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La via tracciata
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La via tracciata

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About this ebook

Alfonso Heredia è un fotoreporter che sta attraversando un brutto momento economico e personale. Quasi per caso mette le mani su un antico libro con strane frasi in caratteri gotici, e quando legge sul giornale della morte del Papa si rende conto che il testo aveva rivelato le circostanze della morte del Santo Padre. Nell'esaminare il libro scopre più da vicino che è un necrologio agghiacciante su personaggi di tutti i ceti e nazionalità con le previsioni delle loro morti fino alla fine dell'anno. Angosciato dal dilemma se usarle per fini filantropici, impedendo la morte delle persone coinvolte, o egoistici, trovandosi sul luogo delle morti per realizzare dei veri scoop fotografici, Alfonso deve decidere che fare di quelle rivelazioni sorprendenti che molti sarebbero disposti a sottrargli a ogni costo.
LanguageItaliano
Release dateJan 20, 2016
ISBN9788865641897
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    La via tracciata - de Paz Pedro

    XXXIV

    La via tracciata

    Pedro de Paz

    Traduzione dallo spagnolo di Raul Schenardi

    XX PREMIO DE NOVELA LUIS BERENGUER

    © Atmosphere libri 2016

    Alfonso Heredia è un fotoreporter in difficoltà economica e personale. Un giorno entra in una libreria di testi antichi e acquista per pochi spiccioli un vecchio libro con rare sentenze scritto con caratteri gotici. Una volta arrivato a casa, la sua compagna, un’aspirante pittrice, lo lascia, e lui trova consolazione nel vecchio libro. Le sentenze che si leggono annunciano decessi di persone ma nulla è molto chiaro. Solo la mattina seguente, mentre legge sui giornali la morte del Papa, si rende conto che nel vecchio libro tutto ciò era già scritto. A uno studio più attento, scopre che in realtà si tratta di un terrificante obituario su personaggi di diversa condizione e nazionalità, una predizione di morti che ancora non si sono avverati. Inizia così una ricerca per capire chi sarà la prossima vittima, magari un personaggio famoso la cui fotografia da morto potrebbe aiutarlo molto economicamente… O forse è una sua missione occuparsi di salvare queste persone. Mentre prova a capire le prossime sentenze scritte nel libro, come se fossero dettate da Nostradamus, Alfonso si trova sempre nel posto giusto e riesce a documentare fotograficamente la morte di personaggi famosi. La sua vita cambia in modo radicale, tutte le agenzie di stampa lo vogliono e ottiene un grande successo economico e professionale, ma la sua vita va alla deriva. Ancora non riesce a dimenticare la sua compagna, che da quando si sono lasciati sta avendo successo come pittrice, e la considerazione che ha di se stesso è più bassa che mai. Il suo migliore amico scopre che dietro i suoi successi come fotografo c’è qualcosa che sta aiutando Alfonso a ottenere informazioni così importanti per trovarsi sempre nel posto giusto. Dopo il furto del libro, Alfonso fa di tutto per recuperarlo. Scopre che in passato questo testo antico era stato in importanti librerie private, come la Laurenziana, la libreria di Lorendo de Medici e che in origine si trovava nella libreria del conte di Saint-Germain, un aristocratico dedito all’esoterismo e all’occultismo. Alfonso riuscirà a recuperare il libro, ma a costo della vita del suo migliore amico; nemmeno questo lo fermerà. Mancano poche pagine alla fine del libro, così come mancano pochi mesi per arrivare alla fine dell’anno. Ma lo aspetta una sorpresa, e il vecchio libraio lo sta cercando perché pretende la restituzione del volume. È annunciata la morte di un’artista riconosciuta, ma solo all’ultimo lui si rende conto che nel libro si parla di Luisa. Riuscirà a evitare la sua morte? Lo rintraccerà il vecchio libraio? Ci sarà un seguito a questo libro? Perché sin dall’inizio sembra che ogni anno una mano occulta predica chi morirà nell’anno successivo.

    Al mio rimpianto amico

    Jorge Alonso de Armiño, in memoriam.

    Mentono. Il tempo non cura le ferite.

    Le assopisce soltanto. O le incista.

