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Entomo
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Ebook430 pages6 hours

Entomo

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About this ebook

La vita nel formicaio fa sentire Gaios un ingranaggio senza possibilità di realizzazione. L'intraprendente formica decide così di fuggire dall'oppressione assieme a una pulce, Lacnos, e a una farfalla, che verrà aiutata a evolversi dallo stato di bozzolo.
Ma l'equilibrio dell'ecosistema è a rischio, e così una spedizione di insetti capeggiata da una mantide religiosa, una vespa, una libellula e una coccinella, parte a caccia dei dissidenti, che verranno catturati, senza tuttavia darsi per vinti…

Entomo è un libro che metaforizza l'universo degli insetti rapportandolo a quello umano. Non a caso i personaggi, a dispetto della loro natura, sono rappresentati con l’aspetto di esseri umani, pur muniti di appendici come antenne e ali. La storia è infatti caratterizzata da sentimenti puramente relazionali, quali l'amicizia, la solidarietà e la voglia di sentirsi liberi.
Entomo è un libro, per composizione stilistica e narrativa, adatto a tutti e con messaggi universalmente condivisibili.
LanguageItaliano
Release dateDec 13, 2015
ISBN9788867932030
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    Book preview

    Entomo - Federica M.

    http://creoebook.blogspot.com

    Federica M.

    έντομο

    (Entomo)

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    1.

    È mezzogiorno spaccato. Il sole mi batte sopra la testa, si riflette nell’alluminio bacato dei bidoni rovesciati e mi colpisce gli occhi. Devo mangiare. Ho fame e muoio di sete. Quindici minuti per mangiare, non un secondo di più e poi posso tornare al mio viaggio.

    Butto le mani dentro a uno spiraglio di acqua fangosa incastrata tra i sassi della strada. Le dita si insozzano di poltiglia appiccicosa verde e marrone. Mi annuso le dita e storco il naso. Che puzza. Non posso berla, proprio non posso. Ma devo mangiare.

    Sbatto le dita schizzando via l’acqua. Mi pulisco le antenne fino alla punta con le mani inumidite e mi asciugo i polpastrelli frizionandoli tra i capelli. Ora puzzerò anch’io.

    Lo stomaco gorgoglia. Mi tengo la pancia nel punto in cui brontola e soffoco un gemito. Sarà passato un minuto da mezzogiorno. No, non posso. Non posso aspettare ancora troppo, sono già fuori orario.

    Mi rialzo in piedi e ripulisco i pantaloni dalla sabbia della stradina. Volgo gli occhi al cielo e il sole che passa tra i tetti mi acceca. Un uccellino si posa su un comignolo e guarda in basso. Oh, maledizione!

    Il cuore mi balza in gola. No, non può avermi visto! Copro la testa tra le mani e corro sotto l’ombra di una casa. Mi schiaccio contro la parete, infilandomi dietro un sasso e rimango appiccicato con il cuore che mi martella nelle orecchie. Grosse gocce di sudore scivolano sulle guance.

    Non gli do torto. È già passato mezzogiorno, quell’uccellaccio avrà fame. Ho fame anch’io. Beh, in realtà non poi così tanta, ma devo mangiare. Sono quelle le regole, prima mangi e poi torni al lavoro. Poi il sole cala e vai a dormire, il sole sorge e torni a lavorare fino a che non mangi di nuovo e poi lavori e poi torni a dormire e...

    Stringo il pugno fino a sentire le unghie nella carne. Tremo fino alla punta delle antenne.

    No, non è per questo che ho deciso di andarmene. Se ho mollato tutto è proprio per scappare da quella vita. Ma qui...

    Sollevo le spalle dal muro e guardo il vicolo in cui mi sono intrufolato. L’acqua stagnante scorre nella strada come un olio luccicante. Dai bidoni ribaltati esce una poltiglia puzzolente e bitorzoluta che si squaglia sotto il calore del sole. Da una lattina rossa rovesciata esce un rivolo marrognolo che si mescola alla pozzanghera. Dubito che troverò del grano.

    Faccio un sospiro e sollevo gli occhi al cielo. L’uccellino se n’è andato. Bene.

    Mi scollo dal muro della casa e affondo con i piedi nel fiumiciattolo appiccicoso. Tiro su una gamba e storco il naso. La bocca si arriccia in un’espressione di disgusto. Le scarpe! Ho sporcato le scarpe!

    -No, no, no! Piedi puliti, piedi puliti!-

    Sgambetto fuori dalla pozza e mi chino a togliere le scarpe. Le slaccio e me le sfilo. I calzini si sono scuriti e sono più pesanti e umidi. Si sono bagnati anche quelli. Giro la scarpa e una cascata marrognola piove sulla strada. Caccio fuori la punta della lingua. Bleah!

