La quarta vittima
Di Fabio Oceano
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Anteprima del libro
La quarta vittima - Fabio Oceano
Dragonland
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1909. Sarah
Mi chiamo Albert Fish. Sono nato il 19 maggio 1870 a Washington, DC. Mio padre morì il 15 ottobre 1875 e io fui messo nell'Orfanotrofio di St. John a Washington. Rimasi lì fino a che non ebbi quasi nove anni, ed è lì dove ho iniziato a sbagliare. Venivamo spietatamente frustati. Ho visto ragazzi fare molte cose che non avrebbero dovuto fare. Cantai nel coro dal 1880 al 1884, soprano, al St. John. Venni a New York. Ero un buon pittore, interni o altro. Avevo un appartamento e portai mia madre da Washington. […]Fu lì che incontrai mia moglie. Dopo che i nostri sei bambini furono nati, lei mi lasciò. Portò via tutto il mobilio e non lasciò neanche un materasso per i bambini su cui poter dormire. Sono ancora preoccupato per i miei figli, pensereste che loro potrebbero venire a visitare il loro vecchio padre in galera, ma non lo fanno.
La primavera è iniziata da poco, il sole è alto e caldo e le giornate di pioggia sono un ricordo che sbiadisce in fretta nella mia mente di dodicenne. Per giunta è domenica: una giornata ideale per darsi ai giochi e andare in giro con gli altri ragazzini del vicinato.
Il quartiere in cui viviamo non è tra quelli più ricchi: c’è aria di crisi, un sacco di gente parla di andarsene via in cerca di un’occasione migliore. Tutti vogliono vivere in una casa più grande o permettersi di cenare da Rodrigo o da MacDonnelly tre sere a settimana. Come il cugino Humphrey, partito per il Brasile qualche mese fa e che da allora non ha scritto nemmeno una lettera a casa.
La povera zia Adele non fa che lamentarsi del figlio: quasi ogni giorno all’ora del the la trovo seduta in cucina a scambiare due chiacchiere con mia madre, la quale poi si lamenterà di dover tirare fino a tardi per finire i lavori di casa.
Oggi la zia è in anticipo sul solito orario: nelle mani stringe un fazzoletto e ha l’aria così affranta che la mamma fa in tempo a porgerle una sedia sgangherata prima che lei vi posi il culo incredibilmente grande e scoppi a piangere.
— Bobby — dice la mamma chiamandomi con un cenno.
Odio quando mi chiama così: mi fa sentire ancora un bambino col moccio al naso come quelli che giocano nella trappola di sabbia del parco. Però non oso dirglielo: se lo facessi, poi dovrei vedermela con la cinghia di papà.
Non la usa spesso e non mi ha mai dato più di due o tre colpi per insegnarmi a rigare dritto
– parole sue – ma non ho voglia di assaggiarla comunque.
— Bobby — ripete la mamma tra un singhiozzo e l’altro della zia. Quando entro nella cucina, le trovo sedute entrambe al tavolo dove consumiamo colazione e cena. Ci sono due tazze di caffè fumanti e il puzzo di una sigaretta spenta da poco. — Perché non porti Sarah a giocare nel parco? È una giornata così bella: è un peccato starsene chiusi in casa.
So che è solo un pretesto per togliersi dai piedi Sarah e non farle assistere ai piagnistei della zia Adele. Per qualche motivo che sa solo lei, mamma non vuole che la figlia veda piangere gli adulti.
— Le fa venire gli incubi — dice quando lei e papà ne discutono.
— Fai come ti pare — è la risposta che Jim Twinsend le da più spesso.
Mia sorella non è più tanto piccola, ma non è ancora abbastanza grande da andarsene da sola in giro per il parco. Per questo tocca a me accompagnarla alla trappola di sabbia, dove si riuniscono le mocciose della sua età per fare tutte quelle cose che odio e che non sopporto di vedere.
La piccola Sarah ha cinque anni e mi arriva a malapena alla cintola. È la beniamina della famiglia, il piccolo angelo come la chiama mia madre. Lo è perché la mamma non potrà avere altri figli oltre ai due che ha già, con grande rammarico di papà che voleva una famiglia più numerosa e qualche altro figlio maschio da mandare a lavorare non appena avesse raggiunto l’età giusta.
Toccherà a me lavorare per i sei o sette fratelli che non ho avuto. Poco male, la fatica non mi spaventa. Sarah a casa è una peste, fa i capricci e tutte quelle cose che irritano i fratelli maggiori, ma sa farsi apprezzare quando vuole. Ha quel sorriso contagioso che se la guardi non puoi fare a meno di sorriderle di rimando e due occhi grandi e luminosi, di un verde chiaro che mandano in estasi le donnine che incontriamo il giovedì al mercato rionale.
Mamma le ha infilato una blusa leggera e una mantellina che può togliersi se la temperatura aumenta e un cappellino di lana rosso per proteggerle la testa e le orecchie dagli spifferi.
Quando usciamo di casa mi assicuro che il cappellino sia al suo posto e ben calcato: se si buscasse un malanno sarei io a pagarne le conseguenze.
Succede sempre così: Sarah si sbuccia un ginocchio e io vengo punito. Sarah rompe il vaso dei fiori e il costo mi viene tolto dalla paga settimanale. Sarah dice una parolaccia nuova che ha imparato dalle amichette del vicinato e a me tocca restare senza cena.
Mi dicono che sia il destino dei fratelli maggiori. Io ci credo poco ma sopporto: in fondo Sarah, tolta l’abilità innata di cacciarsi nei guai, è una bambina adorabile. E chissà se da grande non sarà lei a tirare me fuori dai guai.
Per fortuna gli adulti del quartiere fanno a turno per sorvegliare le bambine mentre giocano. Oggi tocca a Rosy O’Morghan, una vecchia zitella che non ha mai avuto figli ma che si offre spesso volontaria per badare a quelli degli altri. È una fervente cattolica o qualcosa del genere.
Mentre trascino Sarah lungo i sentieri sinuosi del vecchio parco, passiamo proprio davanti a Rosy che ci saluta con un sorriso sbiadito. — Salve piccolina — dice con voce chioccia. Chiama tutte le bambine piccolina
o tesorino
. Quando lo fa le appaiono due fossette sulle guance scavate e gli occhi diventano altrettante mezzelune dietro gli spessi occhiali da lettura.
La ignoro e deposito mia sorella in mezzo alle altre ragazzine. Mi sento più sollevato ora che non devo più badare a lei: senza salutarla mi volto e torno sui mie passi.
Joy Turrino mi aspetta sul sentiero, le mani infilate nei calzoni troppo larghi che ha ereditato dal fratello dopo che questi si è arruolato e se n’è andato di casa. — Bob — esordisce con aria preoccupata. — È meglio se non vai da quella parte.
— Perché? — gli chiedo proseguendo dritto per la mia strada.
Joy mi affianca e adatta il suo passo, di solito veloce e nervoso, al mio. — Tom Driscoll dice che ti spaccherà la faccia se ti fai rivedere al campo.
— È questo che va dicendo?
Joy annuisce in modo grave.
Con Tom ho avuto più di una discussione. È una specie di teppista alto quanto un penny che pensa di essere il padrone di un minuscolo campo da gioco nella parte orientale del parco. È poco più di una spianata di terreno piena di buche che d’inverno si riempiono d’acqua rendendolo impraticabile e d’estate è infestato dalle erbacce e dagli