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Il campione di ping pong
Il campione di ping pong
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Il campione di ping pong

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About this ebook

Come ogni anno all’Istituto San Giuseppe di Tortona sta per svolgersi un torneo di ping-pong. E’ questa l’occasione perché una girandola di personaggi davvero eccentrici s’incontrino per conquistare il trofeo. C’è Vitale, un trentaduenne, che, pur essendo laureato in Psicologia, lavora in un negozio di giocattoli e ogni anno porta nell’Istituto una valigia piena di maschere di carnevale, fialette puzzolenti, mani di gomma, freesbee e boomerang. C’è Benigno che tira a campare facendo l’impersonator di Vasco Rossi. C’è Damaso addetto agli snack dell’Istituto – hot dog, frittelle, Ringo Boys, Smarties. Ci sono Cosimo e Evaristo. Ognuno che dai ventisei ai trent’anni con i lavori che fanno sembrano essere iscritti al Club dei Mestieri Stravaganti di Chesterton. E ci sono Babila e Sebastiano, il campione del torneo, i quali sentono la loro storia d’amore (cominciata in un pullman durante una gita domenicale l’anno prima) minacciata dal fantasma del passato rappresentato da Zita. Suor Beniamina e Suor Claretta e Suor Ughetta accolgono i protagonisti del torneo mentre nell’Istituto nel corso di una frenetica festicciola si svolgono giochi quali il tiro alla fune, il girotondo, bandiera, la corsa coi sacchi e molto altro. Il torneo è l’occasione per ciascuno di questi personaggi di ritrovarsi e di guardarsi nel profondo, di meditare sulla propria condizione: hanno studiato tanto, prendendosi titoli di studi importanti e sono finiti a fare spesso lavori assai umili. Questa commedia frizzante come una Fanta e scoppiettante come una padella sfrigolante di pop-corn, colorata come un Uniposca e sgangherata come la giostra del Polipo Gigante al Luna Park è uno young-adult per adulti, animata da una sarabanda di bamboccioni, spietata, irriverente, paradossale, surreale che col ritmo di una pallina di ping-pong colpirà il lettore costringendolo a riflettere a lungo su aspetti concreti a reali come un barattolo di vernice fresca.
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateFeb 12, 2014
ISBN9788867520909
Il campione di ping pong

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    Book preview

    Il campione di ping pong - Marco Candida

    ***

    PRIMO SET

              00 – 00

              Chitarrista in 24 ore

    Sono state proprio le suore alle elementari a insegnarmi il gioco del ping pong. Le suore agli alunni insegnavano sempre molte attività – e in particolare la mia maestra, Suor Clementina, sempre in vena di iniziative. Suor Clementina, per dire un’iniziativa, ci ha fatto un corso di chitarra per tre anni – a partire dalle terza elementare quando avevo otto anni. Il corso si svolgeva nel pomeriggio, verso le cinque. Suor Clementina ci distribuiva le chitarre che teneva appese in fondo all’aula da trenta posti (...eravamo una classe molto numerosa...) e ci insegnava per due ore tutte le settimane dandoci anche gli esercizi per casa. Ci ha insegnato a tenere le dita a martelletto sulle corde; a tenere bene il plettro tra pollice e indice; ci ha fatto comprare il manuale Chitarrista in 24 ore con le diteggiature e ci ha insegnato il giro di do maggiore, il giro di sol maggiore, il giro di re maggiore. Ci ha insegnato il quattro quarti e ad ogni cambio accordo – al corso eravamo in sette o otto seduti in cerchio con le chitarre – ci faceva pronunciare ad alta voce il nuovo accordo: La minore!, fa maggiore!, sol settima!, oppure ci faceva cantare le canzoni che ci insegnava con gli accordi al posto delle parole. La prima canzone che ho imparato è stata Laudato sii, Mio Signore un adattamento dal Cantico di San Francesco d’Assisi. La seconda canzone è stata Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi, che noi che frequentavamo il corso avevamo ribattezzato mi-mi-mi-mi-mi-sol-re-re-re-sol-re-re-re-si settima-mi (...non proprio un capolavoro di sobrietà come soprannome, ma per noi bambini aveva il suo significato...). La terza canzone, invece, è stata Il ragazzo della Via Gluck – del Celentano. E poi altre canzoni, soprattutto da chiesa, e tra queste il Symbolum 77, tutte canzoni che poi eseguivamo nella cappelletta interna del San Giuseppe durante le Sante Messe di Natale, di Pasqua e della Fine Dell’Anno Scolastico.