    Sgocciolo la scarpa fino a che non smette di grondare dalla suola e dai lacci.

    Un rumore mi fa sollevare lo sguardo, il tintinnio delle unghie sulla strada mi fa rizzare le antenne. Rimango pietrificato con la scarpa in mano e un cane sbuca fuori dall’angolo del vicolo. Il pelo polveroso si trascina dietro le zampe. La coda si agita per aria, le orecchie gli cadono sul muso. Il cane appoggia il naso a terra e continua a zampettare, sniffando il terreno. Il folto pelo del muso si tinge di grigio, grumi di fango gli imbrattano la pelliccia, i ciuffi annodati gli nascondono gli occhi. Povera bestia.

    Resto immobile. Non dovrebbe farmi niente, ma preferisco non finire tra le sue zampacce. Il cane scodinzola un’altra volta e saltella verso il bidone rovesciato. La testa sparisce dentro la latta, la coda continua ad agitarsi. Do un’altra scrollata alla scarpa e me la rinfilo sopra il calzino freddo e umido. È la mia occasione per svignarmela.

    Arresto subito il passo e rimango fermo come una statua. Non sono passati quindici minuti. Io posso rimettermi in marcia solo dopo quindici minuti di pausa e in più non ho nemmeno mangiato. Io... io...

    Mi colpisco la tempia con un pugno. Ribellati. Ribellati allo schema.

    Lo stomaco gorgoglia di nuovo. Due fili di saliva sbrodolano dai canini. Ora forse ho davvero fame.

    Il cane fa rotolare il bidone su un fianco e scaglia fuori dalla spazzatura un barattolo bianco. Un’etichetta blu avvolge la plastica del collo, sotto il tappo dello stesso colore. Il contenitore rotola lontano dal bidone e il tappo salta via. Piccole scaglie bianche escono dalla bocca circolare e cascano dentro la pozzanghera. Alcune si sciolgono. Forse è zucchero.

    Lancio un’occhiata al cane. L’animale tira fuori il naso. Tra i denti stringe un cosciotto di pollo che gocciola fili d’olio sulla pelliccia impolverata, imbrattandola ancora di più. Il cane si accuccia sulla strada e blocca l’osso tra le zampe. Spalanca le fauci e addenta la carne, strappandone la pelle a grandi morsi. Odio i cani, ma questo non mi darà fastidio.

    Corro fino al barattolo. Abbraccio la base di una delle scaglie che mi macchia tutta la maglia con la polvere bianca. Appoggio il naso sulla superficie, le punte delle antenne sfiorano la cima. Non ha un buon profumo, ma non riesco a riconoscerlo. Forse non è zucchero.

    Deglutisco. Le mani stringono di più e la polvere bianca si infila sotto le unghie. Devo mangiare. Spalanco la bocca e tiro fuori la lingua. Le punte dei canini scintillano sotto il sole.

    Io non lo farei se fossi in te.

    Rimango con il naso a pochi millimetri dalla superficie del boccone. Mi volto alle mie spalle senza mollare l’abbraccio della scaglia.

    Il cane mastica il suo pranzo, schiuma bianca e gialla gli cola dalle labbra e gli unge il pelo. La coda spazzola il terreno dietro di lui. Non può essere stato il cane, i mammiferi non parlano.

    Ehm, forse non mi hai sentito, ma è meglio che lo metti giù.

    Mi stringo al mio pasto e faccio un balzo all’indietro. Non sapevo che in città ci fossero i fantasmi.

    Un’ombra salta fuori dal pelo del cane. Gli rimbalza sulla testa, fa dondolare due peli e gli atterra sulla punta del naso. Si mette cavalcioni davanti ai suoi occhi e fa ciondolare i piedi di fianco al muso. Grosse scarpe munite di manopola ai lati delle suole si sfregano contro la pelliccia del mammifero. Una pulce!

    La pulce si sporge in avanti e appoggia i gomiti sul naso del cane. Si stringe il viso tra i pugni e mi rivolge un’occhiata dall’alto.

    Vuoi rimanerci stecchito? mi dice ancora. Incrocia gli avambracci davanti al petto e scuote la testa. No mangiare, capito? Cibo cattivo. Tu morire, chiaro?

    Piccole e tozze antenne si allungano dai capelli castani arruffati e polverosi come il pelo del cane.

    Lascio andare la scaglia bianca. Il boccone cade nella pozza e frigge in un grumo di schiuma lattea. Mi strofino le mani sui pantaloni e ricambio lo sguardo della pulce.

