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Insurrexit
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Insurrexit

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Una morte accidentale avvenuta nel bosco di Yf, cittadina di campagna nei dintorni di Parigi, fa riemergere dalle profondità della terra un deposito militare risalente alla Seconda guerra mondiale. Interpellato dalla Procura della Repubblica in veste di consulente tecnico, il giovane ricercatore universitario Nathan Berthier scopre che il bunker cela in realtà un affascinante quanto pericoloso segreto. Pare, infatti, collegato all’attività dell’organizzazione pseudo scientifica Deutsches Ahnenerbe, tacciata dagli storici di esoterismo, occultismo e magia.

Il ritrovamento della riproduzione della statuetta in bronzo de Il pensatore di Rodin avvalora questa versione e dà l’avvio a una sequenza di avvenimenti inarrestabile. Nathan, infatti, accederà a una sorta di dimensione esoterica che gli consentirà di vivere le vite e le esperienze di altri uomini. Preso in questo vortice di sensazioni inizia a vivere più intensamente l’esistenza altrui - quella di un soldato italiano volontario sul fronte russo nel 1942, di un rivoluzionario argentino, di un musicista statunitense - che la propria. Sarà una giovane ufficiale della Gendarmeria innamorata di Nathan a farsi carico di salvarlo dalla sua stessa sete di conoscenza. Andrea Verger, al suo debutto nella narrativa, costruisce un mistery storico impeccabile sia sul piano della ricostruzione storica che nell’intreccio della narrazione. E riesce a recuperare, salvandola dall’oblio, la memoria delle gesta di tutti quei giovani che nel ventesimo secolo si immolarono in nome della libertà e della giustizia.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2015
ISBN9788863967890
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    Insurrexit - Andrea Verger

    2,16-17

    Prima parte

    Bosco di Yf, 10 maggio 1995

    I

    Last man to die

    Cono di luce, una lampada appesa a un filo accesa sul tavolo della cucina.

    Nathan Berthier, chino sulla sua cena improvvisata, tentando di sorvolare sulla giornata appena passata si gingillava con un bicchiere di vino che insisteva a riempire generosamente, troppo generosamente per non ammettere che quello che stava realmente cercando era uno stato di grazia. Ne aveva bisogno per capire, o anche solo intuire, se quello che stava vivendo fosse un sogno mal riuscito oppure un incubo con qualche speranza di un lieto fine: di certo, la ricerca di uno schema logico che desse significato a tanti dettagli rimasti impigliati nella sua memoria negli ultimi giorni avrebbe ossessivamente occupato la sua mente nei tempi a venire.

    Mangiando patate e formaggio non si può certo perdere la ragione, andava dicendosi, cercando a forza di recuperare una rassicurante ragion pratica che desse finalmente senso al presente: e per un po’ - perdendosi beato nel gusto di cibi e pensieri così semplici e familiari - riusciva a sentirsi di nuovo un essere vivente, un uomo con delle prospettive. Poi però, attratto dal desiderio di esplorare a fondo la verità della sua nuova condizione, tornava a sfidare ancora con lo sguardo il buio della stanza e così, disorientato, reggendo il bicchiere di vino mezzo pieno nella mano e masticando pigramente un boccone stavolta destinato a rivelarsi amaro, riviveva ancora gli avvenimenti recenti uno a uno davanti a sé: poche e infuocate le immagini, struggenti i sentimenti, sconvolgenti le emozioni. E subito, all’apparire dei temuti fantasmi, la gioia di una vita tranquilla e piena di aspettative rassicuranti perdeva corpo, divenendo vaga, inconsistente, irrimediabilmente compromessa. Com’era potuto accadere? Come aveva potuto permettere che gli eventi stravolgessero il corso equilibrato e quieto della sua vita, dei suoi interessi, delle sue relazioni, ma soprattutto del suo lavoro scientifico di storico, di ricercatore avviato a una carriera promettente? Già, proprio quel lavoro, passione centrale nella sua esistenza di trent’anni, presiedeva allo stesso tempo all’ordine e al caos della sua vita, visto che non solo si era rivelata la fonte dei suoi precoci e solidi progetti per il futuro ma paradossalmente, per una indesiderata ironia della sorte, era anche all’origine delle sue recenti, pericolose deviazioni verso l’ignoto. Iniziate con una telefonata.

