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Il sentiero delle more di gelso
Il sentiero delle more di gelso
Il sentiero delle more di gelso
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Il sentiero delle more di gelso

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About this ebook

New York, 2015. Melissa sta attraversando un momento della sua vita molto doloroso dal quale non riesce ad uscire. Tutti i giorni ripete le stesse azioni senza esserne pienamente cosciente e neanche l’amore e la comprensione di suo marito Tyler riescono a farla uscire dal torpore in cui si è rintanata, fino a quando, un giorno, riceve una chiamata dall’ospedale che le comunica che la nonna alla quale è tanto affezionata è stata ricoverata in seguito a un infarto dovuto a uno shock.
Sarà proprio la causa di questo shock a condurre Melissa e Tyler in un viaggio che li porterà in Italia, nella bella Sardegna, dove un segreto sepolto da decenni aspetta di essere svelato.
Comincerà così un’avventura che li porterà nel pieno degli anni ’40, per seguire i passi di Isabella, la donna misteriosa di cui non hanno mai sentito parlare.
Ma chi era Isabella? E che legame ha con la sua famiglia?
Melissa dovrà rispondere a queste domande ma ne sarà in grado avendo così pochi indizi a disposizione?
LanguageItaliano
Release dateJan 22, 2016
ISBN9786050417333
Il sentiero delle more di gelso

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    Il sentiero delle more di gelso - Simona Urbinati

    Simona Urbinati

    Il sentiero delle more di gelso

    UUID: 54632d6e-da31-11e5-8f5c-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Prologo

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7.

    8.

    9.

    10.

    11.

    12.

    13.

    14.

    15.

    16.

    17.

    18.

    19.

    20.

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    22.

    23.

    24.

    25.

    26.

    27.

    28.

    29.

    30.

    31.

    32.

    33.

    34.

    35.

    36.

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    38.

    39.

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    41.

    42.

    43.

    44.

    45.

    46.

    47.

    48.

    49.

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Alla mia bisnonna Battistina,

    donna bellissima e di estremo coraggio

    che ha lottato tutta la vita per trovare l’amore

    che meritava.

    Un breve tocco di campana,

    un lieve strappo alla coperta:

    qualcuno si siede sul mio letto.

    Nel silenzio, m’inonda un tenero profumo di gelsomino.

    Si è riposato per un attimo

    l’Angelo che, guidato dal respiro

    di chi sa sorridere,

    risana, ad ogni batter d’ali,

    una briciola di Mondo

    e m’ha guarito.

    (Charles Baudelaire)

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, persone o luoghi realmente esistiti è puramente casuale.

    RICORDI D’INFANZIA DA EMIGRATA

    Col cesto colmo di panni da lavare giungo al ruscello.

    E’ una bella giornata con il tiepido sole primaverile.

    Poso il cesto sull’erba e

    mi siedo su una pietra che costeggia il limpido ruscello.

    Poso il capo tra le mani e chiudo gli occhi.

    in quel mentre la mia mente ritorna al passato…

    Mi rivedo nella mia terra sarda

    dove quando ero bambina, giocavo con

    dei sassolini bianchi di un ruscello,

    mentre ascoltavo il melodioso canto degli uccelli

    che si confondeva con il bel mormorio

    dello scrosciare dell’acqua fuggente tra i giunchi.

    Ma la più dolce melodia era la voce di mia madre che cantava

    mentre sbatteva il mio abitino rosa su una liscia pietra.

    Se pur bambina, quel gesto mi inteneriva,

    allorché buttai i sassolini nel ruscello e corsi felice verso

    un grande cespuglio di bianco spino

    strappandone i rami più fioriti di quei profumati e candidi fiori

    che si arrossavano col sangue delle mie dita

    ferite dalle sue spine.

    Ma a questo non badavo, tanto ero intenta a costruire

    una coroncina per mia madre,

    allorché finita, corsi canticchiando lo stesso ritornello sardo

    che sentivo cantar da lei.

    Appena giunsi dinanzi al suo corpo fresco e giovane,

    le sorrisi con le mie manine dietro alla schiena

    che stringevano la coroncina.