    00 – 01

    Fare le farfalle

    Suor Clementina poi ci ha insegnato canto. Almeno una volta alla settimana ci portava in un salone con altre classi, ci faceva mettere in fila per ordine di altezza – io su trenta alunni stavo al decimo posto perché le bambine nei grembiuli bianchi erano sempre le più alte e nella mia classe eravamo pochi maschi, credo intorno alle nove unità –, si metteva su una seggiola e ci faceva cantare i canti da chiesa (...come Diamo lode al Signore, che, senza nessun spirito di provocazione, io storpiavo nella mia mente in Diavolone al Signore, chissà perché – una cosa, tra l’altro, che non ho mai detto a Suor Clementina né a nessun’altra suora...), ci faceva anche sollevare in alto le braccia e muovere le mani prima in senso orario e poi in senso antiorario (...si chiamava fare le farfalle; Suor Clementina ci diceva: Fate le farfalle! Fate le farfalle!...), ma noi maschi non lo facevamo quasi mai, perché ci sembrava poco da maschi farlo, ci limitavamo a battere le mani quando ce lo chiedevano, perché battere le mani, quello sì, ci sembrava da maschi.

    01 – 01

    Palla avvelenata

    Negli intervalli, che all’istituto San Giuseppe duravano anche una mezz’ora, tutte le suore portavano gli alunni delle elementari nel cortile interno della scuola e giocavano con loro a palla avvelenata. Suor Clementina giocava benissimo a palla avvelenata, ma, in generale, tutte le suore erano molto brave a giocare a questo gioco. Per quel che riguarda me, io e la palla avvelenata non andavamo troppo d’accordo. Almeno fino alla quarta elementare per quel che ricordo ero sempre uno di quelli che veniva colpito subito e spedito per primo nel campo dei prigionieri – che in alcune versioni del gioco potevano liberarsi, in altre non potevano. Il fatto è che mi faceva qualche problema riuscire a bloccare la palla (...quella di gomma liscissima; e gialla con dei ghirigori blu...). Alcuni tra i miei compagni riuscivano a bloccare la palla con una mano sola (...magari solo la destra...). Altri riuscivano addirittura a bloccarla con la destra o con la sinistra. Lorenzo, un mio compagno, riusciva a bloccare la palla in pose acrobatiche, magari voltato di schiena, riuscendo a intercettare la traiettoria con la coda dell’occhio oppure la bloccava con un ginocchio sollevato fino alla spalla, in una posa da ninja nell’atto di lanciare una stelletta, e quando rilanciava la palla di gomma contro qualcuno si protendeva tutto in avanti e sembrava un giocatore di baseball. Le suore gli dicevano di fare piano con i lanci, perché se prendeva allo stomaco quel lancio poteva farti frignare per cinque minuti buoni, e le suore non volevano avere problemi con le lamentele dei genitori. Le suore ci organizzavano proprio anche i tornei di palla avvelenata, ma io non mi iscrivevo mai. Il gioco della palla avvelenata non mi piaceva molto e comunque non era del tutto l’orgoglio delle suore. Quel che proprio le suore sponsorizzavano del tutto era il ping pong (...soprattutto per il fatto che il ping pong ci aiutava a tenere in allenamento i riflessi...), e a noi alunni ci avevano fatto iscrivere ai corsi dall’età di sette anni, e ci facevano partecipare a tornei e trasferte con i pullman in giro per i palazzetti dello sport della provincia e della regione. Bisogna dire che le suore riuscivano a trovare un torneo o un concorso per tutto quel che facevamo, e se il torneo o il concorso non esisteva o non si trovava, lo organizzavano loro internamente. Ad esempio, ogni anno, a Giugno, organizzavano un torneo di calcio balilla – e in quinta elementare l’ho anche vinto un torneo di calcio balilla, in coppia con un mio compagno di classe, il Bodoni. Il premio era consistito in caramelle al miele (...quelle avvolte nella cartina gialla che fanno bene alla gola...), in mentine alla violetta che sapevano di sapone e che io trovavo il modo di buttare nel cestino o di regalare a qualche compagna di classe, e avvolta in una carta argentata color verde speranza un ovettino di cioccolato al latte – uno solo, ma buonissimo.