    D’accordo, d’accordo. Guarda che so parlare.

    La pulce sgrana gli occhi. Due scintille nocciola sotto la frangia impolverata.

    Oh, bene! esclama.

    Il cane scuote il muso. Minuscole goccioline di olio schizzano per terra. La pulce allarga le braccia per tenersi in equilibrio.

    Oh, oh.

    Scivola di fianco e si aggrappa a uno dei baffi dell’animale. La pulce dondola all’indietro, i piedi premono sul manto del cane.

    Solo un attimo. mi dice.

    Faccio un passo all’indietro. Non vorrà...

    La pulce toglie una mano dal baffo e la avvicina alle scarpe. Le dita scivolano sotto i pantaloni che si gonfiano attorno alle caviglie e si stringono attorno alla manopola al lato della scarpa. La mano della pulce gira. La freccia della manopola percorre l’arco del quadrante che si colora di verde, poi di giallo. Il puntatore indica lo spazio colorato di rosso e un lungo fischio riempie il silenzio del vicolo.

    Faccio un altro passo all’indietro.

    La pulce gira la manopola anche sull’altra scarpa e si riappende al pelo con entrambe le mani.

    Arrivo!

    Schiaccia le scarpe sul pelo. Piega le ginocchia e china le spalle in avanti. Dalle sue scarpe continua ad arrivare il sottile ronzio. Un alone giallo si espande dalle suole. La pulce preme di più sul cane e un sorriso gli fa risplendere i canini. Molla il pelo, si dà uno slancio in avanti, chiudendo le braccia sui fianchi. Le gambe si tendono, l’alone giallo delle suole si lascia dietro la scia dorata.

    Mi copro la testa e mi giro, tenendomi le antenne. Un rimbombo proprio davanti ai miei occhi mi fa urlare di paura. Una folata di vento alza un polverone che mi investe le gambe fino alle ginocchia. Separo le braccia e lancio un’occhiata dietro di me. La piccola pulce è in piedi su una gamba sola. Fa un giro su se stesso a braccia spalancate e ricade al centro del cratere che lui stesso ha creato. Traballa di lato, si tiene la testa e distende un sorriso.

    Atterraggio riuscito! esclama.

    Scuoto la testa e mi strofino i capelli. Una nuvola di polvere si ingrossa attorno alla mia testa. Che schifo.

    La pulce si strofina i pantaloni ingrossati alle caviglie e si sistema il cappuccio della felpa dietro al collo.

    Non avrai mangiato quella roba, vero? mi chiede.

    Abbasso lo sguardo. La scaglia bianca è fritta in una densa spuma bianca. Il mio stomaco gorgoglia ancora.

    Ehm, no.

    Oh, bene!

    La pulce si arruffa i capelli e si sistema le antenne, stendendole tra i pugni.

    Dopotutto, se lo avessi fatto, ora staresti stramazzando al suolo con i liquami dei tuoi stessi organi che ti escono dalla bocca insieme alla linfa.

    Ridacchia divertito e fa un’altra piroetta.

    Mi tengo la gola e faccio un passo indietro. D’improvviso non ho più fame.

    2.

    La formica ha smesso di tremare. Si liscia i vestiti con le mani ancora sporche di residui di detersivo. La polvere bianca lascia impresse grandi macchie sui pantaloni grigi.

    Non... non so di cosa tu stia parlando. mi dice.

    Le antenne mi guizzano verso l’alto. Chino il capo di lato e intreccio le gambe, dondolandomi sui piedi.

    Hai idea di cosa stavi per mangiare?

    Lui diventa rosso. Nasconde lo sguardo alzando gli occhi, il suo piede si sfrega sulla caviglia.

    Ma… Arriccia il naso. Le guance sono paonazze. Ma certo che lo so. Stavo... stavo...

    Io sospiro e mi chino. Questo è detersivo.

    Abbraccio una delle scaglie, stringo i denti e faccio pressione spingendola con la fronte e con le ginocchia. Il detersivo non si muove di un millimetro dal suolo. Cacchio, questi campagnoli sono proprio forti!

    Scendo dalle punte dei piedi e mi ripulisco le mani.

    Non sei di città, vero? gli chiedo.

    La formica si passa una mano tra le antenne. Le dita scorrono tra i fini capelli grigi. Quando il sole ci batte sopra sembrano alluminio.

    Sono arrivato solo qualche ora fa. Anzi… Volge gli occhi al cielo. Lo sguardo sprofonda nel panico. Quanti minuti sono passati?

