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Diario di una Maîtresse
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Diario di una Maîtresse

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Diario di una maȋtresse è un viaggio attraverso la gioia, il dolore, il sorriso sofferto, l’urlo silenzioso di chi non ha più parole. E’ un viaggio arcano e misterioso nella Cosenza dei primi decenni del secondo dopoguerra e nella complessa realtà di Ferramonti, sconosciuta a molti, perché sul Campo di internamento di Tarsia per lungo tempo c’è stato un totale silenzio da parte della storiografia ufficiale e dell’opinione pubblica. L’autore, calabrese ben trapiantato nella società lombarda e molto sensibile ai temi di forte portata civile, partecipa intensamente alle vicende narrate, facendo emergere con un velo di nostalgia il suo amore per i luoghi che lo hanno visto nascere e compiere le prime importanti esperienze umane.
LanguageItaliano
Release dateDec 9, 2012
ISBN9788881019588
Diario di una Maîtresse

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    Diario di una Maîtresse - Sergio Barletta

    Sergio Barletta

    DIARIO DI UNA MAÎTRESSE

    (Per amore, solo per amore)

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione Ebook 2012

    ISBN: 978-88-8101-958-8

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mia moglie Stella,
    ai miei figli Carlo e Angelica Giulia

    Prefazione

    Diario di una maîtresse è un viaggio attraverso la gioia, il dolore, il sorriso sofferto, l’urlo silenzioso di chi non ha più parole.

    È un viaggio arcano e misterioso nella Cosenza dei primi decenni del secondo dopoguerra e nella complessa

    realtà di Ferramonti, sconosciuta a molti, perché sul Campo di internamento di Tarsia per lungo tempo c’è stato un totale silenzio da parte della storiografia ufficiale e dell’opinione pubblica.

    Sergio Barletta con questo lavoro, costruito con grande attenzione ai particolari e con la non comune capacità di amalgamare in una sapiente orditura i molteplici eventi narrati, affronta temi diversissimi fra loro. In particolare, la condizione giovanile in Calabria negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, gli stereotipi nei rapporti fra settentrionali e meridionali, la vita sociale e culturale di una città del Sud durante il ventennio fascista e nel secondo dopoguerra, le leggi razziali, il dramma di Ferramonti. Su questo tema il romanzo acquista una prospettiva inedita, perché la complessa realtà del Campo viene analizzata e rappresentata dal di dentro con una focalizzazione diversa, quella femminile, che riesce, quasi come una macchina da presa, a mostrare lati di umanità inattesi in una situazione di grande inumanità.

    Colpisce, in modo particolare, la forte personalità della Maîtresse, zia Genia, la singolare donna dai capelli rossi che, in condizioni drammatiche, riesce per amore a dare amore in modo straordinario in un luogo senza amore.

    L’autore, calabrese ben trapiantato nella società lombarda e molto sensibile ai temi di forte portata civile, partecipa intensamente alle vicende narrate, facendo emergere con un velo di nostalgia il suo amore per i luoghi che lo hanno visto nascere e compiere le prime importanti esperienze umane.

    Antonietta Cozza - Vittorio Rennis

    DIARIO DI UNA MAÎTRESSE

    (Per amore, solo per amore)

    Certo, non si trattava di cristalli prismatici. Erano soltanto i raggi lievi di una semplice lampada, che nel buio profondo della notte lasciavano intravedere a stento le fessure della vecchia finestra che si affacciava su Corso Telesio: il ridente corso che esibiva, di giorno, con malcelato ma sincero orgoglio, il più ampio ventaglio di attività commerciali, come si conviene a qualunque via principale di una signorile città del Sud.

    Tra la salita San Tommaso e la Piazzetta dell’Erba, pochi metri prima di un arco sostenuto dalle travi in legno dal quale s’imboccava uno dei vicoli del quartiere Santa Lucia, sorgeva da tempo immemorabile un palazzotto anticamente robusto e solenne al quale l’incuria e le intemperie avevano regalato una fisionomia rovinosa al punto che, di tanto in tanto, dalle facciate in pietra, si staccavano grossi massi assai pericolosi per chi si trovasse a passare da quelle parti.

    La porta del palazzotto era quasi sempre chiusa, ma sarebbe bastato poco per aprirla: il legno era tanto corroso da essere solo il ricordo di se stesso e il maschietto del cardine non serviva praticamente più a nulla.