    Nella casa in cui abitava in affitto a Parigi, il telefono aveva squillato a lungo una sera del mese precedente. Una voce familiare lo aveva distolto dalla sua occupazione principale dell’ultimo anno e mezzo, una monografia sulla storia operativa della divisione Das Reich.

    Ciao Nathan, sono papà, come stai? Stavi lavorando al libro, ti disturbo?

    Ciao papà, stavo lavorando ma non mi disturbi affatto, sono di nuovo a un punto morto con le ricerche e una pausa a questo punto non può farmi che bene. Come stai? La mamma si è ripresa dall’influenza?

    Sì, migliora lentamente ma almeno ora si può dire che ne stia uscendo, grazie alla mia insistenza: l’aveva trascurata per troppo tempo. Tu piuttosto continui a preoccuparmi, scommetto che passi ancora giornate intere al computer o immerso nei tuoi documenti polverosi, non è una vita sana sai, te l’ho già detto mille volte, di questo passo se non cambi abitudini ti buscherai sicuramente un malanno, ai polmoni probabilmente. Almeno hai ripreso a correre la sera come facevi quando stavi qui da noi?

    Papà scusa, non dirmi che mi hai chiamato per parlarmi di malattie...

    "Ah no, infatti... Tanto l’ho capito sai che parlare di salute con te e con tua madre è solo fatica sprecata. Piuttosto, ti ho chiamato per segnalarti un fatto di cui sono venuto a conoscenza per ragioni di servizio e che desterà sicuramente il tuo grande interesse per i nazi. Devi sapere che in un bosco vicino a Yf è venuto alla luce qualcosa, la gendarmeria non sa ancora di preciso cosa sia, nel rapporto che è arrivato al mio ufficio in Procura si parla di residuati bellici tedeschi, gli artificieri hanno già disinnescato molte mine, mix di sprengminen 44 e di tellerminen 43 dice qui. E ce ne sono intere strisce disseminate in quella collina disgraziata, ah già... perché non ti ho detto il peggio..."

    E cioè?

    E cioè che la scoperta è avvenuta sotto cattivi auspici, c’è scappato il morto, un ragazzino che giocava nel bosco con i suoi amichetti. Si era avventurato in quella zona completamente isolata circondata da una macchia impenetrabile di rovi per recuperare il suo cane, dopodiché è saltato su uno di quegli aggeggi infernali e ci ha rimesso la pelle, morto sul colpo, non c’è stato niente da fare... È così che è venuto alla luce tutto.

    "Allora a cinquant’anni dal cessate il fuoco quel bambino è ufficialmente l’ultimo caduto della Seconda guerra mondiale. Robert Capa si sbagliava: Last man to die in realtàè un teen-agerdegli anni ’90. Oltre a questo non mi dici granché d’interessante, per i miei studi intendo. Solo una cosa non riesco a spiegarmi: che ci fossero campi minati tedeschi laggiù è strano, tutta la zona che io sappia non è mai stata di alcun interesse militare durante la guerra... probabilmente le mine saranno state sotterrate lì a protezione di un campo segreto della Resistenza."

    L’avevo pensato anch’io, all’inizio. Ma non è così, mio egregio professore. Anzitutto stando al rapporto della gendarmeria e secondo gli artificieri, ce ne sono troppe di mine lì intorno per pensare a qualcosa d’improvvisato, e infatti a forza di rilevarne con i loro benedetti metal detector, qualcosa hanno trovato sepolto esattamente sulla sommità della collina, una cosa enorme, inizialmente sembrava solo una gigantesca piattaforma metallica sotterrata in profondità a più di un metro sotto terra, poi scavando hanno scoperto che si trattava di un...

