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Trame del Fantastico
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Trame del Fantastico

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Trame d'ombra, specchi oscuri, intrecci misteriosi. La materia stessa del film, pellicola trasparente e diafana sulla quale si muovono figure d'ombra, induce a pensare che la vocazione privilegiata del cinema sia nel fantastico, come già riteneva Artaud. I fantasmi, silenziose o sonore apparizioni, ci vengono incontro dallo schermo, in bianco e nero o a colori, da Nosferatu a Shutter Island: materia dei corpi come materia di sogni, incubi e visioni, portatori di maschere, generatori privilegiati di archetipi. Metafisico. Fantastico. Film noir. Horror. Termini usuali, ma inadeguati, per certi film. In realtà qui non siamo tanto di fronte a un'inadeguatezza terminologica, che si tratterebbe di superare inventando un termine più adatto, quanto alla generale insufficienza che l'ottica dei "generi" (un'ottica di comodo) dimostra nei confronti di ogni film che investa universi di senso sufficientemente complessi, tali da mettere in gioco qualcosa che potremmo chiamare memoria filogenetica.
LanguageEnglish
Release dateNov 9, 2012
ISBN9788881018420
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    Trame del Fantastico - Alessandro Cappabianca

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    ALESSANDRO CAPPABIANCA

    TRAME DEL FANTASTICO

    Riflessi e sogni nel cinema

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione ebook 2012

    ISBN: 978-88-8101-842-0

    per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    I. LA MANO DEL DIAVOLO

    Distinta dalla fabula (ordo naturalis, resoconto degli avvenimenti riportati alla loro semplice successione cronologica), la trama, secondo le definizioni elaborate dai formalisti russi, appartiene a un ordine artificiale (ordo atificialis), secondo il quale l’artista plasma, rielabora, intreccia (e può farlo in tanti modi diversi) le componenti logiche e temporali della fabula. Trama dunque uguale intreccio – e questo ci conduce al versante della tessitura, per esempio all’intreccio dei fili in un tappeto (o anche alla tela del ragno); ma al posto di trama, possiamo anche parlare di intrigo, evocando l’area semantica della congiura, della macchinazione o del complotto (del resto, in inglese, plot significa trama, sia nel senso di intreccio che in quello di complotto).

    Nella tessitura si intrecciano parecchi fili, allo stesso modo in cui in un complotto entrano di solito parecchi soggetti (i soggetti che, appunto, tramano). Ciò che contribuisce a rendere la trama complicata e misteriosa, almeno finché non se ne sia afferrato il bandolo, è dunque la pluralità di elementi o di soggetti che vi intervengono – ma una trama può dirsi oscura, in senso proprio, solo quando non se ne danno spiegazioni, o spiegazioni parziali e insoddisfacenti.

    La spiegazione stessa, allora, rimane oscura – ossia, non spiega niente.

    L’oscurità della trama, insomma, non si produce quando la trama è complicata, confusa o comunque difficile da dipanare, ma quando l’oscurità investe lo stesso ordo naturalis. È la fabula stessa che non tanto si apre a una molteplicità di possibili spiegazioni, quanto si chiude a ciascuna di esse, rifiutando di essere spiegata; o almeno lasciando, dietro di sé, un residuo inesplicabile: quel residuo inesplicabile sul quale (secondo molti) ama giocare il genere fantastico.

    Sul diversamente spiegabile, che può alla fine rivelarsi inspiegabile, il fantastico ha sempre lavorato; è in effetti qualcosa che riguarda la fabula, ed è in grado di cambiarne il senso (anche in extremis), ma che non potrebbe verificarsi se non intervenissero certi effetti di trama. Questi, però, non hanno tanto carattere narrativo, quanto stilistico – e se continuiamo a usare la parola trama, a rischio di qualche equivoco, è perché in essa risuonano per noi, in modo sommesso ma ancora suggestivo, gli echi di significati quali trappola, ordito o intrigo. Trappola allestita ai danni (o a beneficio?) del lettore o dello spettatore, in modo talmente sottile da risultare inavvertibile: impalpabile velo d’ombra gettato sulle cose che, anche senza stravolgerne i lineamenti, consegna all’inquietudine il senso del loro esserci.