    I

    Senza rimorsi. Quella bestia feroce non avrebbe esitato a spezzargli il cuore senza mostrare il minimo segno di rammarico. Alfonso Heredia, braccato, con il cuore in gola sul punto di scoppiare, corse a nascondersi nel primo posto che sembrava offrirgli un tenue barlume di sicurezza. Senza soffermarsi a verificare che razza di locale fosse, aprì la porta e si precipitò dentro in cerca di un rifugio.

    Non sarebbe mai dovuto ricorrere a quel nascondiglio.

    Poche ore prima Alfonso camminava sotto un forte acquazzone per le strade della vecchia Madrid, oppresso da cupe elucubrazioni riguardo al suo avverso presente e al non meno catastrofico futuro. La pioggia gli colava sulle guance tracciando una miriade di scie trasparenti che dal suo mento finivano per gocciolare nel vuoto. Immerso in pensieri più torbidi del cielo di quel pungente pomeriggio di aprile, in quei momenti la pioggia era la sua ultima preoccupazione.

    Aveva motivi ben più gravi e fondati per essere preoccupato.

    Sentì il lieve sfregamento di una vibrazione all’altezza del petto. Istintivamente infilò la mano nella tasca interna del giubbotto e tirò fuori il cellulare: la tastiera si accendeva e si spegneva a intervalli regolari. Dopo aver guardato il piccolo display a cristalli liquidi per verificare l’identità della persona che lo stava chiamando, il suo volto si contrasse in una smorfia di fastidio. A quanto pareva, quella mattina cominciavano prima del solito.

    «Sì?»

    «Heredia? Sono Aguirre». Breve pausa all’altro capo della linea. «Immagino che saprai perché ti chiamo, vero?»

    «Sì, Aguirre» rispose di malavoglia. «So perché mi chiami. Ti ho già detto di non preoccuparti, avrai i tuoi soldi».

    «Già. Però la stessa cosa me l’hai detta anche tre giorni fa e guarda come siamo messi. A me servono subito».

    «Lo so. Stai tranquillo. Te li restituirò appena posso… molto presto».

    «Te li ho prestati a condizione che me li restituissi dopo una settimana e ne sono già passate tre. Non posso più aspettare».

    «Ho avuto un imprevisto, però…»

    «Un altro?» La voce suonò beffarda.

    «Sì, ma non preoccuparti. Ho alcune foto da vendere e me le pagheranno molto bene. Sto andando proprio adesso in agenzia».

    «Se non ricordo male, è la stessa scusa della settimana scorsa».

    «Stai tranquillo, davvero. Entro un paio di giorni avrai i tuoi soldi».

    «Un paio di giorni, non uno di più».

    «Promesso» dichiarò dando la sua parola, anche se aveva il presentimento che, trascorso quel tempo, probabilmente non sarebbe stato in grado di mantenere la promessa. «A presto».

    Alfonso interruppe la telefonata senza concedere all’interlocutore l’opportunità di aggiungere altro. Mentre stava per mettere via il cellulare, lo sentì vibrare ancora. Guardò il display e quello che vide non fu esattamente di suo gradimento.

    «Merda! Un altro. Ma perché non mi lasciano in pace?» borbottò seccato.

    Dopo qualche secondo di esitazione schiacciò il pulsante per spegnere il cellulare, se lo rimise in tasca e riprese a camminare sotto la pioggia. Sospirò rassegnato. Le cose non stavano andando troppo bene. A essere sinceri, andavano decisamente male. Negli ultimi tempi la professione di fotografo freelance non gli dava troppe soddisfazioni. Erano settimane ormai che non riusciva a ottenere non un’esclusiva, ma una semplice foto da poter vendere a un prezzo decente, al di là dell’abituale tariffa per coprire manifestazioni pubbliche o stupidaggini del genere, e la sua situazione economica aveva cominciato a scivolare pericolosamente verso la sottile linea che separa la bancarotta dalla miseria, e lui tirava avanti faticosamente a furia di prestiti strappati ad amici e conoscenti. Il padrone di casa gli lanciava occhiate antipatiche ogni volta che s’incrociavano sulle scale, dato che aspettava ancora l’affitto degli ultimi due mesi; gli amici, sempre più scarsi, lo cercavano ansiosi sperando nella restituzione del denaro prestato; al Monte di Pietà di plaza del Celenque gli addetti lo chiamavano già per nome e parlottavano scherzosamente ogni volta che varcava la soglia per chiedere una nuova dilazione dei suoi pagamenti. E per completare il quadro, quella mattina era uscito di casa sbattendo la porta dopo l’ennesima discussione con Luisa, che gli aveva rinfacciato, ancora una volta, di essere stufa di prestargli la spalla per piangere. La situazione era veramente disperata e la pioggia era di sicuro il minore dei problemi che lo opprimevano.

