza nello specchio?

    Non le mancava nulla in apparenza… tuttavia…

    Cosa c’è di sbagliato in te? Pensò per l’ennesima volta.

    In fondo chi sei?

    Giulia Lorenzi. Ventotto anni… bhè… ventinove tra nemmeno un mese. Una casa a Samarate in affitto, troppo grande per lei soltanto. Un lavoro che adorava come Educatrice di prima infanzia presso il Nido Comunale di Cadano al Campo, il paese vicino al suo. Pochi amici veri. Un padre e una madre che le volevano bene. Un gatto. E un leasing sulle spalle per una Clio verde bambù.

    Cosa ti manca? Sei anche una gran figa Giulia… e allora?

    Sorridendo del suo stesso pensiero, si ravvivò i lunghi cpelli castani, facendoseli ricadere in morbide onde sulle spalle.

    Quante persone sarebbero state felici nei suoi panni… con un lavoro stabile e degli affetti sinceri?

    Tante… certo.

    Eppure…

    Eppure c’era sempre quell’insoddisfazione di fondo… quella sensazione di incompletezza…quella…

    Oh, ma piantala Giulia! Lo sai benissimo qual è il problema.

    Già.

    Lo sapeva.

    Ci rimuginava sopra da mesi ormai, era diventato una specie di tarlo che lavorava nel suo cervello, e che non riusciva

    a scacciare.

    Ne aveva parlato con alcune amiche, e tutte quante l’ave- vano rassicurata e le avevano detto che il problema non esisteva, che era solamente nella sua testa, ma nemmeno le loro parole erano riuscite a farla smettere di arrovellarsi sulla questione.

    Perché ormai Giulia si era convinta di essere incapace di amare.

    Nei suoi pensieri era inconcepibile che in ventotto anni non si fosse mai innamorata.

    Alcuni flirt, qualche storiella… e poi un vasto, interminabile nulla.

    Le sue relazioni con l’altro sesso non duravano mai più di qualche mese, trascorsi i quali cominciava a farsi strada nel suo cuore una strisciante inquietudine, un desiderio di fuggire e di tornar sola.

    A quel punto troncava e cancellava dalla sua vita quella persona, come se non fosse mai esistita.

    Provava forti sensi di colpa quando lasciava qualcuno, ma non poteva farne a meno.

    Per lei l’amore doveva essere qualcosa di più del ridere e del trascorrere qualche bella serata insieme; l’amore con la A maiuscola era un sentimento che, ne era certa, trascen-deva il mero concetto di divertimento.

    Era abbandono, fiducia, tepore, sensazioni che lei non ave-va mai provato con nessun uomo.

    E nella sua mente, come due più due faceva quattro, era pressoché impossibile che tra tutti gli uomini esistenti non ve ne fosse uno del quale innamorarsi.

    Ergo, il problema non erano gli altri… era lei.

    Semplicemente non sapeva provare amore, e di conseguenza era totalmente inadatta a una relazione.

    Convincitene Giulia. Non sai amare.

    Terminò di truccarsi con un leggero velo di lucidalabbra proprio mentre il borbottio della caffettiera dalla cucina la informava che il caffè era pronto.

    Si versò un’abbondante tazza di caffè nero, riempì la ciotola di Mimì con i croccantini e si sedette al tavolo della cucina.

    Bhè… comunque fosse era totalmente inutile stare a pensarci troppo… ognuno era quel che era, ed era una perdita di tempo cercare di comprenderne i motivi… lei era co- sì… punto.

    Anche la storia con Fabio, terminata da qualche mese, era andata alla stessa maniera.

    Si erano conosciuti, lui le aveva chiesto di uscire e lei lo aveva trovato abbastanza interessante, quindi aveva accettato.

    Si erano piaciuti, e avevano cominciato a frequentarsi con una certa assiduità.

    Una sorta di relazione.

    Dopo un mese e mezzo lui si era innamorato di lei.

    Lei no.

    E quando lui le aveva confessato di amarla, lei era scap-pata a gambe levate.

    Tutto come al solito… niente di nuovo.

    Le mancava?

    Mmm… no.

    Eppure Fabio era un ragazzo in gamba… dolce, sensibile e con la testa sulle spalle.