    02 – 01

             Giornalinismo

    Suor Clementina ci insegnava moltissime attività, adesso che ci penso. Al mattino prima di cominciare la lezione, in classe, ci faceva alzare, ci faceva fare il segno della croce con la destra, poi dopo le preghiere, ci faceva recitare a memoria tutti assieme una poesia: Piemonte di Giosuè Carducci oppure Passero Solitario del Leopardi oppure il Pascoli. Distribuiva in classe fotocopie grandi come mezzo foglio A4 e ce le faceva incollare con il barattolo arancione della colla e la spatolina blu Pritt sulle facciate di un quaderno che era il nostro Quaderno di Poesie. (...gli iscritti al corso di chitarra avevano anche un Quaderno di Canzoni – e io usavo un quaderno a quadretti Fabriano per le poesie e uno a righe Pigna per le canzoni – che conteneva brani come Il merlo ha perso il becco, oppure l’albero di Gianni Rodari o Se sei felice se sei felice tu lo sai batti le mani (...do maggiore...)/ se sei felice tu lo sai batti le mani (...sol maggiore...)/ se sei felice tu lo sai (...do maggiore...) e dirmelo potrai (...fa maggiore...)/ se sei felice tu lo sai batti le mani (...do maggiore...)...). Suor Clementina poi ci faceva tenere un giornalino di classe – e noi del giornalino eravamo i giornalinisti con una tessera di giornalinismo – un cartoncino verde e bianco con l’immagine di un pappagallo con un taccuino e una penna nelle zampe – e il giornalino si chiamava Un trenino carico di… Suor Clementina ci faceva anche coltivare una lenticchia o un fagiolo giallo dentro un barattolo di marmellata vuoto, usando al posto della terra batuffoli di cotone bianco. Le lenticchie sopra il cotone e con l’acqua germogliavano, uscivano dal barattolo, si abbarbicavano e arricciavano intorno al barattolo e nel giro di qualche giorno appassivano e bisognava sostituirle. Mettevamo sempre i barattoli con le lenticchie o i fagioli gialli che erano germogliati meglio in fila sopra i davanzali delle finestre della nostra aula, vicino ai pallottolieri e ad altri oggetti e l’alunno che aveva curato meglio la sua lenticchia o il suo fagiolo giallo riceveva in premio da Suor Clementina tre galatine. Poi c’erano le cose che Suor Clementina ci faceva preparare per la Festa del Papà o per la Festa della Mamma. Un anno per la Festa della Mamma Suor Clementina ci aveva fatto acquistare dei saponi – verde chiarissimo i maschi e rosa chiarissimo le femmine – ci aveva fornito una serie di rotoli di nastrini sottili (...color argento, oro, blu elettrico...), e uno scatolino di spilli, e noi avevamo ricoperto i saponi con i nastrini che fissavamo per il lato lungo con gli spilli e alla fine era venuta fuori una cosa simile a una bomboniera. Un anno per la Festa Del Papà Suor Clementina ci aveva fatto costruire con il barattolo di vinavil e undici mollette che avevamo divise ottenendo ventidue stecche di mollette il modellino di un pozzo che avevamo riempito di ovetti al cioccolato. Poi assieme ai regalini ci facevano consegnare un quadernetto dal titolo Con amore per voi che contenevano scritti come questo:

    Problema

    Michela dà 5 baci al minuto al suo papà, quindi dà 300 baci in 1 ora.

    Quanti baci Michela dà in 3 ore?

    Michela dà 2 baci al minuto alla mamma, quindi dà 120 baci in 1 ora.

    Quanti baci Michela dà in 3 ore?

    A chi dà più baci Michela? Alla mamma o al papà?

    Differenza.