    Nel giro di pochi minuti arrivò a destinazione. Si scrollò di dosso le gocce d’acqua che gli inzuppavano il giubbotto e si passò un paio di volte la mano sui capelli in un povero e fallimentare tentativo di rendersi più presentabile, dopodiché varcò la soglia dell’edificio che ospitava gli uffici dell’agenzia di stampa Focus, per la quale lavorava abitualmente e a cui era solito vendere il risultato dei suoi scatti fotografici. Non appena fu al terzo piano respirò profondamente, spinse la porta con dolcezza e si infilò nella caotica e febbrile agitazione che regnava in genere in quel posto.

    Salutò l’addetta alla reception con un lieve cenno del capo e si avviò con passo risoluto verso l’interno. Dopo aver superato una giungla di scrivanie e paraventi, arrivò all’ufficio contabilità. A pochi metri di distanza intravide la sagoma di uno spilungone ossuto che consultava incuriosito alcuni documenti che aveva in mano. Era precisamente la persona che Alfonso stava cercando: il responsabile della sezione.

    «Ma guarda, il mio amico Vélez. Proprio con te volevo parlare».

    L’altro si voltò per l’inattesa menzione del suo nome. Nel vedere un gioviale Alfonso che andava verso di lui con un sorriso esagerato stampato in faccia, Vélez sbuffò mentre atteggiava il viso a un’espressione a metà strada fra lo scetticismo e il disgusto.

    «La risposta è no».

    L’espressione istrionica di Alfonso si tramutò all’istante in una smorfia di finta contrarietà.

    «Caro Vélez… se ancora non sai perché sono venuto da te».

    «Me l’immagino, Heredia. E la risposta resta no».

    Alfonso gli andò vicino abbassando la voce, come per dare una sfumatura di fasullo cameratismo al tono della conversazione che voleva intavolare.

    «E dai, non puoi anticiparmi qualcosa? Lo sai che mantengo i patti. Le foto che ti porto vengono sempre pubblicate».

    «Heredia, hai già avuto tre anticipi per lavori futuri. Non posso concedertene un altro».

    «Giuro che non te lo chiederei se non ne avessi davvero bisogno. Mi trovo in una situazione piuttosto complicata e… merda! Sono disperato. Vi offrirei anche le foto di mia madre, se fossi sicuro che me le comprereste».

    «È attraente?»

    «Chi?»

    «Tua madre».

    «Vélez, parlo seriamente. Non so più a chi rivolgermi».

    «Non insistere. Non posso più anticiparti neanche un soldo, Heredia. Ho già preso un cicchetto per l’ultimo anticipo che ti ho concesso».

    «Non succederà più, giuro che questo è l’ultimo. Dai, sei tu che hai la cassa. Non c’è bisogno che lo sappia nessun altro».

    Vélez scosse la testa.

    «Non intendo giocarmi il posto, Heredia. Se vuoi tentare la fortuna con Mendoza… ma temo che non otterrai granché».

    Alfonso imprecò fra sé, salutò Vélez e lasciò l’ufficio contabilità con l’ombra dello sconforto che gli svolazzava intorno come un uccellaccio di malaugurio. Per quello che ne sapeva, Ricardo Mendoza, il direttore dell’agenzia Focus, era una persona cordiale, abbastanza alla mano, che in varie situazioni aveva dimostrato di provare per lui una certa simpatia, ma gli risultava altresì che quando si trattava di denaro Mendoza apparteneva alla confraternita delle braccine corte. Se non lo riteneva assolutamente giustificato e imprescindibile, non sganciava neanche un centesimo. Dopo aver percorso un paio di corridoi, Alfonso si piazzò di fronte alla scrivania di Rosa, l’arida ed efficiente segretaria di Ricardo Menéndez. Si dipinse in faccia il migliore dei suoi sorrisi e tentò la fortuna.