    Il tipo d’uomo del quale una ragazza sana si sarebbe inna-morata in un lampo.

    Ma non lei.

    Perché lei era diversa, ripeté a sé stessa terminando di sorseggiare il caffè… lei era strana.

    Imponendosi di smettere di farsi del male già la mattina presto con certi pensieri, Giulia si alzò, fece una coccola a Mimì acciambellata sul divano e uscì.

    La attendeva una splendida giornata con i suoi bimbi, e non aveva alcuna intenzione di farsela rovinare da sciocchezze come quelle.

    Tuttavia, già al primo semaforo che la separava dal lavoro il tarlo aveva ricominciato il suo lento e paziente lavorio.

    Le sue coetanee già sposate… la madre che le rimprovera-va il fatto di essere tropo esigente e di non sapersi accontentare… e quel senso di vuoto ed incompletezza.

    Giulia accese allora l’autoradio, ma la spense con stizza non appena ascoltate le prime note di una smielata canzone d’amore.

    Scattò il verde, e la ragazza spinse a fondo l’acceleratore facendo stridere le gomme.

    Chi se ne frega! Sto bene anche da sola.

    ***

    Le cellule tumorali in fondo altro non sono che normalisti-me cellule che un giorno, per noia, caso o reiterate provocazioni, decidono di impazzire.

    Questa non è sicuramente una teoria tra le più ortodosse o annoverabile tra quelle accettate negli ambienti accademici... ma è pur sempre un’ipotesi.

    Per i medici, una neoplasia è un insieme di cellule che smettono di rispondere ai meccanismi fisiologici dell’organismo, a seguito di danni o mutazioni al loro patrimonio genetico.

    In poche parole: cellule che danno fuori di matto.

    Due definizioni molto distanti tra loro, ma che descrivono un meccanismo che porta ad un identico risultato: la morte dello stesso organismo generante.

    In linea di massima, e puramente filosofica, si può dire che il tumore sia una della cose più idiote mai esistite.

    Attacca l’organismo che lo ha generato e lo ospita, ignorando la sua sofferenza, ed infine uccidendolo... non considerando che così facendo causa anche la propria rovina perché, come è ovvio, esso non può vivere dopo che il corpo che lo ospita è morto.

    Si può essere più stupidi?

    Bhè... pensandoci bene forse il tumore non è l’unica cosa che agisce in tal modo.

    In natura esiste un altro organismo che ha le sue stesse caratteristiche ed agisce nella stessa dissennata maniera.

    Quale?

    L’Essere Umano ovviamente.

    Analizzando approfonditamente la questione, ci si accorgerà che se consideriamo il Pianeta Terra come l’organismo ospitante e generante, e gli uomini come singole cellule formanti i suoi tessuti, noi non siamo molto differenti dalle cellule neoplasiche.

    Esse sono caratterizzate dalla totale perdita funzionale e morfologica rispetto al tessuto di origine.

    Non lo siamo forse anche noi uomini moderni e civilizzati?

    Non siamo forse totalmente differenti, per morfologia, scopi e stili di vita, dagli antenati dai quali discendiamo?

    Ciò che arrogantemente chiamiamo Evoluzione, in realtà altro non è che la perdita o la mutazione del nostro corredo genetico originario, secondo il quale avremmo dovuto vi-vere in armonia e per il bene dell’organismo che ci ospita... non a suo discapito, soggiogandolo e rendendolo debole e malato.

    L’altra caratteristica delle cellule tumorali è la tendenza ad espandersi per l’organismo, infiltrandosi nei tessuti vicini, invadendoli, infettandoli ed infine distruggendoli.

    L’umanità non fa forse esattamente la stessa cosa?

    Si espande, invade territori, ne sfrutta impunemente ed irresponsabilmente le risorse, fino a consumarle, rendendo la terra sterile ed arida, arroventando l’aria con gas tossici, bucando il cielo ed avvelenando i mari.

    Guardiamo in faccia la realtà: noi siamo il tumore del mondo.

    Lo stiamo portando lentamente alla morte, e facciamo finta di non accorgerci o di non sapere che così facendo ci dirigiamo dritti verso la nostra stessa rovina.