    Risolvo

    5 = baci al minuto al papà

    300 = baci in un’ora al papà

    ? = baci in 3 ore

    2 = baci al minuto alla mamma

    120 = baci in un’ora alla mamma

    ? = baci in un’ora

    ? = chi riceve più baci

    ? = differenza

    Baci (...300x3...) = baci 900 (...baci in 3 ore...) (...papà...)

    Baci (...120x3...) = baci 360 (...baci in 3 ore...) (...mamma...)

    Baci (...900-360...) = baci 540 (...differenza baci papà e mamma...)

    Rispondo

    Al papà in 3 ore Michela dà 900 baci.

    Alla mamma in 3 ore Michela dà 360 baci.

    Michela, quindi, dà più baci al papà.

    La differenza è di 540 baci.

    Michela

    Net

             I meriti di Suor Clementina

    Tra tutte queste attività ricreative che Suor Clementina ci ha fatto svolgere nei cinque anni delle elementari adesso voglio dire che io ne ho portate avanti almeno quattro: quella della chitarra, quella del canto, quella della scrittura e quella del ping pong.

    *** ripetere battuta ***

    03 – 01

    Friday Night in San Francisco

    A sette anni ho cominciato a suonare la chitarra. La mia prima insegnante (...come ho detto...) è stata Suor Clementina. Prima canzone imparata (...e ho già detto anche questo...): Laudato sii, Mio Signore di San Francesco D’Assisi. Prima esibizione in pubblico: a otto anni nella cappelletta interna del San Giuseppe durante la Santa Messa della Fine Dell’Anno Scolastico. L’ultima esibizione con il San Giuseppe è stata, invece, durante la processione per la Festa che le suore dedicavano ogni anno nei mesi caldi a Don Bosco. All’istituto San Giuseppe le preghiere di noi bambini le suore le facevano rivolgere a Laura Vicuña, Don Orione e Don Bosco e per ognuno di questi beati e di questi santi, dedicavano ogni anno una giornata di festa e di preghiera. La processione per ricordare Don Bosco partiva dalla Chiesa del San Michele in Via Emilia e arrivava fino alla cappelletta interna dell’istituto San Giuseppe. A ogni bambino veniva data una candela bianca avvolta da carta crespa colorata che poi andava deposta ai piedi della statua della madonna nella cappelletta – e un anno un bambino che marciava in fila nella processione con la sua candela avvolta nella carta crespa color rosso aveva cercato di incendiare i capelli di una bambina che gli stava davanti – e il corteo doveva seguire una macchina (…era una 126…) con i megafoni agganciati sul tetto da dove usciva la voce di Don Ernesto – il parrocco che stava qui a Tortona prima che arrivasse Don Fabrizio. L’ultima esibizione per il San Giuseppe è venuta quando avevo dieci anni in questa processione, perché le suore avevano avuto l’idea di far trainare dalla macchina con i megafoni un carro dove Suor Clementina e altri quattro dei miei compagni di corso di chitarra stavamo messi dentro e accompagnavano con le chitarre i canti intonati da Don Ernesto, e tra questi il canto Don Bosco ritorna: Don Bosco ritorna/ tra i giovani ancora/ ti chiaman portatore di pace e bontà… a undici anni ho lasciato il San Giuseppe; mi sono iscritto alla Scuola Media Statale Luca Valenziano. In classe avevo un compagno (...Silvano...) che conosceva una persona (...Massimiliano...) che conosceva un’altra persona che insegnava gratuitamente la chitarra all’oratorio di San Luigi Orione presso il Santuario Della Madonna Della Guardia di Tortona. Si chiamava (...e per quel che so ancora si chiama...) paolo Pennacchia. Non potendo più partecipare ai corsi di Suor Clementina all’istituto San Giuseppe, perché non avevo più l’età, mi sono iscritto ai corsi di Pennacchia. Paolo mi ha insegnato molte cose. Mi ha insegnato le canzoni di Battisti. Mi ha insegnato il blues. Poi una volta mi ha invitato a casa sua e mi ha fatto ascoltare Friday Night in San Francisco, un disco suonato da tre chitarristi: Al di Meola, Paco de Lucia, John Maclaughlin. Avevo quattordici anni, andavo per i quindici. Mi son fatto fare la cassetta, mi son fatto dare da Paolo i fogli che contenevano le diteggiature delle scale modali e ho cominciato a esercitarmi. Ho imparato le scale ionica, dorica, frigia…, ho finito di imparare tutte le pentatoniche, mi sono accorto delle simmetrie delle scale che stavo studiando e ho tirate giù a orecchio (...ma anche a occhio...) alcune tra queste scale (...una cosa che non credo stupisca un autodidatta...), ho imparato a tenere ben ferma la mano destra e ha doppiare la pennata alla maniera di Al Di Meola – e dei chitarristi di flamenco, anche se loro usano le dita e non la penna. Io, volevo diventare Al Di Meola. Soprattutto volevo imparare Mediterranean Sundance. Il mio disco culto, lo avevo trovato: Friday Night in San Francisco; il mio chitarrista modello, lo avevo eletto: Al Di Meola.