    «Salve, buongiorno. Volevo parlare con Mendoza».

    Rosa, senza sollevare la testa, alzò gli occhi sopra la montatura degli occhiali e sul suo viso paffuto si affacciò un ghigno di diffidenza.

    «In questo momento non può ricevere nessuno».

    «Ho urgenza di vederlo. Si tratta di una questione importante».

    «Be’, temo che dovrà attendere. Il signor Mendoza ha una mattinata piuttosto impegnativa».

    Alfonso sollevò lo sguardo oltre i limiti della scrivania di Rosa e, attraverso le tendine che coprivano la parete di vetro che separava lo studio di Mendoza dal resto dei mortali, poté vedere che il direttore era solo e che, a prima vista, non sembrava troppo occupato.

    «Mi basteranno un paio di minuti».

    «Le ho già detto che non è possibile, Heredia. Se vuole lasciarmi un messaggio, lo farò avere al signor Mendoza quanto prima».

    «Le ripeto che si tratta di una cosa importante».

    «Per me, è come se i corpi speciali stessero assaltando l’edificio. Ho l’ordine esplicito di non disturbare il signor Mendoza per nessun motivo. Non posso lasciar entrare nessuno nel suo studio» e tanto meno lei, sembrò aggiungere fra le righe assumendo un’aria altezzosa e scostante.

    Alfonso sollevò lo sguardo verso l’ampio finestrone e per un decimo di secondo gli sembrò di notare che Mendoza lo guardasse di sottecchi dissimulando un sorriso sarcastico. In quell’istante Alfonso se ne rese conto. Mendoza era perfettamente consapevole della sua presenza e del fatto che era lì per vedere lui. Semplicemente, si rifiutava di riceverlo.

    «È stato Vélez. Lo ha chiamato Vélez, vero?»

    «La smetta di seccare, Heredia. Qui non ha telefonato nessuno. Faccia quello che ritiene opportuno. Lasci un messaggio, oppure mi faccia il favore di andarsene da dove è venuto, ma le ripeto che il signor Mendoza non potrà riceverla per tutta la mattinata».

    Negli occhi che Alfonso piantò addosso alla donna affiorava un evidente sentimento di avversione. Per tutta risposta la segretaria, imperturbabile, sostenne il suo sguardo in atteggiamento di sfida.

    «D’accordo. Grazie mille» ribatté prima di fare mezzo giro su se stesso per avviarsi verso l’uscita. Prima che si fosse allontanato abbastanza, sentì l’anziana segretaria bofonchiare un chi si crederà di essere questo qui che gli si conficcò dentro in profondità.

    Alfonso lasciò gli uffici di Focus con la sconfitta che ribadiva le cuciture del suo animo. Senza meta apparente, prese a camminare a capo chino per le vie dei dintorni. Aveva appena sparato la sua ultima cartuccia, e l’esito era stato sconfortante. Stava toccando il fondo come mai gli era successo prima e non gli restava che aspettare che gli avvenimenti, nel bene e nel male, seguissero il loro corso. Non c’era più niente che potesse fare per rimediare a quella situazione, che gli risultava tanto penosa quanto inquietante.

    Mentre attraversava una strada Alfonso sentì una delicata melodia, senza capire da dove provenisse, il cui tono ritmico e malinconico riuscì a distrarlo per qualche istante dal suo avvilimento. Girò la testa in tutte le direzioni per scoprire l’origine di quel suono evocativo. In fondo alla strada, un suonatore ambulante provvisto di un violino sciupato eseguiva con maestria un brano di stampo classico, circondato da un gruppo di curiosi ammaliati come i topi di Hamelin. Spinto dalla curiosità, si avviò verso il musicista. Il virtuosismo dell’interprete e l’emotività del pezzo erano commoventi. Per qualche minuto Alfonso riuscì persino a dimenticare i propri crucci, e la sua espressione accigliata si rilassò fino a rivelare qualcosa che somigliava a un attimo di felicità. Il musicista concluse il suo concerto improvvisato raccogliendo gli entusiastici applausi di molti dei presenti che, con l’aria soddisfatta, misero mano al portafoglio. Dopo qualche secondo di esitazione Alfonso aderì al sentimento della maggioranza e tirò fuori un paio di monete. Ne hai sicuramente più bisogno di me… il che è tutto dire. Depositò l’offerta in un cestino ai piedi del musicista e continuò per la sua strada.