    Fissai il suo dolce volto simile alla Madonna,

    al fin posai la coroncina sui suoi lunghi capelli lisci e neri.

    Poi il mio sguardo si posò sulle sue giovani mani,

    mi rattristai nell’osservare quelle mani sciupate

    se pur piene di brio nel lavare la mia piccola rosa veste…

    Ma di colpo i miei ricordi svanirono nel sentire dietro di me

    L’angelica voce della mia creatura.

    Mammina, mammina, dove sei?

    Alzo il capo e la vedo correre verso di me stringendo in mano un 

    mazzetto di fiori di campo dicendomi:

    Hai visto mammina? I fiori sono belli come te.

    Me la stringo forte al petto baciandole i suoi lunghi capelli biondi 

    come il grano maturo della mia terra.

    In un attimo si divincola dalle mie braccia per correre

    dietro ad un gruppo di farfalle variopinte.

    Ed io con le lacrime agli occhi,

    mi inginocchio davanti al ruscello accanto ad una liscia pietra

    per lavare il suo bianco abitino,

    ripetendo gli stessi gesti di mia madre…

    E pensai…

    Gesti di fatica quotidiana, ma gesti d’amore di tutte le madri…

    Grazie mamma per tutte le volte che ti sei inginocchiata

    per lavare le mie vesti.

    Giovanna Orrù

    Sardegna, 1945

    La grande casa era immersa nel silenzio della notte, il solo suono udibile era il ticchettio dell’orologio a pendolo situato in fondo al corridoio.

    Nel cielo cosparso di stelle, si distingueva nitida la sagoma della luna piena che illuminava la stanza padronale.

    Sdraiata supina nel letto, la giovane donna aveva le palpebre aperte e le orecchie tese in ascolto.

    Finalmente l’orologio a pendolo suonò i tanto attesi dodici rintocchi.

    E’ giunta l’ora.

    La donna si alzò cautamente a sedere e spostò delicatamente il lenzuolo di leggero cotone da sopra le sue gambe.

    Scivolò giù dall’enorme letto a baldacchino di legno scuro e si volse a guardare l’uomo disteso.

    Un’espressione di disgusto si dipinse sul volto della giovane. Lo odiava con tutte le sue forze.

    L’uomo si mosse leggermente ma non diede accenno di svegliarsi.

    La donna si mosse piano fino alla poltrona, dove aveva poggiato i suoi vestiti. Si tolse la camicia da notte e li indossò, guardando ogni tanto oltre le sue spalle per essere sicura che il marito dormisse ancora. Poi legò i capelli in una treccia e prese in mano le scarpe per poggiarle al di fuori della porta.

    Si avvicinò all’armadio situato sulla parete destra della stanza e ne aprì un’anta. Si abbassò verso il fondo e cerco tastoni. Eccolo!! Sollevò l’oggetto e uscì dalla stanza con passo felpato come fosse un ladro, richiudendola alle sue spalle.

    Percorse il lungo corridoio fino alla fine finché non trovò la maniglia dell’ultima porta.

    La abbassò e cominciò a salire le scale, facendo attenzione a non inciampare sui gradini nascosti dal buio.

    Arrivò a un’altra porta e la aprì. Cercò tentoni l’interruttore della luce e la accese. Ancora poco e tutto sarebbe cambiato… finalmente.

    Mentre si dirigeva verso il fondo del solaio, qualcosa attirò la sua attenzione. Poggiò sul pavimento il suo tesoro e si concesse un minuto.

    Il lungo specchio antico e polveroso rifletteva la sua immagine… Una bellissima ragazza appena ventiduenne, dai lunghi capelli neri e dalla snella figura.

    Passò una mano sulla superficie liscia e avvicinò il viso al vetro. Senza che se ne accorgesse, lacrime silenziose iniziarono a uscirle lente dagli occhi, scivolando lungo le sue guance, fino a raggiungere il mento, per poi cadere nel vuoto. Era il ritratto dell’infelicità. Non riconosceva più i suoi occhi che una volta erano sempre ridenti, né la sua bocca che di solito si apriva sempre in un sorriso. Quello che vedeva era una donna di cui il destino si era fatto beffe, anche se aveva combattuto con tutte le sue forze per vivere fuori dalle regole impostale dalla sua famiglia. La partita però, non era ancora finita, non per quello che la riguardava.