    03 – 02

    Il migliore dell’oratorio

    Sei mesi più tardi sono tornato da Paolo. Paolo (…che ha una laurea in Farmacia; e a quanto so, da qualche anno lavora in un’industria che produce cacao…), una volta, era sera, tra le bancarelle della Festa Della Madonna Della Guardia, in Corso Don Orione, a fine Agosto, poco tempo prima, se ben ricordo, avermi dato la cassetta di Friday Night in San Francisco, mi aveva detto: "Sebastiano, tu sei il migliore dell’oratorio e forse dell’intera parrocchia; sì, sei indubbiamente il migliore tra tutte quelle ragazzine tra gli otto e gli undici che vengono e sei anche migliore, se è per questo, delle ragazzine più alte tra i sedici e i diciotto; purtroppo, però, fai le cose di fretta, Sebastiano, e senza passione; non dico la passione non ci sia, ma da come ti comporti, sembra che non ci sia: questo non ti permette di fare il salto di qualità". Paolo, ancora lo ricordo, avrà avuto un ventisette anni e mi parlava con uno stecco di zucchero filato in mano. Io, invece, tenevo un torciglione di quella schifezza di gomma rosa, che sa di sapone, che non so come si chiama, e che però a quindici anni mi piaceva acquistare ai chiostri delle bancarelle. Paolo parlava e muoveva lo stecco. Lo puntava come uno spadino. Io masticavo nervosamente il mio torciglione rosa. Ci ero rimasto male per quel rimbrotto; e sei mesi più tardi, dopo aver eletto Al Di Meola mio chitarrista modello, sono tornato da Paolo e gli ho fatto vedere i miei progressi. Gli ho suonato tutto Mediterranean Sundance davanti agli occhi, improvvisando anche. Paolo alla fine era sbalordito, contento, mi ha detto: Hai fatto un corso accelerato?!; a me è sembrata una discreta rivincita per uno che non ci metteva la //passione// suonare un pezzo tutto strumentale fortemente influenzato dal flamenco.

    *** cambio battuta ***

    04 – 02

    Diventare Al Di Meola

    Volevo diventare come Al Di Meola e tra i quindici e i diciotto mi ci sono messo d’impegno. Non sono arrivato a iscrivermi alla Berklee School of Music di Boston, questo no, ma ho acquistato una chitarra acustica Epiphone by Gibson arancione e nera simile – ma molto meno costosa – alla Ovation (...suono molto nasale e per alcuni insopportabile; forse anche per me...) di Al Di Meola, ho acquistato (...un anno più tardi...) una chitarra elettrica Ibanez (...non un granché le Ibanez, devo dire...), ho acquistato il Marshall, poi il Synclavier, gli effetti chorus ADA, flanger e digital harmonizer Ibanez; insomma: ho acquistato gli stessi amplificatori e gli stessi effetti che usava Al Di Meola; ma soprattutto sull’esempio di Al Di Meola ho sempre cercato di creare a Tortona, con i limitati mezzi miei, gruppi musicali che assomigliassero ai Return To Forever (...un gruppo mostruoso con Chick Corea alle tastiere, Lenny White alle percussioni e Stanley Clarke al basso...) oppure i trii acustici terrificanti come quello con Paco De Lucia e John Maclaughlin. (...E //mostruosi// e //terrificanti// forse lo siamo stati, ma nell’altro senso...). Oltre a tutto il resto di Al Di Meola mi piaceva la sua vocazione a comporre queste formazioni ad altissimo livello tecnico e anche esibizionistico.