    Appena ebbe abbandonato quell’effimera oasi mentale, sembrò piombargli addosso di nuovo il peso delle sue disgrazie. Con una sorda sensazione alla bocca dello stomaco, un misto di sconforto e rabbia, si infilò nel dedalo di viuzze strette e solitarie che formano il vecchio centro storico di Madrid. Passeggiare da quelle parti gli suscitava una piacevole impressione di rapimento, e insieme gli permetteva di appartarsi dal chiasso della folla. Non voleva vedere nessuno. Non voleva parlare con nessuno. Desiderava solo camminare sotto la pioggia, lontano da tutto e da tutti. Camminare fino alla fine del mondo.

    E dopo aver svoltato un angolo lanciò un’imprecazione, convinto che, in fin dei conti, il mondo, il suo mondo, forse sarebbe finito in quello stesso istante. Da lontano gli era parso di intravedere la sagoma di un suo vecchio conoscente, uno di quelli che negli ultimi giorni aveva tentato di evitare come la peste. Soprattutto dopo che questi gli aveva chiesto in modo piuttosto brusco – Alfonso ricordò con un brivido una frase a proposito di gambe spezzate – la restituzione dei soldi che gli doveva. Alfonso lanciò rapide occhiate a entrambi i lati della strada, supplicando di trovare un santuario in cui rifugiarsi finché non fosse passato il pericolo, per evitare quello sfortunato – soprattutto per lui – incontro. La cosa più somigliante che scoprì, sul marciapiede di fronte, fu la vetrina di un vecchio negozio sgangherato. E senza tentennare attraversò la strada di corsa. Quel posto, per il momento, sarebbe stato la sua ancora di salvezza.

    II

    Nell’urgenza del momento Alfonso spinse bruscamente la porta del negozio e, più che entrare, si gettò all’interno. Il cuore gli batteva all’impazzata di fronte alla terrificante possibilità che quella bestia dagli istinti mafiosi l’avesse visto entrare. Nel qual caso Alfonso sarebbe stato irrimediabilmente perduto. In quell’istante si rese conto che la fretta di nascondersi gli aveva impedito di verificare che tipo di negozio aveva scelto come rifugio. Senza perdere di vista la porta, per quello che sarebbe potuto succedere, lanciò un’occhiata scrutatrice tutto intorno.

    Il locale era piccolo e scarsamente illuminato. La poca luce proveniva dalla minuscola finestrella che faceva le veci di vetrina e, in parte, da alcuni vecchi e fatiscenti tubi al neon appesi al soffitto che diffondevano un tenue chiarore lattiginoso. Il pavimento era costituito da una pedana annerita e rovinata che rivelava in superficie le incancellabili tracce del tempo, e le pareti, dal pavimento al soffitto, erano coperte da scaffali di legno che forse una volta erano stati saldi e di aspetto impressionante, ma che il passare degli anni aveva logorato del tutto, stipati di libri di ogni tipo, formato, antichità e fattura. Alfonso annusò l’aria e fece un’espressione infastidita. L’aerazione del locale lasciava abbastanza a desiderare. In quell’ambiente aleggiava un odore acre che sembrava sprigionare da ogni parte e da nessuna in particolare e che offriva rimembranze di pezzi d’antiquariato, di luoghi chiusi e misteriosi. Alfonso non aveva la minima idea di quale fosse l’odore delle vecchie pergamene, ma quella fu la prima cosa che gli venne in mente. Quel posto sembrava preso da una vecchia stampa del XIX secolo e dotato di vita e realtà grazie alla magia di una mano ignota.

    Dopo qualche breve istante di stupore capì di essere finito in una delle numerose librerie dell’usato disseminate nel vecchio centro storico cittadino.