    Piego la testa di lato. Che hai detto?

    I minuti!

    La formichina ricomincia a tremare. Piega le braccia e affonda le mani tra i capelli. Io non posso fermarmi più di quindici minuti! Quanto tempo è passato da quando mi hai visto?

    Una mia antenna ha uno spasmo. Incrocio le mani dietro la schiena e dondolo sui piedi.

    Vediamo. Poco, direi. Batto un pugno sul palmo e gli faccio un sorriso. Forse questo lo calmerà. Dico, hai visto quel salto che ho fatto? Ci avrò impiegato, uhm, pochissimo! Non so quanti siano quindici minuti, ma…

    Sì, ho... Gli occhi della formica cadono ai miei piedi. Guardano il cratere fumante. Ho visto il tuo salto, sì.

    Yuppie!

    Allargo le braccia e faccio una giravolta stando su un piede solo.

    A-adesso devo andare. dice la formica.

    Mi fermo, le braccia ancora tese, e gli scocco un’occhiata interrogativa. Lui mi passa di fianco, evita il cratere in punta di piedi e schiva la pozzanghera di acqua e cola.

    Ehi, aspetta, dove vai?

    A... Emette un piccolo gemito. Forse è inciampato. A cercare da mangiare.

    Mi volto verso di lui e mi poso un indice tra le labbra.

    Ma sai come fare a cavartela? Poco fa stavi per lasciarci le antenne.

    La formica alza una mano e la scuote. Sì, sì, grazie lo stesso, ma ora ho capito. Niente cibo bianco e polveroso fatto a scaglie.

    Aspetta!

    Gli corro dietro saltando dentro la pozzanghera. Gli schizzi mi bagnano i pantaloni, arrivando fino alla maglia.

    Hai detto di essere appena arrivato. Ti va di fare amicizia?

    Lui si gira. Mi guarda con due occhi affogati nella confusione. Le antenne traballano. Prego?

    Gli stringo le mani e piego la testa di lato. Sfoggio uno dei miei sorrisi migliori. Diventiamo amici?

    La formichina piega un angolo della bocca. Nemmeno ti conosco. Le sue mani tremano sotto la presa. Fa un passo all’indietro come se lo avessi toccato con bava di chiocciola.

    Gli stringo le dita. La pelle è spessissima e ruvida. Sembra di toccare la corteccia di un albero. Nemmeno io, ma ora ti ho salvato la vita, no? Per ricambiare potresti stare con me.

    La formica volta lo sguardo. Si sfila dalla mia presa e si ripulisce le mani sulla maglia. Forse avevo davvero le dita sporche.

    Io non credo che sia una buona idea. mi dice.

    Io sbatto le palpebre e intristisco lo sguardo. E perché?

    La formica scuote la testa. Un mangia-terra e un succhia-sangue che gironzolano insieme non è una bella cosa. Se ci vedessero anche solo parlare potremmo passare guai seri.

    Ma tu non dovresti essere nel tuo formicaio?

    La formica raggela. Tutto il suo corpo s’irrigidisce, anche le antenne. Credo abbia smesso di respirare.

    Sei una formica che se va a zonzo da sola per la città. Solamente per questo potresti vedertela brutta, e non solo con gli altri insetti. Giungo le mani dietro la schiena e faccio qualche passo a testa alta, come un soldatino. Ci sono un sacco di pericoli, sai? Veleni, altri animali. Arriccio il naso, disgustato. Umani.

    La formica strabuzza lo sguardo e scuote il capo. Umani?

    Certo!

    Mi metto davanti a lui e alzo l’indice al cielo. Sollevo la punta del naso per incontrare il suo sguardo. Gli umani sono dappertutto. Sono loro che spargono i veleni e tutto il resto.

    Un momento. Pensavo... La formica poggia la punta dell'indice sulla tempia e sfrega tra le ciocche di capelli. Pensavo che non ci fossero in città.

    Scuoto la testa. Sapessi quanti ne ho visti.

    Lancio un’occhiata al cane sdraiato vicino ai bidoni. Ha finito di spolpare la coscia di pollo, ora sta sgranocchiando l’osso. Indico la bestia con la punta dell’indice.

    Per questo mi sento più sicuro a fare la vita da barbone insieme a cani come quelli. Se scegliessi pellicce più pulite e profumate, probabilmente verrei avvelenato all’istante con strani intrugli degli esseri umani.

    Gli umani mettono il veleno anche nei cani? La formica mi guarda sgranando le palpebre.

    Certo che sì. annuisco io. Lo zio ci è rimasto secco così.

    La formica deglutisce.