    Si allontanò con calma dallo specchio e s’inginocchiò vicino al piccolo baule che aveva trasportato fin lassù.

    Alzò cautamente il coperchio e sfiorò con le mani il prezioso contenuto.

    Sospirò e gli diede un ultimo saluto, dopodiché, lo richiuse e fece scattare la serratura del lucchetto argentato. Infine, infilò con cura la chiave nella collana che portava al collo, in modo da averla sempre con sé.

    Sollevò il suo tesoro e lo nascose nell’angolo più buio e angusto, dietro altri bauli contenenti vestiti e varie cianfrusaglie, in modo che nessuno lo trovasse e che il suo segreto rimanesse tale.

    Prese coraggio e si riavviò verso la porta del solaio.

    Una volta fuori, si chiuse l’uscio alle spalle e si apprestò a scendere i gradini della grande casa, da cui, fra poco, se ne sarebbe andata per sempre.

    Prologo

    Bosa, Sardegna 2015

    Un lieve bussare alla porta attirò l’attenzione dell’anziano signore seduto comodamente in poltrona.

    «Avanti» rispose con voce flebile, indebolita dalla sua veneranda età.

    L’uscio si aprì ed entrò un uomo sulla quarantina, con capelli castani e occhi nocciola.

    Con passi decisi si avvicinò alla poltrona e aspettò l’invito ad accomodarsi.

    «Prego» disse l’anziano indicando il divano posto di fronte alla sua poltrona.

    Il più giovane accettò l’invito e attese il momento di parlare. Il suo cliente ultranovantenne lo inquietava da quando l’aveva conosciuto durante l’incontro di qualche anno prima.

    Aveva capelli grigi impomatati e folti baffi dello stesso colore, ma quello che più l’aveva colpito, era il suo sguardo glaciale.

    «Sei venuto a riferirmi di aver trovato l’ennesima pista che si rivelerà errata?»

    «Non questa volta».

    «Allora cosa sei venuto a fare?»

    «L’ho trovata».

    Lo sguardo dell’elegante uomo anziano s’illuminò. «Sul serio? Bada bene a quel che dici, non mi piace chi si burla di me. Sono vecchio non stupido».

    «Sono serio. E’ lei!»

    «Dove si trova?»

    «A Clifton, nel New Jersey».

    «Negli Stati Uniti?»

    Il vecchio portò il pollice e l’indice sotto il mento e prese a strofinarselo. «Questo complica le cose. Spero di vivere abbastanza da avere un esito della mia missione».

    «Posso osare e domandarle di cosa si tratta?»

    «Della mia redenzione».

    1

    New York, 2015

    Un tuono squarciò il silenzio della notte buia. Poi un altro e un altro ancora, in un crescendo sempre più forte.

    Mi svegliai di soprassalto, madida di sudore e ringraziai mentalmente il temporale in arrivo che mi aveva strappato agli incubi che di recente popolavano le mie notti.

    Sentii un movimento al mio fianco e un leggero russare e mi voltai. Speravo di non aver interrotto il sonno di mio marito, non volevo che mi vedesse di nuovo in quello stato. Già soffriva abbastanza per non potermi aiutare a uscire dallo sconforto in cui ero caduta.

    Un lampo illuminò la stanza e potei costatare che Tyler dormiva tranquillamente in posizione supina, con un braccio appoggiato dietro alla testa.

    Spesso negli anni mi ero soffermata a guardarlo mentre si trovava tra le braccia rassicuranti di Morfeo. Il suo viso dolce, a tratti infantile e quelle lunghe ciglia che gli accarezzavano le guance quando le palpebre erano chiuse.

    Era decisamente un bell’uomo: alto, con una zazzera di capelli castani e un fisico aitante. Quando l’avevo conosciuto, cinque anni prima, non l’avevo preso subito in considerazione, ma in poco tempo, riuscì a conquistarmi, con i suoi modi allegri, gioiosi ed entusiasti. Era dotato di un carattere aperto ed estroverso, al contrario di me, timida e introversa. Quando le persone ci conoscevano, inizialmente davano retta solo a lui, considerando me quasi spocchiosa, finché non capivano che ero solo frenata dall’imbarazzo.