    Un velo d’ombra. Espressione metaforica, che ha tuttavia troppa attinenza con la materia stessa del film (pellicola trasparente e diafana, sulla quale si muovono figure d’ombra), per non indurci a pensare che la vocazione privilegiata del cinema sia nel fantastico, come già riteneva Artaud, e trovi il suo terreno d’elezione proprio nel periodo del muto e del bianco e nero.

    Nel silenzio, i fantasmi ci venivano incontro dallo schermo, e invano l’accompagnamento musicale dal vivo si sforzava di esorcizzarli. Era relativamente facile per un pianista (o più tardi, per un complesso orchestrale), seguire e accentuare il ritmo di una comica, convocare tutte le suggestioni di musiche esotiche davanti a un film d’avventure o affidarsi all’opzione sentimentale nel melodramma… Più difficile trovare qualcosa di adeguato a un film come Nosferatu, rispetto al quale gli stereotipi della classica musica misteriosa risultano subito inadeguati. Forse, per film del genere, la massima suggestione sarebbe data proprio dal silenzio (o da un silenzio rotto, di tanto in tanto, da qualche accordo dissonante, se è vero che la figura di Max Schreck è già, in se stessa, una dissonanza corporea).

    Ma più del silenzio, il fantastico filmico ha saputo trarre partito (forse lo ha sempre saputo senza saperlo) dal bianco e nero e, prima ancora, dai contrasti resi possibili dalla pellicola ortocromatica. Per quanto la pratica del viraggio, prima dell’effetto-notte, si sforzasse di supplire all’impossibilità di effettuare riprese notturne, il disuso in cui è successivamente caduta ci mette in grado di apprezzare oggi tutta l’ambiguità di quelle riprese che si riferiscono ad avvenimenti notturni, chiaramente girate in pieno giorno. Il risultato non è che la notte si rischiari, ma che sul giorno incomba un presagio di tenebra: velo d’ombra, notti bianche del fantastico.

    Da questo punto di vista, perfino il più casuale incidente tecnico può diventare significativo. È noto che alcune sequenze di Vampyr, girate da Louis Née, risultarono troppo oscure una volta sviluppate – ma il successivo intervento di Rudolph Maté come direttore della fotografia riuscì ad assicurare la coerenza figurativa del film, con l’omogeneizzazione delle nuove riprese alle vecchie, anche tramite la tecnica d’interposizione d’un sottile velo di garza davanti all’obbiettivo: velo di garza che potremmo considerare la materializzazione del velo d’ombra di cui qui si parla. Il risultato è che tutte le azioni di Vampyr sembrano svolgersi a un’ora incerta tra giorno e notte, che non è l’alba e non è la sera, ma somiglia, come è stato notato, a un perenne crepuscolo. In realtà, è un’ora al di fuori del quadrante di ogni orologio, proveniente da quel tempo metafisico che è il tempo proprio del fantastico o di certe sue forme.

    Il tempo metafisico, certo, non è quello degli orologi; ma sugli orologi, sulla loro inquietante, ossessiva onnipresenza, è basata la suggestione di tanti film (a cominciare da quelli di Fritz Lang). O di un capolavoro misconosciuto come Il tempo si è fermato di John Farrow, dove il Grande Orologio suggerisce la metafora d’un funesto Demiurgo, la cui azione può essere eventualmente contrastata solo da un’interruzione (provvisoria) del suo funzionamento[1].

    Esiste anche, peraltro, l’inquietudine indotta dai cambiamenti improvvisi e inesplicabili del tempo atmosferico, come avviene in quella sequenza di La notte del demonio di Jacques Tourneur, durante la quale il satanista Karswell decide di fornire allo scettico dottor Holden un piccolo saggio del suo potere sugli elementi, scatenando all’improvviso una vera e propria tempesta di vento nel parco della villa sulla quale, fino a un momento prima, brillava il sole d’una splendida giornata.

    Metafisico. Fantastico. Film noir. Horror. Termini inadeguati, per questi film. In realtà qui non siamo tanto di fronte a un’inadeguatezza terminologica, che si tratterebbe di superare inventando un termine più adatto, quanto alla generale insufficienza che l’ottica dei generi (un’ottica di comodo) dimostra nei confronti di ogni film che investa universi di senso sufficientemente complessi.