    04 – 03

    Esibizionismo

    Sull’esibizionismo di Al Di Meola, visto che ci sono capitato, la critica nelle riviste specializzate è sempre stata severa: artista o corridore? Musicista o atleta? Un affamato di gloria facile o un’anima in pena alla ricerca della sua dimensione espressiva? Così, più o meno, ho sentito dire sempre; e così, a partire dai quindici anni, nelle compagnie di chitarristi che frequentavo (...negli Anni Novanta il chitarrismo in Italia ho toccato il suo culmine; infatti sembrava che in giro esistesse solo la chitarra...), mi sono sentito sempre dire anch’io: "Molto più bravo degl’altri, ma… ma gran rompipalle". Per me la questione dell’esibizionismo di Al Di Meola non è mai esistita – e questo faceva sì che non fosse esistita mai nemmeno la questione del mio esibizionismo. L’ho vista sempre così: che la questione dell’esibizionismo di Al Di Meola fosse una questione di stile. Lo stile di Al Di Meola è uno stile percussivo. Suona con la penna (...o plettro...): tecnica della pennata alternata (...D-U-D-U...), con uso frequente dello //stoppato// (...che consiste nell’appoggiare la destra sulle corde mentre si pizzicano con la penna...), del sincopato, del contrattempo. La sua musica è sempre molto ritmica (...forse perché il suo primo strumento non è stata la chitarra, ma la batteria...): tutto questo credo che comporti necessariamente una certa esibizione atletica delle proprie capacità. E poi sotto sotto, più filosoficamente, ho sempre pensato che, si tratti di nasconderla o si tratti mostrarla, la bravura ha sempre un che di esibizionistico.

    05 – 03

    Senza ritegno

    Certo in Friday Night in San Francisco c’è un compiacimento evidente durante l’esecuzione. Il concerto, che è una registrazione del 5 Dicembre 1980 al Warfield Theatre di San Francisco, dura una quarantina di minuti, e ci sono jam session di undici o dodici minuti. Durante le improvvisazioni il pubblico in platea grida e fischia all’americana. I pezzi non hanno strutture difficili e sono decisamente orecchiabili. Per esempio gli accordi di Mediterranean Sundance sono mim, lam7, Re7, SOL7+, DO7+, RE13, SI7, e in fondo sono una variazione del classico giro di flamenco. Tuttavia è il modo come Di Meola (...microfono di destra...) e De Lucia (...microfono di sinistra...) suonano che complica (...eccome!...) le cose. Si può dire che i due si lascino andare senza ritegno (...anche se, dopo tanto tempo, ancora non ho ben capito il significato di questa espressione...), ma non si può certo dire che questo loro lasciarsi andare non mozzi il fiato. Raramente ho sentito un concerto di sole chitarre acustiche che faccia venire giù tutto il teatro come il concerto al Warfield Theatre di San Francisco del 1980.

    06 – 03

    Domenica pomeriggio alla Festa delle Attività Parrocchiali

    Comunque: a me di sicuro il fiato lo ha mozzato. Ho riascoltato Mediterranean Sundance centinaia di volte e l’ho anche imparato per filo e per segno. Ci ho sudato tanto su quel pezzo che quando ho scoperto che non so per quale ragione avevano velocizzato la registrazione (...ecco perché il trio sembra avere in mano non chitarre ma mitragliatrici...), ho staccato il poster di Al Di Meola nella mia stanza per almeno quindici giorni. Ascoltando Al Di Meola (...ho trovato lavori prodigiosi anche Word Sinfonia Heart Of Immigrants – un omaggio a Astor Piazzola – e Orange&Blue – un disco fusion molto jazzato...), ho aperto il mio orecchio a sonorità inedite, ho imparato accordi con uso delle corde a vuoto (...come il RE13 – per fare l’esempio di un accordo che suona decisamente bello...) e una quantità di pattern ritmici e melodici impressionante e alternativi ai soliti pattern rock e blues. Non sono riuscito a diventare Al Di Meola, però, ecco, tutte le volte che ho suonato in pubblico, e ho suonato in pubblico quei pezzi, io mi sono sentito come Al Di Meola… soprattutto la prima volta: quando a diciassette anni dal Teatro del Mater Dei presso il Santuario della Madonna Della Guardia ho suonato con il mio maestro Paolo Pennacchia (...sempre più sbalordito dei miei progressi...) i cinque brani di Friday Night in San Francisco durante la Grande Festa di Inizio Anno Per Le Attività Parrocchiali…