    Un tobruk.

    Come?

    Un tobruk, un mini bunker corazzato, serviva come postazione difensiva modulare, in genere ospitava in torretta una mitragliatrice, raramente un mortaio.

    Bravo! Proprio così, ci potevo scommettere che avresti individuato subito il quid. Che asso però! Esatto, un bunker metallico nazista sepolto lì da mezzo secolo, lungo dieci metri, largo sei, profondo tre, ermeticamente chiuso e... minato.

    "Ma è enorme... Ehi come sarebbe a dire minato?"

    L’accesso non solo è sbarrato dall’interno ma è pure collegato a una carica esplosiva a orologeria, auscultando il portello blindato si sente un ticchettio, e i cani anti-bomba degli artificieri fiutano la presenza di tritolo, tanto tritolo. Vai a capire perché è minato, cosa conterrà mai quel dannato scatolone dei nazi, che il diavolo se li porti!

    Mmm, ci sono un paio di cose interessanti in questa storia: la presenza di un’installazione militare tedesca segreta in una zona mai interessata da combattimenti, e le dimensioni esagerate del bunker, i tobruk generalmente non avevano dimensioni simili. Un discreto rebus, non c’è che dire, per tacere di quello che può contenere... Mi raccomando fammi sapere cosa troverete dentro quando disinnescate le trappole lo avranno aperto, okay? Ora però scusami, il dovere mi chiama, devo tornare alle mie fatiche...

    Aspetta di sentire questa, Nat, qui c’è qualcosa di grosso per te: non ti avrei scomodato né ti starei invitando a venire da queste parti solo per un mucchio di mine arrugginite e un bidone metallico scassato se non ci fosse qualcosa d’altro, ti pare? E qualcosa degno di un palato fino ed esigente come il tuo, appunto... Stavo giusto guardando qui a casa le foto del bunker scattate oggi dagli artificieri quando un particolare mi è saltato agli occhi, un segno mi è rimasto nella memoria, per un po’ ho continuato a rimuginare dove l’avessi visto in precedenza e perché mi risultasse addirittura familiare, poi ci ha pensato tua madre a schiarirmi le idee una volta per tutte: lo stemma, una spada e quella specie di asola mezza scolorita e scrostata sul portello corazzato del bunker ma ancora visibile nonostante il fango e le incrostazioni dopo cinquant’anni, è lo stesso simbolo stampato sulla copertina della tua tesi di dottorato che tengo sulla mia scrivania, è assolutamente uguale, è il segno di quella specie di organizzazione segreta di pazzi ricercatori dell’eredità ancestrale del popolo tedesco alla quale hai dedicato ben tre anni di studi, se ci penso ancora non so come hai fatto a...

    Non può essere! Stai scherzando, vero papà? Non dire altro, mandami subito quella foto via fax per favore! Subito!

    Calma figliolo, e comunque già fatto, già fatto, caro mio, ti ho appena inviato il particolare della foto. Sei piuttosto prevedibile per essere un trentenne, sai?

    Eh? Resta in linea mentre vado a vedere...

    Seguì un rumore concitato di passi affrettati. Poi improvvisamente un urlo selvaggio, delle risate isteriche, frasi sconnesse e un rumore di passi ancora più affrettati..."

    Papà, papà, aspettami che arrivo, parto subito!

    Eh, proprio prevedibile: il letto nella tua stanza è già pronto, prof. Ti aspettiamo per cena!

    II

    La runa e la spada

    La prima volta che Nathan ne aveva sentito parlare era stato all’università durante il corso del professor DeWirth, un’autorità indiscussa in materia e un inguaribile collezionista delle pubblicazioni della Ahnenerbe Stiftung Verlag.