    Perché, come le cellule tumorali muoiono dopo aver ucci-so l’organismo che le ospita, così noi non potremo vivere dopo aver distrutto la terra che ci ha generati.

    Eppure non è stato sempre così.

    C’era un tempo in cui l’umanità sapeva vivere in armonia con la madre terra, rispettandola e vivendo secondo le sue leggi.

    Un tempo ormai dimenticato, certo... ma c’è stato.

    Alcuni scienziati hanno recentemente osservato che l’espansione topografica delle nostre grandi metropoli, vista dall’alto, somiglia in maniera allarmante all’espansione dei tessuti tumorali.

    Stesso andamento progressivo e stessa forma.

    Ciò dovrebbe spingerci a riflettere.

    Forse allora non siamo noi i tumori sulla pelle della terra... è ciò che costruiamo, quelle mostruosità che chiamiamo città, la vera piaga.

    Quegli alveari a cielo aperto in cui noi stessi ci releghiamo, pieni di cellette in cui vivere una non vita, costellati di bocche velenose che sputano fumi tossici nel cielo che or-mai nemmeno guardiamo più.

    Tessuti cancerosi che si espandono infettando tessuti sani adiacenti, prigioni nelle quali noi stessi, cellule che le for-mano, non possiamo vivere.

    Perché ciò che abbiamo costruito intorno a noi ci aliena e ci modifica, mutando o danneggiando il nostro patrimonio genetico di umani, rendendoci grottesche parodie di noi stessi, in balia dei nostri istinti più meschini.

    Prendiamo Milano.

    Vista da un aereo o ripresa da un satellite, altro non sembra che un grumo di cemento oscenamente sputato da un polmone catarroso nel verde della pianura padana.

    Non che vista dal livello della strada il suo aspetto migliori molto, intendiamoci. Un insieme caotico di edifici sgraziati e grigi, strade affollate di macchine strombazzanti, pe-doni isterici e binari sferraglianti.

    Addirittura il suo sottosuolo è invaso da tunnel percorsi da vermoni di ferro con nel ventre orde di persone accalcate e sudate, per lo più infelici.

    Non si può vivere felici a Milano.

    Non si può vivere sereni a Milano.

    Si può vivere e basta.

    Orrenda icona del mondo occidentale moderno, questa matrigna obbliga i suoi figliastri a vivere secondo i suoi ritmi e le sue regole.

    Ritmi e regole totalmente inadatti al mantenimento di un adeguato benessere psicofisico.

    Costringe le persone a vivere come formiche, l’una sull’al-

    tra, senza intessere tra loro alcun rapporto, pensando esclusivamente a produrre.

    Per cosa poi?

    Per comprare cose... oggetti su oggetti che nemmeno si sa dove stipare, e che nemmeno si useranno... in ogni caso, oggetti che non miglioreranno certo la vita di chi li possiede.

    Un nuovo PC, identico al primo ma più potente, un frullatore con il quale nessuno si farà mai un frullato... o l’Iphone, status symbol dell’idiota dei nostri tempi, un minicomputer telefono, videogioco, radio, e quant’altri cazzi possibili e immaginabili che il deficiente di turno ha comprato lavorando come un matto, e del quale conosce sì e no il cinque per cento delle funzioni.

    Ma fa figo... è stiloso direbbe l’ominide evoluto ultragriffato... e allora lo si compra...

    Perché produrre e consumare sono i primi due dogmi del-la nuova religione urbana.

    Sei ciò che possiedi... niente di più... e se non possiedi nulla, non sei nulla.

    Produrre.

    Bhè... l’unica cosa che le metropoli producono, e Milano non fa certo differenza, è un sacco di materiale escrementizio.

    Escrementi reali e tangibili, sfornati quotidianamente dai milioni di abitanti-formiche, che si riversano nelle fogne come una marea maleodorante... e merda metaforica, sotto forma di criminalità, indifferenza, emarginazione e disturbi mentali.

    E il guaio è che questa merda metaforica, insieme all’espansione della città-mostro che sta inglobando come un cancro tutte le zone adiacenti, invade l’hinterland, fino a pochi anni fa vivibile ed accettabile.

    Questo hinterland, la cintura che circonda l’abominio, si sta sempre più ampliando, trasformando in orrende succursali di Milano paesi fino a poco tempo fa integri.