    Comunque non ti devi preoccupare dei cani. gli dico. Quei veleni sono solo per noi pulci e per le zecche, ma gli esseri umani hanno veleni per ogni insetto.

    La formica ha uno spasmo. Anche per le formiche?

    Soprattutto per le formiche! Mi sollevo sulla punta delle scarpe e lo guardo negli occhi. Il mio viso si riflette nelle sue pupille. Mi copro le labbra con la mano e abbasso la voce. Ho sentito che d’estate, quando il sole batte forte, le loro pupe amano bruciarvi con le lenti d’ingrandimento.

    B-bruciarci?

    La formichina si stringe le spalle e si circonda il busto con le braccia.

    Tono ad appoggiare le suole a terra. Temo di sì. Abbasso le palpebre. Certo, se non conosci bene la zona, sarà più difficile evitare i pericoli.

    Ghnn…

    La formica trema di nuovo. Si sfrega la nuca e volge lo sguardo al cane. La bestia si sta grattando il mento con la zampa posteriore. Ciuffi di pelo svolazzano a terra.

    Non mi succhierai tutta la linfa mentre dormo, vero?

    Io soffoco una risata divertita e mi copro la bocca con il dorso della mano.

    Ma che dici? Non sono mica un cannibale.

    Smetto di sogghignare e gli tendo il braccio, aprendo il palmo. Io sono Lacnos.

    La formica mi guarda la mano. Arriccia le labbra, solleva la mano e sgranchisce le dita. Mi tende la sua tenendo il gomito piegato.

    Ga… uhm… G... Si guarda in giro, muove le dita come se fossero intorpidite. Gli occhi restano bassi e la mano si ferma. Gaios. Il braccio libero si solleva e gratta il pettorale sinistro. Una smorfia gli stropiccia la faccia.

    Gli stringo forte la mano e lui raggela. Gli scuoto il braccio, allargo il sorriso.

    "Piacerissimo mio."

    "Piacerissimo?"

    Gaios sfila la mano e la sventola. Ma come parlate, voi di città?

    Il mio sorriso sbiadisce. E come dovrei parlare?

    Lascia stare.

    Gaios alza lo sguardo al cielo. Una scintilla malinconica gli attraversa gli occhi, le iridi brillano e il grigio diventa azzurro. Quanto tempo è passato da quando ci siamo incontrati?

    Arriccio le labbra. Mhm, non lo so. Un po’ di minuti, credo.

    Gaios tuffa la faccia tra le mani. Cinque giorni, sei ore e trentasei minuti lontano dal formicaio.

    La voce riprende a piagnucolare.

    Gli batto una mano sulla spalla. Benvenuto in città.

    Gaios frigna ancora.

    Vieni, ti porto a mangiare cibo vero. Non sarà buono come il sangue, ma credo che a te piacerà.

    Saltello sopra il fiumiciattolo colloso. È piccolo, non mi servono i propulsori per scavalcarlo. Mi volto all’indietro e Gaios è ancora lì, davanti alla prima sponda.

    Cosa stai aspettando?

    Gaios trema e indica il rivolo appiccicoso.

    Po-potresti… Deglutisce. Il suo sguardo vacillante incontra il mio. Potresti tornare indietro e mostrarmi come aggirarlo? Io da solo non so farlo se non mi muovo in linea retta e non ho voglia di tuffare di nuovo i piedi qui dentro.

    Piego la testa di lato. Sbatto le palpebre con aria confusa.

    E... e poi… Gaios sventola le mani. Le sue antenne si ammosciano. Potresti evitare di toccarmi tutte quelle volte? Il contatto fisico mi fa venire i brividi.

    Cioè, e poi sarei io quello strano?

    3.

    Il fumo dell’incenso attraversa le foglie del bonsai. I rami dell’ulivo in miniatura assorbono tutto il denso profumo speziato che si sparge per la chiesa. Un ricciolo grigio si piega sotto un ramo, tocca la terra, il fumo mi avvolge il collo e mi entra nelle narici. Inalo l’aroma, abbassando le palpebre. Ah, il sacro profumo della purezza e dell’abnegazione.

    Riapro gli occhi e li volgo verso l’alto, sulla cima del bonsai. Le ginocchia piegate affondano nella terra umida tra le radici. Sollevo le braccia. Le mani giunte in preghiera e coperte dalle maniche della tunica si avvicinano al viso.

    Oh, Sacro Spirito Terreno. Oh, potente e sacro Albero della Vita. Spalanco le braccia. Un’altra ondata di fumo aromatizzato mi travolge. Il cervello va in estasi. Dai un segno a questo tuo povero servitore.