    Ammetto che ciò che fece breccia nel mio cuore furono anche i suoi grandi occhi di un colore che andava dal nocciola al verde in base al tempo, tempestati da piccole pagliuzze dorate e così espressivi da colpirmi nel profondo.

    C’eravamo conosciuti una sera in un locale, dove io mi trovavo in compagnia delle mie care amiche Ashley e Sasha e lui con il suo vecchio amico d’infanzia Jason.

    Ricordo come se fosse ieri quell’incontro. Ero appoggiata al bancone del bar in attesa di ordinare i cocktail e lui, per saltare la coda, aveva finto di essere il mio fidanzato. Divertita dai suoi modi, stetti al gioco e lo obbligai a offrire i drink come pegno, invitando poi lui e Jason, a unirsi alla mia compagnia.

    Ammetto di essermi trovata, stranamente per il mio carattere, subito a mio agio. Mi lasciai andare e passammo una bella serata, al termine della quale, mi chiese di rivederci. Gli lasciai il mio numero di telefono, ma senza convinzione, sapevo come andavano certi incontri casuali, ci si faceva prendere dall’entusiasmo del momento ma poi finiva tutto lì.

    Come previsto non lo sentii per le due settimane successive e lo misi nel dimenticatoio, finché non entrò casualmente nel mio negozio con sua madre, patita di cure erboristiche.

    Da quel giorno passò a trovarmi quasi tutti i giorni della settimana successiva, invitandomi ripetutamente a cena ed io, puntualmente, rifiutavo.

    Avevo chiuso da pochi mesi una storia lunga e importante con un uomo che credevo di conoscere ma che si rivelò tutt’altro che un buon partito e desideravo solo del tempo per ritrovare me stessa e la fiducia nel sesso opposto. Non ero il tipo da una botta e via, né mai lo sarei stata. Pensavo che se ci teneva tanto a rivedermi, non avrebbe atteso un incontro casuale per ricordarsi di me.

    Dopo un mese d’insistenze cedetti e, dalla sera del primo appuntamento, non ci lasciammo più.

    Dopo tre anni arrivò la fatidica proposta. Ci sposammo dopo un altro anno in una piccola chiesetta e adesso avevamo festeggiato il nostro primo anniversario da pochi mesi.

    Ero felice finché…

    Un’altra serie di tuoni mi strappò ai miei pensieri. Scacciai dalla mente il triste ricordo che si stava prepotentemente riaffacciando e tornai a sdraiarmi, mentre sentivo le lacrime riempirmi nuovamente gli occhi. Non avevo mai pianto così tanto come negli ultimi tempi.

    Mi rannicchiai e strinsi forti le braccia intorno al corpo, lasciandomi andare alla disperazione.

    Alla fine mi addormentai, stremata, sul cuscino bagnato.

    Mi svegliai al suono insistente della sveglia e allungai una mano sul comodino per spegnerla.

    Come al solito mio marito non l’aveva minimamente sentita.

    Scossi la testa rassegnata e lo scossi gentilmente. «Amore… Amore svegliati o farai tardi al lavoro».

    In risposta ottenni solo un mugolio, prima che Tyler si girasse dandomi le spalle. La stessa storia ogni mattina.

    Scostai le coperte e gettai fuori le gambe sbadigliando. Infilai le pantofole e mi diressi in cucina a preparare la colazione.

    Era lunedì, il mio giorno di riposo, ma per mio marito cominciava la settimana lavorativa presso l’ufficio dove lavorava come pubblicitario.

    Accesi la macchina del caffè e preparai dei pancake con lo sciroppo d’acero, poi riprovai a svegliare Tyler senza alcun risultato.

    Ritornai a preparare il caffè e guardai l’ora. Era tardissimo.

    «Amore sono le otto. Pensi di alzarti o vuoi arrivare in ritardo?»

    Sentendo l’orario Tyler sbarrò di colpo gli occhi, si lanciò fuori dal letto e lo vidi fiondarsi di corsa in bagno come una saetta.