    Da quella porta iniziava una lunga ed irta rampa di scale, poi, una volta giunti al primo pianerottolo, una seconda rampa si slanciava verso l’alto, più corta della prima e costantemente al buio, non vi era una fessura che permettesse alla luce di dare un’occhiata là dentro né di giorno né di notte. Rimaneva solo la memoria, lontanissima, di una stentata lampada che un tempo baluginava, anche se nessuno ricordava quando fosse stata accesa l’ultima volta a causa dell’atavico vezzo delle famiglie che vi abitavano di offuscare, con gelosie ed invidie reciproche, gli spazi comuni: così era da generazioni e così ancora le cose sarebbero andate per il tempo a venire.

    Superata la prima e la seconda rampa, le scale conducevano al primo piano e lì, sulla destra del pianerottolo, c’era una porta d’ingresso che immetteva alla prima delle abitazioni di quel vetusto edificio. Sulla porta era stata affissa una targhetta di cartone liso e muffito, su cui, con una calligrafia elementare, qualcuno aveva scritto Giuseppe Lucchetti. L’affittuario che si era intestato la targhetta era, però, al tempo della vicenda, rinchiuso nelle carceri di Colle Triglio, per aver commesso, insieme ad altri famigerati compagni, un furto in una gioielleria.

    Giuseppe, Peppino per gli amici, aveva una configurazione esile e la plebe del quartiere lo conosceva come un indomito e insaziabile innamorato dell’alcol: più volte era stato costretto ad arrendersi a inutili terapie anticirrotiche che non avevano potuto fermare il degrado epatico progressivo e fatale. Il portamento era quello d’una persona pacata e lo sguardo fisso aumentava la suggestione di seriosità; la sigaretta adagiata sul labbro inferiore, una vecchia giacca a quadri e un maglione malridotto completavano la sua fisionomia. Peppino, con compassata ostinazione, passava da un’osteria all’altra alternando le mani in una delle due tasche dei pantaloni che non avevano mai conosciuto una piega a spartire la fiancata destra da quella sinistra. Padre di tre figli, così li elencava: per primo Corrado, partito per decisione regale verso i freddi del Piemonte per svolgere coscienziosamente, per quanto poteva, il servizio militare, precisamente in quel di Casale Monferrato; Rosina, la seconda, aveva abbandonato la scuola in quarta elementare che si era rivelata meno ricca di attrattive dei mestieri di casa e degli orizzonti dei fotoromanzi, che sublimavano i suoi diciannove anni in fantasticherie più seducenti dell’aritmetica e della grammatica italiana; del terzo figlio diremo più avanti.

    Rosina, non avendo altra motivazione per scendere e salire quelle due uggiose rampe di scale se non quella di andare a racimolare la misera provvigione alimentare della famiglia, non faceva altro che consumarsi in interminabili pianti, profetizzando che non avrebbe mai potuto sposare nessuno, tanto meno qualcuno che almeno vagamente evocasse il più marginale degli eroi maschili dei suoi fotoromanzi. E in effetti nessun ragazzo del quartiere faceva il minimo sforzo nei suoi confronti.

    Caterina, la moglie di Peppino, già da molto tempo, a causa di continui litigi col marito sempre ubriaco, disertava il carcere coniugale per concedersi, così si diceva allora, alla bella vita, incurante non solo del destino dei due figli maggiori ma di quello del piccolo Tonino che, terminata la quinta elementare, era intenzionato a cercare dappertutto, tranne che sui banchi di scuola, la propria strada. Si era congedato dal bidello e dalla maestra all’età di quindici anni e, per guadagnarsi mille lire la settimana, si era adattato a fare da aiutante a mastro Giannino, il noto idraulico che imperava nella sua officina di Via Rivocati fra la stima generale e un dignitoso guadagno garantito dal privilegio di essere il principe dei tubisti, almeno a livello locale.

    Tonino, per raggiungere l’officina del padrone, usciva di primo mattino dall’appartamento del primo piano del palazzotto, ben sapendo che, alle sette in punto, ogni giorno, mastro Giannino lo voleva lì, a sua disposizione, come gli altri suoi lavoranti, pronto a soddisfare le più impensabili emergenze di un laboratorio come il suo, sistematicamente alle prese con l’imprevedibilità dei tubi e del capriccio idrico dell’intera città. Pur disprezzandolo, si era adattato a compiere quel lavoro per poter almeno soddisfare qualche suo piccolo vizio.