    L’hinterland di Milano ormai si spinge fino ai confini del-la Provincia, sconfinando quasi nel Varesotto, e le conseguenze sono sotto gli occhi allibiti di tutti.

    Quindi, se oggi i crimini aumentano anche in paesini tranquilli dal nome sconosciuto... se l’alienazione mentale sconfina dal territorio della metropoli, lazzaretto nel quale era stata scientemente confinata fino ad oggi, bhè... non è che ci sia da stupirsi più di tanto.

    In fondo lo sanno tutti.

    Il sonno della ragione genera mostri

    ***

    L’uomo sedette stancamente sulla poltrona con rotelle del suo ufficio, diede un’occhiata allo schermo del computer e poggiò i gomiti sulla scrivania, prendendo a massaggiarsi le tempie.

    La barba di due giorni ed un paio di occhiaie di propor-zioni apocalittiche denotavano stanchezza e stress.

    Sarebbe stato anche un bell’uomo… alto, fisico asciutto, sulla quarantina, e due occhi scuri intelligenti e vagamente malinconici, non fosse stato per l’aria trasandata e spossa-ta.

    Con la maglietta sgualcita ed i jeans slavati, ed ai piedi un paio di stivali di cuoio a punta, l’uomo pareva un cowboy che si fosse perduto e si fosse ritrovato in un ufficio senza comprenderne il motivo.

    Si tolse gli occhiali e prese a giocherellare con l’astina, cercando di riordinare le idee.

    Che cazzo di situazione…

    Fuori dalla porta a vetri del suo ufficio, il rumore dei fax e dei telefoni gli ronzava fastidiosamente nella testa impedendogli quasi di pensare.

    Dalla tasca dei jeans estrasse un blister, dal quale snocciolò un’aspirina che inghiottì senz’acqua.

    Il mal di testa ormai era diventato un compagno fidato, la presenza del quale l’uomo poteva dar per scontata già prima di aprire gli occhi la mattina.

    Portando la pastiglia alla bocca, lo sguardo gli cadde sulla fede nuziale all’anulare sinistro.

    Lentamente se la tolse e se la rigirò tra le dita, leggendo ciò che era stato inciso all’interno.

    Alessia. 6 Luglio 2000.

    Dio… erano già trascorsi dieci anni.

    Il tempo era volato… gli era scivolato tra le dita come la sabbia fine di una clessidra… e lui non se n’era nemmeno accorto.

    Qualcuno bussò al vetro, riportandolo crudelmente al pre- sente.

    Si rinfilò allora l’anello al dito ed alzò lo sguardo verso la porta.

    Mombelli.

    - Avanti - disse atono.

    L’Agente Mombelli socchiuse leggermente l’uscio e vi in-filò il capo, reggendo sotto braccio una pila di fascicoli ri-legati.

    - È permesso Vice Questore? - domandò con spiccato ac-cento romano.

    - Se ho detto avanti… - rispose il Vice Questore Aggiunto

    De Santis.

    Il Poliziotto entrò allora e richiuse la porta.

    - Signore.Volevo informarla che il Caso Guidi, si ricor- da… quello per il quale ci hanno telefonato ieri sera prima che lei se ne andasse. Quello dell’individuo che ha spara-to… -

    - Mi ricordo Mombelli, mi ricordo - lo spronò a proseguire agitando una mano lui.

    - …ecco, lo abbiamo prelevato ieri sera. Nessun ferito. Ha sparato al vicino con un fucile da caccia perché dice che, cito testualmente, il cornuto gli rubava i fichi. Ma l’ha mancato. È stato incriminato per tentato omicidio. Notte-tempo il Guidi ha confessato -

    Nottetempo?

    - Nottetempo Mombelli? - si raddrizzò lentamente sulla se-dia De Santis. - Che cazzo significa nottetempo? -

    - Significa durante la notte Signore - rispose candidamen- te l’uomo.

    - Lo so cosa significa Mombelli - sospirò il superiore con tono rassegnato.

    - È che non sopporto certe terminologie desuete. Lo sai cosa vuol dire desueto Mombelli? -

    - No Signore -

    - Ecco, appunto. Allora parla come mangi. Tu Mombelli avresti

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