    L’organizzazione pseudo scientifica Deutsches Ahnenerbe era stata costituita nel 1935 da Himmler in persona con l’obiettivo di ricostruire l’identità primitiva degli antenati nordici, di comprendere la vita degli antichi germani, di diffonderne la cultura, le credenze e i culti. Per fare questo, attraverso i suoi quasi cinquanta dipartimenti dedicati alle più disparate discipline (storia, religione, magia, etnologia, musica popolare ecc.), l’organizzazione Ahnenerbe andava ricercando e raccogliendo reperti non solo in patria ma anche nel resto del mondo: come Nathan poté minuziosamente documentare, la società organizzò, infatti, spedizioni nei luoghi più remoti, dove originavano miti e leggende, e quando le ricerche si rivelavano fruttuose riportava in Germania i risultati, spesso discutibili, dei ritrovamenti che venivano poi documentati e pubblicati in riviste come Germanien o in monografie dedicate.

    Il carattere pseudo scientifico delle ricerche, che in alcuni casi sconfinavano nell’esoterismo, nell’occultismo e nella magia, e la smaccata manipolazione filonazista della conoscenza che era sistematicamente invalsa nelle sue pubblicazioni, avevano attratto da subito Nathan per la facile leggibilità delle mistificazioni in esse contenute, che permettevano già a un semplice studente universitario come lui di cogliere nella rozzezza delle argomentazioni i segni inconfondibili della corruzione, le tracce di quel modo minore in cui l’homo sapiens, per fanatismo o per opportunismo, altera la verità a proprio piacimento, confondendo l’universale con il particulare. Era attratto in altre parole, dal contrasto tra il rigore scientifico del proprio personale libero metodo di ricerca storica e l’approccio smaccatamente ideologico, a tesi, che emergeva da molte pubblicazioni a senso unico di quegli studiosi sui generis, prestati al partito e alle aberrazioni visionarie del loro criminale SS-Reichsführer.

    Lo incuriosiva inoltre la contiguità di studi storico-scientifici con argomentazioni e tesi visionarie che storicizzavano miti, leggende ed eventi magici, importando nel mondo reale contemporaneo credenze pagane dissolte ormai da secoli sotto la schiacciante espansione della religione cristiana, piegate inesorabilmente sotto il peso della Croce di Cristo come l’Irminsul - il grande pilastro, la colonna portante dell’universo, la sacra quercia che per gli antichi sassoni univa il cielo e la terra - raffigurato nel bassorilievo del XVII secolo che aveva visto qualche anno prima durante un viaggio di studio al complesso megalitico di Externsteine.

    L’eccentricità kitsch delle teorie elaborate in quindici anni da quell’organizzazione prestigiosa, potente e segreta, vero think tank del nazismo, l’appartenenza dei suoi membri alla legione dannata delle SS, come pure le pratiche di occultismo e negromanzia esercitate attraverso rituali magici pagani in luoghi evocativi come Externsteine, ma anche con il ricorso a formule e strumenti della più recente - si fa per dire - tradizione alchemica, erano stati gli elementi portanti dell’opera che Nathan aveva sviluppato in tre anni di duro lavoro di ricerca con l’aiuto prezioso del professor DeWirth, e che aveva rappresentato la sua tesi di dottorato.

    A dire la verità, il suo entusiasmo e il valore scientifico dell’opera che ne costituiva il frutto, non erano del tutto compresi dai suoi genitori - nemo propheta in patria - i quali non condividevano affatto l’interesse centrale del loro unico figlio per quell’epoca tragica e violenta né soprattutto nutrivano alcuna curiosità per il mondo di quelli che ai loro occhi dopotutto restavano solo gli occupanti, i nazi, il male, banale e assoluto che aveva invaso e deturpato per alcuni anni il loro paese e l’Europa, privandoli della libertà e della vita di migliaia di loro concittadini.