    Così, al mattino, usciva di casa lasciandosi alle spalle il disordine che Rosina avrebbe ricomposto fra un fotoromanzo e l’altro, ma anche il pettine ancora nuovo e la nostalgia per il letto su cui la notte precedente, prima di prendere sonno, si era girato e rigirato per tacitare il rimbombo ossessivo delle raccomandazioni sul dovere della puntualità di mastro Giannino.

    Con gli indumenti non aveva scelta: erano sempre quelli del giorno precedente, come la faccia che non sentiva il bisogno di sciacquare per non subire lo shock del risveglio. Il primo buongiorno lo dava a Franchino, il fruttivendolo della Piazzetta Dell’Erba, che il vicinato considerava persona più che generosa e dotata di rara sapienza: conosceva interamente l’alfabeto, poteva eseguire a mente la moltiplicazione del tre fino alla decima espansione, poteva enumerare gran parte delle regioni d’Italia citando anche le province, almeno in parte.

    Percorso Corso Telesio e attraversata Piazza dei Valdesi, Tonino superava il Ponte Mario Martire, per imboccare Via Rivocati e arrivare da mastro Giannino. Nel compiere il tragitto, il giovane era quasi sempre turbato e il peso della condanna gli faceva inchinare verso terra la testa, proprio come chi non desiderasse incontrare lo sguardo di anima viva per non dover smascherare il proprio tormento interiore. Era sempre afflitto da quel pensiero del padre in galera e delle scadenze trimestrali dell’affitto, che non sapeva come fronteggiare, con la figura minacciosa del padrone di casa che si stagliava nella sua mente minacciando di affidare all’avvocato la pratica che avrebbe condotto l’intera famiglia alla vergogna dello sfratto.

    A momenti pareva completamente disamorato della vita e svigorito, se non fosse stato per certi improvvisi incitamenti a sfidare la sorte che era capace di farsi venire nei momenti più impensati. Con il biondastro ciuffo dei capelli che gli ondeggiava sul naso, eclissando l’espressione opaca degli occhi, era giunto, in quel 23 aprile di un certo anno della sesta decade del secolo scorso, alla determinazione di chiedere a mastro Giannino un congruo anticipo sul mensile, così da poter dilazionare la scadenza dell’affitto.

    Da molti mesi inoltre di Peppino non si avevano più notizie e Tonino, per farsi un’idea della situazione del padre, pensava di presentarsi da Pasquale, una vecchia e poco raccomandabile conoscenza, che in passato, forse, era stato complice di Peppino negli illeciti affari e in ruberie di vario tipo.

    Per raggiungere la casa di Pasquale, bisognava risalire una lunga gradinata del quartiere Santa Lucia, per poi percorrere una serie di vicoletti che s’insinuavano nel dedalo delle vecchie costruzioni, in gran parte addossate le une alle altre, quasi a darsi vicendevole forza contro le ingiurie del tempo e la stanchezza dell’età. Si arrivava quindi alla Giostra Vecchia, uno spiazzo con qualche dignità architettonica, su un lato del quale sorgeva l’antica costruzione del Liceo Classico Bernardino Telesio.

    Congedato il Bernardino Telesio, di cui colpivano le imponenti colonne poste all’ingresso che l’assomigliavano ad un tempio greco, Tonino si immise con un senso di liberazione sulla Via Arco di Ciaccio, in cui subito il grande arco attirava lo sguardo di chi vi transitasse e sul quale gravavano alcune civili abitazioni.

    Oltrepassata questa grandiosa architettura, si arrivava al vecchio e malconcio stabile dove viveva Pasquale, fatto di un solo locale, dove cucinava, dormiva e si intratteneva con i rispettosi visitatori.

    Arco di Ciaccio

    Liceo Classico Bernardino Telesio

    A chi non conosceva di persona la desolante miseria di quel rifugio, Pasquale appariva come un benestante, si abbigliava con indumenti alla moda e costosi e possedeva, tra i pochi, una Giulia Alfa Romeo ultimo modello che era l’invidia della plebe e la prova del suo successo sociale conquistato per vie enigmatiche e un po’ oscure come l’androne che portava al suo domicilio.

    Quando riconobbe la fiammeggiante vettura, Tonino tirò un profondo respiro, dovette farsi un po’ di forza e prendere il coraggio a due mani per sostenere il confronto col proprietario di quella meraviglia. Con

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