    Il commesso, un uomo dall’età imprecisata che dimostrava addirittura più anni del locale, lo osservava con viva curiosità da dietro un bancone di legno decorato con begli intarsi. Consapevole della brutalità della propria irruzione, Alfonso, imbarazzato, borbottò un «buongiorno» mentre cercava di darsi un certo contegno, nei limiti del possibile.

    «Posso aiutarla?» gli domandò sollecito quell’uomo dalla voce rauca e affaticata.

    Il suo aspetto era quello di un venerabile anziano, con il volto incorniciato da una lunga chioma di capelli albini sfibrati che gli arrivava fino all’attaccatura delle spalle. Le guance erano coperte da una barba curata della stessa tonalità, e la pelle aveva uno strano aspetto cenerino, come se il suo proprietario fosse rimasto confinato in quel negozio, alla luce smorta dei neon, per tutta la vita. Indossava un abito consunto di velluto nero il cui modello evocava tempi remoti nei quali le buone maniere e il gusto nel vestire godevano ancora di un certo riconoscimento sociale. Aveva un’aria serena e affabile, e lo sguardo che riflettevano i suoi occhi, scuri come i meandri di due caverne e che risaltavano perciò in modo ancora più deciso sul candore del volto, risultava sorprendentemente acuto e sagace e lasciava trasparire una vitalità in contrasto con la decrepitezza che in apparenza caratterizzava l’uomo.

    «Non cercavo niente in particolare» rispose Alfonso con un certo imbarazzo. «Sono entrato solo per dare un’occhiata. Magari trovo qualcosa che potrebbe interessarmi».

    «Può curiosare finché vuole» ribatté il vecchio sfoggiando un sorriso beato che lasciò intravedere una fila di denti giallognoli. «Lei è a casa sua».

    «Grazie mille».

    Alfonso si avviò verso la zona più interna del negozio, più che altro per cautela. Non voleva che il suo inseguitore, nel caso passasse proprio davanti alla vetrina, scoprisse quell’improvvisato nascondiglio e provocasse una situazione molto scabrosa, in cui lui si sarebbe ritrovato in trappola e in balia dell’uomo che gli dava la caccia. Camminando, sentì scricchiolare sotto i piedi il legno della pedana, come se dovesse sfasciarsi da un momento all’altro. Il vecchio commesso lo seguì con lo sguardo per qualche secondo, poi scrollò le spalle e continuò a occuparsi delle sue incombenze.

    Quando si sentì al sicuro in fondo al locale, Alfonso decise di lasciar passare per prudenza dieci minuti prima di uscire in strada. Non era il caso di correre rischi inutili. Nel frattempo optò per ammazzare il tempo dando un’occhiata alla notevole quantità di volumi che stipavano gli scaffali. Davanti ai suoi occhi erano impilati senza un ordine apparente decine di libri antichi. Trattati, romanzi, testi di filosofia, grammatica, scienza, storia… Vetuste edizioni dalle rilegature raffinate ed eccellenti, il più delle volte lussuose, si ammucchiavano mischiate in modo caotico con modesti successi editoriali pubblicati di recente. Quell’amalgama offriva un’ampia gamma culturale. Alfonso li contemplò con deferenza, mentre evocava mentalmente il gran numero di mani per le quali erano passati quei volumi. Pensò a tutte le conoscenze, le emozioni, le illusioni e a tutto il piacere che quei libri dovevano aver procurato ai loro proprietari, prima di finire a dormire il sonno dei giusti in quegli scaffali.

    Prese un volume a caso e lo sfogliò con reverenziale rispetto. Si trattava di una vecchia edizione consunta, stampata agli inizi del XX secolo, del Viaggio al centro della Terra, di Jules Verne. Sul logoro volume figurava un ex libris di qualche antico proprietario, un certo Rodrigo Saldaña, stampato sulla parte inferiore del risvolto di copertina. A giudicare dall’aspetto dell’edizione, il volume rivelava di aver conosciuto tempi migliori e luoghi più degni dove essere custodito e, malgrado la collocazione odierna offuscasse in gran misura il suo pedigree, l’evidente qualità della rilegatura, la carta antica morbida al tatto, i caratteri tipografici e le splendide illustrazioni erano estremamente suggestivi. Sfogliare le pagine di quell’opera era come sfiorare con le dita pezzi di Storia, come accarezzare i resti di un passato lontano e sconosciuto i cui valori erano stati dati per persi molto tempo addietro. Ad Alfonso, che ignorava il valore economico che quel volume poteva avere, l’attuale situazione di esilio forzato e di penoso oblio parve un autentico sacrilegio. Questo libro meriterebbe di essere esposto nelle teche di un museo pensò meravigliato. E invece si trovava lì, abbandonato insieme a centinaia di compagni di solitudine e disgrazia.