    Il padre di Nathan, Jérôme Berthier, un vecchio magistrato ormai prossimo alla pensione, non poteva dimenticare la figura curva e dolente del proprio padre - ufficiale di carriera - di ritorno dalla guerra con indelebilmente dipinte in volto, per i pochi anni che gli restarono da vivere, l’amarezza della batosta militare subita a causa dei tedeschi nel ’40 e l’umiliazione della prigionia che ne era seguita. La famiglia si era ripresa non senza qualche difficoltà dalle ristrettezze della guerra, quel tanto che bastò comunque a consentire al giovane Jérôme di portare a termine gli studi, laurearsi in legge e intraprendere la carriera giudiziaria. In tanti anni da magistrato non gli erano certo mancati i riconoscimenti e le soddisfazioni, nonostante i grattacapi e le responsabilità che l’esercizio della giustizia comporta, specie quella penale. Il centro effettivo dei suoi interessi era stato però sempre rappresentato principalmente dalla vita familiare più che dalla carriera, e per quanto gli era stato possibile, Jérôme vi si era dedicato con trasporto profondendo le sue migliori energie per il bene e la felicità di sua moglie Florence, che adorava ricambiato da più di trent’anni, e di suo figlio Nathan i cui passi, per quasi altrettanto tempo, con immutata tenerezza aveva saputo guidare con mano ferma sulla via del dovere, della lealtà e della pietà filiale.

    Sua moglie Florence - figlia unica di un proprietario terriero da belle époque che incarnava il prototipo del gentleman farmer appassionato di cavalli, fucili e cani da caccia e con solide relazioni a Parigi - aveva conservato nelle sue abitudini e nella mentalità un atteggiamento vagamente aristocratico, che le derivava indubbiamente dagli anni felici dell’infanzia e della giovinezza trascorsi nella casa avita di campagna, ma anche dalla propria naturale inclinazione: ne risultava un misto fortemente contraddittorio di passione istintiva per le relazioni umane - che le permetteva di entrare subito con naturalezza in sintonia con persone di qualsiasi condizione e provenienza annullando le evidenti differenze e le meno evidenti diffidenze reciproche - e di altrettanto istintiva autorità, che la portava inevitabilmente a pensare e leggere le dinamiche sottostanti a ogni relazione umana in termini di immanente gerarchia sociale e culturale, nella quale ovviamente la vecchia borghesia terriera occupava ai suoi occhi un posto di indiscutibile prestigio e privilegio, non fosse altro per la spiccata sensibilità estetica in fatto di purosangue, levrieri afgani e fucili da caccia inglesi a canna sovrapposta.

    Nell’arco di trent’anni la vita familiare dei Berthier si era svolta nella loro bella casa di Yf in modo ordinato, con alti e bassi normali e senza eccessivi stravolgimenti, una vita intensamente vissuta insieme, priva di veri incidenti di percorso, almeno finché nell’autunno dell’anno precedente, Nathan, ormai economicamente - più o meno - autosufficiente, aveva deciso di lasciare definitivamente il nido per spiccare il volo e tentare di costruirsi da solo il proprio destino nel mondo.

    Ripensando a quel momento di liberazione, quella sera Nathan, nel tornare in fretta verso la casa dei suoi genitori a Yf dopo la sconvolgente rivelazione telefonica di suo padre, mentre in curva i fari della sua auto frugavano nel buio della campagna circostante, riandò con la mente alle conquiste seguite alla sua dichiarazione di indipendenza dell’anno precedente: il suo appartamento in affitto di Parigi, i mobili che aveva scelto uno a uno, i suoi primi improbabili esperimenti in cucina, la libertà di poter decidere ogni cosa da solo in assoluta autonomia, la soddisfazione di riuscire a bastare a se stesso ma anche l’inquietudine e la pena per l’assenza di una persona cara con la quale poter condividere le gioie e le difficoltà di tutti i giorni.