    Gonfio il petto, inalando altro incenso. La pesante croce d’argento scivola a lato del petto. Lo smeraldo incastonato al centro lancia una scintilla.

    L’essere umano che regge il turibolo passa dietro al tavolo del bonsai e si dirige verso l’altare. Scuote la catenina e altro fumo avvolge il piccolo ulivo. Cinque giovani pupe umane vestite di bianco lo seguono come agnellini. Tutti i banchi sono vuoti tranne che per tre vecchie umane in seconda fila. La chiesa è deserta, non c’è mai nessuno al rituale del sabato.

    Giungo le mani davanti al petto e alzo i miei sporchi occhi peccatori sull’albero che mi copre con i suoi rami.

    Dai un segno a questo tuo povero servitore.

    La porta della chiesa si apre. Entra una folata di vento che fa svolazzare via i volantini azzurri appoggiati di fianco al vaso del bonsai. Suor Maria Beatrice farà visita il prossimo fine settimana. La porta di legno si richiude e l’essere umano si va a sedere nel penultimo banco. Gli lancio un’occhiata di disprezzo. Arriva in ritardo e osa anche mettersi lontano dall’altare? Miscredente, accidioso e bestemmiatore. Anche se si tratta del loro dio, queste cose mi mandano in bestia.

    Faccio un piccolo respiro e sistemo le ginocchia tra la terra. -Non cadere in tentazione, non darti al peccato d’ira.-

    L’ultima bava di vento fa piovere una fogliolina dal bonsai. La foglia dell’ulivo, poco più di un bocciolo giovane e fresco, si posa davanti alle mie gambe. Sciolgo le dita e la afferro, stringendola tra le mani. La porto vicino al naso, chiudo gli occhi e aspiro.

    Formica. Giro la foglia e tiro un altro sospiro. Sola. Tra i bidoni. Avvicino entrambe le mani al viso chiudendole a coppa e premo la foglia sotto le narici. Le antenne si rizzano. Pulce. Salta giù dal cane. Stringo le dita, la foglia si rompe. Mangia-terra. Succhia-sangue. Una vena mi pulsa sul dorso della mano. Insieme.

    Lascio cadere la foglia, mi scosto una ciocca dal viso e me la sistemo dietro l’orecchio. I capelli corvini ricadono dietro le spalle. Prendo la croce che ciondola dal collo e la poso sulle labbra.

    Grazie per questo segno, oh Sacro Spirito Terreno.

    Poggio una mano a terra e mi tiro in piedi. Spolvero la tunica dal terriccio. La stoffa verde prato si è sporcata di nero. Distendo le braccia e ribalto il collo all’indietro. Un brivido mi corre lungo la schiena, le antenne fremono, le ali si spalancano. La luce le attraversa e un riflesso verde colora il tronco dell’ulivo.

    Sia fatta la tua volontà!

    4.

    Tendo le braccia verso la briciola di pane e la stringo tra le dita. Gonfio i muscoli sulle spalle, le vene pulsano sotto la pelle. Alzo il frammento di briciola e spalanco le fauci. I canini aguzzi risplendono e gocciolano un filo di saliva. Addento il pane, impasto tra le guance e ingollo il boccone croccante. Buonissimo.

    Allora, ti piace?

    Mi ripulisco le labbra dai residui e mi volto verso Lacnos. La pulce incrocia le gambe e si stringe le caviglie. Piega la testa di lato e mi sorride, un’antenna gli tocca la spalla.

    Mi succhio le dita e mi lecco le labbra. Non c’è male.

    Appoggio le mani dietro la schiena e volgo lo sguardo al cielo. Il sole si sta abbassando, ma sulla terrazza c’è ancora molta luce.

    Lacnos ride. Sono felice che ti sia piaciuto, anche se è solo pane. Intreccia le dita dietro la nuca e si sdraia sulla schiena, accavallando le ginocchia. L’ombra della pianta che si arrampica sulla grondaia ci protegge dal calore del sole. Io non mangio questa roba, ma tutti parlano di quanto sia buono il cibo degli esseri umani e così ho pensato che ti sarebbe piaciuto assaggiarlo. Sai, visto che sei di campagna.

    Mi stringo le spalle e abbasso lo sguardo. Era accettabile, comunque. Mi prendo un’antenna tra le dita e la attorciglio attorno all’indice. Mi è solo sembrato strano avere del cibo tutto per me. Di solito noi lo dobbiamo raccogliere e portare tutto nel formicaio. Faccio spallucce. E poi lo mangiamo tutti assieme.

    Ah, ho capito.