    Dopo aver dato un’occhiata a un altro paio di volumi, Alfonso guardò l’orologio e concluse che era arrivato il momento di uscire dal suo nascondiglio. Il pericolo era passato. Stava già per andarsene quando la sua attenzione fu richiamata da un volume che giaceva sulla mensola inferiore della scaffalatura. Si trattava di un grosso tomo rilegato con cura, dotato di una magnifica copertina di robusta pelle nera che, malgrado l’aspetto vecchio e sciupato, aveva conservato in gran parte lo splendore originale e presentava una complessa filigrana dorata che copriva l’intera superficie, formando una serie di arabeschi di straordinaria bellezza. Le linee che attraversavano la copertina finivano per unirsi nella parte centrale, disegnando una figura a sei punte che evocava remotamente la stella di David. All’interno dell’esagramma si distingueva il profilo di uno strano disegno: la raffigurazione di una specie di tempio il cui portico sembrava sorretto dalle sagome di due atlanti, che evocavano l’effigie di due potenti guerrieri armati, uno di spada e l’altro di tridente. Dopo aver ammirato il sontuoso disegno per qualche secondo, Alfonso esaminò il volume nel suo complesso. Alcune magnifiche nervature minuziosamente cesellate attraversavano il dorso di quel libro superbo. Il suo aspetto esteriore, quale che fosse il contenuto, era abbastanza appariscente da catturare l’attenzione di chiunque, ma curiosamente uno dei dettagli che intrigarono di più Alfonso fu che, malgrado la bella e scrupolosa rilegatura, sul volume non comparivano iscrizioni esterne. Né titolo né autore. Non se ne vedeva la minima traccia né sul dorso né sulla copertina. Il dettaglio lo sorprese. Chi spenderebbe un’autentica fortuna per rilegare in modo così accurato un volume per poi non stamparvi nemmeno un’indicazione esterna del contenuto? La cosa gli parve insensata.

    Alfonso lo prese fra le mani e l’aprì con estrema delicatezza alla prima pagina. Davanti ai suoi occhi comparve una magnifica carta pergamena dall’aria antichissima e dalla colorazione ambrata. La pagina conteneva una sola iscrizione scritta a mano, una sorta di lemma collocato al centro. In tale epigrafe si poteva leggere, in grandi e meticolosi caratteri gotici:

    Haec mea, forte tua (CCVIII)

    Alfonso corrugò le sopracciglia. Neanche quella scarna frase – che identificò come latino, pur sapendo di non essere in grado di interpretarla o di tradurla – suggeriva granché riguardo al contenuto del singolare libro. Aprì una pagina a caso ed esaminò il testo focalizzando l’attenzione su due particolari che gli sembrarono degni di nota. Il primo: a giudicare dalla pagina che aveva aperto, il libro era scritto in spagnolo. Il secondo: non solo il titolo della prima pagina ma l’intero libro era vergato a mano. Dall’aspetto ricordava vagamente quello che poteva essere un antichissimo diario. Le sue pagine erano attraversate da una calligrafia minuta e scrupolosa su righe millimetricamente rettilinee. La bellezza di quell’opera superba e la cura con cui era stata redatta erano alquanto suggestive.

    Alfonso sfogliò diverse altre pagine e constatò che il contenuto del testo sembrava organizzato in una serie di capitoli successivi, tutti preceduti da una cifra in numeri romani. Ciascun capitolo, a sua volta, appariva innegabilmente suddiviso in dodici sezioni, tutte di estensione irregolare, all’interno delle quali erano inserite una serie di frasi e sentenze allegoriche apparentemente prive di un significato preciso.

    Nuvole rosse viaggiano verso Est… perirà sotto il proprio giogo… una mano amica diventerà minacciosa…

    I frammenti di quelle criptiche

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