    06 – 04

    Evaristo

    Stamattina alle dieci, nella portineria del San Giuseppe, con un grosso portone di legno tutto lucido che da vent’anni è sempre come nuovo, mentre bussavo al vetro della portineria per iscrivermi da Suor Claretta, una suora novantenne con tre buchi nel naso e la barba bianca, che su un tavolo tiene il foglio dei nominativi – e raccoglie i cinque euro del costo dell’iscrizione al torneo – ho incontrato Evaristo, che ha partecipato al torneo lo scorso anno e si è classificato quinto. Ho conosciuto Evaristo in piazza Duomo a Milano, proprio lo scorso anno. Evaristo di lavoro fa la statua. Indossa una calzamaglia d’oro e si acconcia da faraone egizio, si aggiusta su un piedistallo alto trenta-quaranta centimetri e rimane completamente immobile per alcune ore. A volte cambia posizione, soprattutto quando qualcuno gli getta qualche moneta, ma per la maggior parte del tempo Evaristo rimane completamente immobile. Io stavo a Milano con Babila. Era Gennaio. Avevo acquistato un sacchetto da sette euro di caldarroste. Babila succhiava una striscia di liquirizia nera. Saranno state le quattro del pomeriggio. Osserviamo per un po’ la casseratura che imbalsama il Duomo di Milano con la rete verde che metterebbe di cattivo umore un pagliaccio e la paragoniamo alle impalcature che coprono le facciate delle altre chiese che abbiamo visitato. Le impalcature che coprono le chiese di Firenze sono più gradevoli da vedere: le bacchette si incrociano creando triangoli, rettangoli, anche esagoni, tutti simmetrici, e poi sono ben strofinate e se c’è il sole brillano che sembrano oro. Mentre pensiamo all’oro delle bacchette a ridosso delle facciate delle chiese di Firenze, io che mi getto una caldarrosta bollente in bocca e la sposto da una guancia all’altra, lei che addenta la liquirizia e la tira con la mano, ci accorgiamo che davanti a noi c’è Evaristo – che però ancora non sapevamo si chiamasse Evaristo –, che sta completamente immobile sul suo piedistallo di trenta o quaranta centimetri. Ci mettiamo io alla destra e Babila alla sinistra e osserviamo la statua. Io dico: Certo che un lavoro più ingrato non so se esiste e Babila dice: Stare fermi tutto il giorno e far finta di essere una statua è certamente un lavoro ingrato. Io non sarei capace dico io. Devi stare tutto in equilibrio dice Babila. e poi devi stare in silenzio io dico. Poi mi rivolgo alla statua e dico: Non puoi parlare, eh? Le statue non parlano. Dopo che ho detto questo la statua cambia posizione. Porta la sinistra sul bicipite destro. Gira la destra a pugno chiuso e poi alza il medio. Io mi scotto la lingua con una caldarrosta. Proprio un lavoro del piffero dico. Almeno io faccio qualcosa – dice la statua – non sto lì come te a mangiare castagne e a grattarmi la pancia. La statua ha parlato molto velocemente. (...forse è così che parlano le statue: si muovono lentissime e parlano velocissime...). Forse è meglio se andiamo via mi dice Babila abbassando la mano che regge e tira la liquirizia. Si è fatta tutta rossa e oltre alla mano con la liquirizia ha abbassato anche lo sguardo. Non sto proprio messo meglio di te – mi viene da dirgli invece – anch’io non ho un lavoro; ma fare la statua…. "Questa è un arte – mi dice la statua – occorre averci il destro e poi ci vuole

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