    «Perché non mi hai svegliato?» Lo sentii bofonchiare mentre si spazzolava i denti.

    «Ci ho provato solo un numero considerevole di volte… Come tutte le mattine d’altronde».

    Si preparò in fretta e furia e ingurgitò la colazione.

    Prima di uscire mi venne vicino e mi baciò teneramente tenendomi stretta tra le sue forti braccia protettive.

    «Mi prometti che cercherai di stare bene?»

    «Ci proverò Ty. Mi sto sforzando, davvero».

    «Non voglio che tu rimanga chiusa in casa a piangerti addosso. Chiama un’amica o chi vuoi, ok?»

    «Forse».

    «Tesoro devi reagire. Fallo per me, per noi».

    «Ce la sto mettendo tutta. Ho bisogno di tempo, ok?» Risposi un po’ stizzita, anche se sapevo che aveva perfettamente ragione.

    Sconsolato mi diede un altro bacio a fior di labbra e si apprestò ad andare a lavoro. In cuor suo sapeva che mi sarei rintanata in casa, da sola, a ripensare alla fonte della nostra tristezza.

    Ancora in pigiama mi trasferii in salotto e mi avvicinai alla portafinestra che dava sulla via e guardai fuori.

    Il temporale della notte precedente aveva lasciato spazio a una pioggerellina che scendeva dalle dense nuvole grigie che riempivano il cielo.

    Sembrava quasi che il tempo seguisse il mio umore cupo. Quando Tyler era presente, mi sforzavo di sorridere e farmi vedere serena, ma lui sapeva bene che sotto la maschera che mi ero creata, soffrivo le pene più atroci.

    Mi appoggiai al vetro con la spalla e, istintivamente e senza pensarci, portai la mano destra ad accarezzarmi la pancia.

    Quando mi resi conto di quello che stavo facendo, la spostai immediatamente, come se mi fossi scottata con un ferro rovente.

    Lui non c’era più. Il mio, il nostro bambino non c’era più.

    Avevo passato gli ultimi tre mesi a fantasticare su come sarebbe cambiata la nostra vita quando finalmente lo avremmo tenuto tra le braccia. Avevamo passato serate intere a discutere sui nomi che ci piacevano e avevamo stilato una lista dove, la parte dedicata a quelli femminili era notevolmente più lunga.

    Desideravamo ardentemente un figlio e quella mattina in cui il test di gravidanza aveva rivelato le due lineette rosa, eravamo al settimo cielo.

    Eravamo andati fuori a cena a festeggiare la novità e ci sentivamo le persone più fortunate sulla faccia della terra.

    Fino a quel maledetto giorno in cui mi accorsi di avere perdite di sangue.

    La corsa all’ospedale, l’ecografia che non rivelava battito… Nel giro di pochi giorni mi ritrovai in una sala operatoria, dove un chirurgo sconosciuto mi tolse per sempre il bambino che non sarebbe mai nato.

    Mi presi la testa tra le mani al ricordo straziante e crollai sul pavimento.

    Perché, perché… Dio perché ci hai fatto questo? Sempre se c’è un Dio… Non posso credere che ne esista uno se mi ha privato della gioia immensa di stringere mio figlio tra le braccia.

    Mi lasciai andare all’ennesimo pianto disperato, finché sentii il telefono.

    Lo lasciai squillare a vuoto. Non avevo voglia di parlare con nessuno. Tutti cercavano di consolarmi, ma solo io conoscevo l’ampiezza della voragine che si era aperta all’interno del mio cuore.

    L’unica consolazione era mio marito. Stare tra le sue braccia mi rasserenava un pochino, solo lui poteva capire il mio dolore, provandolo lui stesso.

    Sapevo di sbagliarmi perché i nostri genitori soffrivano molto anch’essi, ma non riuscivo a guardare più in là del mio naso.

    Avrei spesso voluto ringraziarli per il sostegno che ci davano e mi ripromisi di farlo al più presto.

    Il telefono riprese a squillare. Mi asciugai gli occhi con un braccio e mi obbligai a rispondere «Pronto?»

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