    Lacnos si tira su. Torna a incrociare le gambe e le manopole sulle scarpe risplendono.

    Inarco un sopracciglio. Quei cosi sono enormi.

    Eri una specie di operaio?

    Io annuisco. Gonfio le guance e nascondo il broncio. "Non una specie. Ero un operaio e basta."

    Gli occhi di Lacnos scintillano. Mitico! Ecco perché sei così forzuto.

    Aggrotto la fronte. Forzuto? Sollevo il braccio, tiro su la manica della maglia fino alla spalla e mi tasto i muscoli in tensione. Non sono poi così grossi. In realtà siamo tutti così forti.

    Ma il tuo corpo è così magro. A vederti non sembreresti così potente.

    Beh… Appoggio il braccio e lo torno a coprire fino al polso. "E allora tu non sembreresti così... saltellante, piccolo come sei."

    Lacnos ride. Le guance si imporporano.

    Grazie, Gaios.

    Non era un complimento.

    Un uccellino canta. Mi irrigidisco e guardo in alto. Il sole filtra attraverso le foglie, fiori di gelsomino bianco sbocciano tra i rami della pianta rampicante. C’è un profumo disgustoso di polline nell’aria. Abbasso le palpebre e inspiro. I pugni si serrano.

    -Ah, ma che sto facendo? Perché me ne sto spaparanzato a prendere il sole quando dovrei lavorare?-

    Che cosa fanno gli operai delle formiche? mi chiede Lacnos.

    Riapro gli occhi. Sbatto le palpebre e mi inumidisco le labbra.

    Beh… Disegno dei piccoli cerchi sul pavimento con la punta di un dito. Vicino a noi ci sono ancora delle briciole che arrivano fin sopra la mia testa, ma non ho più fame. Tante cose, in realtà. Ci sono quelli che vanno a succhiare la linfa di altri insetti, come i vermi o le larve.

    Lacnos sbianca. Si porta la mano sul petto e stringe la stoffa della felpa.

    Metto subito le mani avanti. Ma io sono una taglia foglie.

    Lacnos fa un sospiro di sollievo e riprende colorito.

    Poi ci sono i soldati. spiego. Loro hanno il compito di attaccare i termitai o altri formicai.

    Oh, quindi combattono?

    In pratica sì. annuisco.

    Lacnos stringe i pugni davanti al petto e il suo viso si illumina. Comincia a saltellare da seduto e a tirare pugni a un avversario immaginario. Non sa proprio stare fermo.

    Dev’essere proprio forte. Tipo combattere, intendo. Io mi divertirei un sacco.

    Sbuffo, soffiando via i capelli dalla fronte. Vallo a dire alla Regina.

    Lacnos smette di combattere. Il suo sorriso sbiadisce.

    Ah, già, la Regina.

    Annuisco. Avvicino le gambe al petto e appoggio una guancia sulle ginocchia. È proprio necessario parlarne? Che razza di pulce impicciona.

    Senti. Lacnos si avvicina gattonando. Si copre la bocca con una mano e bisbiglia. È vero che è una cicciona tremenda? No, perché girano voci che…

    Gli sputo una risata in faccia. Spero di non avergli spruzzato dell’urticante.

    Lacnos si ripulisce il viso e ride anche lui. La sua pelle è integra.

    Tossicchio. Sì, effettivamente. Mi schiarisco la voce e torno serio. Non dovrei dire queste cose della mia Sovrana. È un po’ grassa, sì. La gola bruciacchia, fa uno strano effetto. Che strano, è la prima volta che rido così.

    Forte!

    Lacnos si mette di nuovo seduto. Incrocia le gambe e fa ballonzolare le ginocchia. Gli occhi fissano il cielo.

    Voi formiche avete proprio una vita strana e interessante. Siete tutte così precise e organizzate.

    Emetto un grugnito. Il petto mi brucia, poso una mano sopra la maglia e do una sfregata per placare il dolore. Già, proprio interessante.

    Almeno conoscete la vostra mamma. Il tono di Lacnos si intristisce. La piccola pulce si indica il viso con un dito. Io non so chi siano né la mia mamma né il mio papà, anche se su uno stesso cane siamo tutti parenti.

    Inarco un sopracciglio. Su un cane?

    Sì. Lacnos annuisce e punta un indice al cielo. La mia mamma ha deposto le uova contenenti me e i miei fratelli, poi se n’è andata. Quando siamo nati eravamo tutti dentro allo stesso bozzolo. Unisce le mani a forma di coppa. E poi abbiamo sentito il calore dell’animale e siamo saltati fuori, mordendogli subito la carne.