    Si riscosse dal ricordo di quelle sensazioni solo quando era ormai giunto in vista della casa: attraversato il cancello aperto sul giardino, ormai immerso nella penombra della sera, parcheggiò l’auto e con in mano la valigia improvvisata si avviò al portone e suonò il campanello di quella che era stata la sua abitazione per quasi trent’anni e che, per via dell’intensificarsi del suo lavoro, da quasi sei mesi non rivedeva.

    L’abbraccio forte e silenzioso dei suoi genitori fece vibrare una corda profonda in lui, qualcosa si sciolse: una lacrima sul volto pur sorridente della madre poi lo rapì definitivamente alle sue sicurezze, restarono così in silenzio emozionati a guardarsi sorridendo tutti e tre, ancora una volta, insieme.

    La cena si rivelò particolarmente ricca per i piatti delicati che sua madre nonostante lo scarso preavviso aveva voluto preparare per l’occasione, ma soprattutto per la conversazione che, nell’euforia indotta dallo Chablis, i tre intrecciarono ininterrottamente nell’arco di due ore alternando alle ultime notizie su parenti, amici e conoscenti, molti scherzi, qualche risata e alcune serie riflessioni personali sulle loro vite mentre su tutto aleggiava intensa e leggera la gioia di ritrovarsi di nuovo uniti.

    Mentre alla fine della cena si dirigevano verso il divano del soggiorno in attesa del caffè, Jérôme caracollando prese sottobraccio il figlio e con una bottiglia di Calvados nell’altra mano riprese bonariamente il discorso interrotto nel pomeriggio.

    Allora caro professore, veniamo al dunque: credi di poter impegnare un po’ del tuo tempo in una consulenza tecnica per la Procura della Repubblica riguardo a questa gran seccatura del bunker tedesco, diciamo a partire da domattina?

    Non chiedo di meglio, grazie, non vedo l’ora! Ma a che punto è il lavoro degli artificieri?

    Boh, ci vorrà un po’ di pazienza, stanno lavorando giorno e notte per mettere in sicurezza la zona, tieni conto che alcune strisce minate devono ancora essere bonificate. Per disinnescare poi la micidiale trappola esplosiva a orologeria del portello di accesso, arriverà domattina un super specialista da Parigi. Facciamo un patto tu e io: nessuna imprudenza, neanche la più piccola, devi promettermelo, se ti succedesse qualcosa non me lo perdonerei mai, figurati che inizialmente tua madre non voleva neppure che ti parlassi di questa storia, dice che ha un presentimento... Poi però ha ceduto, solo per poterti vedere dico io.

    Okay, ho capito, per un po’ potrò osservare il sito solo da un chilometro di distanza e con il binocolo. Spero solo che ne valga la pena, e che il tuo super specialista di Parigi sia veramente in gamba, non vorrei veder saltare tutto in aria per un’imprudenza: renditi conto del valore che può avere questo ritrovamento, è l’unico bunker esistente delle SS-Ahnenerbe e non sappiamo ancora cosa possa contenere, aggiunse rigirando tra le mani la foto del portello blindato con lo stemma scolorito ma inconfondibile: la runa e la spada.

    Va bene, ma tu vedi di non farti troppe illusioni, né quindi di correre rischi inutili: per quanto ne sappiamo ora potrebbe non contenere nulla di così importante. Comunque spero per te che ci sia almeno un reperto interessante, effettivamente a uno storico non capita tutti i giorni di imbattersi nell’oggetto dei propri studi... sottolineò le parole con un’espressione leggermente compiaciuta.

    Vero papà, specialmente se l’oggetto dei propri studi viene riesumato dopo essere stato sepolto sotto un metro di terra per oltre cinquant’anni.

    Brrr che razza di argomenti, disse Florence inorridita arrivando in quel momento e accomodandosi sul divano accanto a Nathan. Vedo che in mia assenza la conversazione è scaduta, siamo già in piena autopsia. Qui sicuramente c’è lo zampino di tuo padre: del cadavere di chi stavate dunque parlando?

    Veramente si parlava del bunker... notò Jérôme di rimando, schivando di misura l’attacco

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