    Il pane mi risale lo stomaco.

    Lacnos spalanca le fauci. Grossi denti affilati sbucano dalle mascelle. Vedi, con questi denti qui.

    Vedo, vedo.

    Rivolgo gli occhi al sole, dietro alla grata della terrazza. Un disco arancione che si abbassa.

    Forse ora dovremmo andare. Dovremmo...

    Il sole cala. Notte, buio, dormire. Dormire, dormire, dormire. Le briciole sono ancora in disordine!

    Scuoto il capo e mi do un piccolo schiaffo sulla guancia.

    Credo che dovremmo cercare riparo per la notte.

    Lacnos annuisce deciso. Sì. Se vuoi possiamo trovarci un cane o un gatto. Si tira in piedi con una spinta. Basta solo che stai attento a quando si grattano. Tieniti ben stretto al pelo e fai pressione con le ventose.

    Forzo un sorriso contorto. Grr-grazie.

    Mi alzo in piedi anch’io e mi strofino le mani. Lacnos si volta a guardarmi e gli faccio cenno di andare avanti.

    Forza, come faccio a sapere dove andare se tu non mi fai strada?

    Lacnos forma una O con le labbra e si gira facendo una piroetta. Le suole delle sue scarpe gigantesche fanno fischiare il pavimento della terrazza.

    Gli vado dietro. Tengo gli occhi bassi e seguo i suoi piedi. Lacnos passa di fianco a una briciola, saltella sopra un pelo di gatto, raggira una foglia secca, scavalca un gambo di ciliegia.

    Ehi, guarda qua!

    Vado a sbattere con il naso addosso alla schiena di Lacnos. Gemo e mi massaggio la testa in mezzo alle antenne.

    Che ti prende? Perché ti sei fer…

    Guarda! Lacnos solleva l’indice sopra la testa.

    Seguo il suo braccio con lo sguardo, tenendo la mano sulla testa. Il suo indice è puntato contro un bozzolo. È attaccato a un ramo della pianta di gelsomino. Si sta muovendo.

    Gli occhi di Lacnos brillano. È bellissimo.

    Aggrotto la fronte. Un bozzolo?

    Ci avviciniamo tutti e due. Con le antenne sfioro la superficie dondolante. Sembra una grossa foglia fresca avvolta su se stessa.

    Credi che sia di una farfalla? chiedo.

    Lacnos sorride. Basta aspettare. Si avvicina e batte le nocche sulla punta inferiore del bozzolo. Forza, piccola, esci di lì.

    Fai piano! Gli afferro i polsi. Deve uscire da sola. È la legge.

    Lo sguardo di Lacnos si intristisce. Mi fissa con due occhioni inumiditi. Non possiamo aiutarla?

    Gli mollo i polsi pulendomi i palmi – ha la pelle appiccicosa – e scuoto la testa. Purtroppo no.

    Il bozzolo si agita. Si forma una piccola crepa che si arrampica fino alla radice aggrappata al ramo, una lacrima di fluido scende fino a raggrumarsi sulla punta.

    Incrocio le braccia al petto. E comunque non dovremmo…

    Aspettiamo che si apra!

    -Questo è scemo.-

    Il bozzolo dà un altro colpo. Una piccola spaccatura lo attraversa come una vena sottile. Il bozzolo dondola e si ferma. Non si muove più.

    Lacnos sposta il peso da un piede all’altro, saltella sul posto. Ingarbuglia le dita davanti al petto e mi lancia un’occhiata preoccupata.

    È normale che stia fermo?

    Aggrotto la fronte. Beh, non lo so.

    Il vento scuote delicatamente le foglie del gelsomino. Il bozzolo non si sposta di un millimetro. Lacnos porta i pugni davanti alle labbra, i piedi ballano sempre di più.

    E se stesse male? Se stesse cercando disperatamente di uscire ma è bloccata lì? Magari il bozzolo è difettoso e ora la farfallina sta chiamando aiuto, ma noi non la possiamo sentire e…

    Calmati. Bisogna stare calmi.

    Lacnos si ferma subito. I suoi occhi tremano, non si staccano dal bozzolo.

    Faccio un sospiro e abbasso le spalle. E va bene, tiriamola giù da lì.

    Lacnos emette un gridolino di gioia e batte le mani. Mi tiro su le maniche fino ai gomiti, massaggio le dita e le ossa schioccano.

    Aiutami. Mi avvicino al bozzolo e mi aggrappo sulla superficie. È ruvida, ricoperta da vene come una foglia. Mi attacco con le ventose a una delle sporgenze e piego le gambe.

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