    Ma tant’è. Se Jacques Tourneur detestava che il suo cinema venisse catalogato sotto l’etichetta horror, forse fantastico è ancora il termine migliore per definirlo. Francesco Ballo ha intitolato La trilogia del fantastico il suo libro sul regista, incentrato sui tre film diretti alla RKO e prodotti da Val Lewton (Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombie, L’uomo leopardo)[2]. Peccato che la minuziosa trascrizione tecnica delle singole sequenze lasci poco spazio al vero e proprio approfondimento critico, che rimane quasi sempre sul piano implicito. Ballo valorizza comunque, giustamente, la nozione di controcampo nero (fotogramma vuoto e oscuro, in soggettiva) come cifra tipica dello stile di Tourneur (o almeno, della fase Lewton), mentre sottolinea le particolarità della sua tecnica di illuminare le scene (per cui sembra che oggetti, personaggi, animali – e creature mutanti – emergano, quasi galleggino, su un universo di tenebre).

    Dobbiamo notare, peraltro, come uno degli esempi più eclatanti di fotogramma nero, si trovi forse nella Settima vittima un film diretto da Mark Robson, sempre prodotto da Val Lewton. È la sequenza in cui la giovane Mary e un ambiguo detective penetrano di notte nel laboratorio di cosmetici dove sospettano sia tenuta prigioniera Jacqueline, la sorella di Mary. In fondo a un corridoio oscuro, una porta chiusa – sia pur riluttante, il detective si inoltra verso quell’angolo di tenebra, la cui minaccia si materializzerà solo indirettamente.

    Di recente è stato anche tradotto in italiano il libro di Jean-Louis Leutrat (Vie des fantômes. Le fantastique au cinéma) che risale al 1995[3].

    Questo testo ha inizio col resoconto di un’allucinazione: «Il giorno del funerale di Antonin Artaud, Alain Gheerbrand vide il conducente del carro funebre voltarsi verso di lui e guardarlo; riconobbe allora in lui lo stesso Artaud».

    Il morto conduce il proprio carro funebre, allo stesso modo in cui il non-morto Nosferatu (in uno dei film fantastici che Artaud doveva aver amato di più) sembra condurre la carrozza fantasma che va a prendere Jonathan Harker, appena passato quel ponte che segna non solo il limitare tra il regno dei vivi (dove i morti sono morti) e quello dei morti (dove i morti sono non-morti), ma anche il punto in cui il bianco e nero fotografico si rovescia in negativo, nel nero e bianco che costituisce la sua ombra segreta.

    Anche il dottor Holden (Dana Andrews) e Joanna Harrington (Peggy Cummings), in La notte del demonio di Jacques Tourneur, si fermano con la macchina su un ponte, prima di entrare nel parco della villa del mago satanista: è come un attimo di esitazione, prima di affrontare l’ignoto. Ma ad attenderli qui (almeno in apparenza) non c’è un universo tenebroso, tessuto d’ombre espressioniste: nel parco della villa il dottor Karswell, truccato da clown, intrattiene alcuni bambini (che hanno l’aria di divertirsi molto) con giochi di prestigio. La giornata è splendida, il cielo chiaro. La mamma di Karswell, una gentile vecchietta, offre gelati. Nulla lascia presagire la tempesta di vento che si scatenerà di lì a poco.

    Tuttavia, a inizio film, avevamo pur visto un uomo terrorizzato (il dottor Harrington, zio di Joanna) varcare in macchina, di notte, il cancello dello stesso parco. E poi avevamo visto lo stesso uomo inseguito da un demone mostruoso, che non aveva l’aria d’essere una semplice allucinazione.

    Jacques Tourneur dirige La notte del demonio nel ’57, ispirandosi a un racconto di Montague Rhodes James, Casting the Runes, sceneggiato da Charles Bennett, abituale collaboratore dello Hitchcock del periodo inglese. Disgraziatamente, alla sceneggiatura mette mano anche il produttore Hal Chester: costui pretende assolutamente che, in un film dove si parla del demonio, il demonio si veda – e vuole che si veda almeno due volte, all’inizio e alla fine. Così i tecnici degli effetti speciali debbono fornire, secondo un’iconografia stereotipata, una sorta di scimmione virato sul diabolico, con tanto di corna, accompagnato da sbuffi di fumo e rumori sinistri (invano il regista pensava di mimetizzarne l’apparizione, almeno alla fine, sotto forma dell’irrompere notturno d’un treno che investe e uccide il malvagio Karswell, condannandolo al giusto castigo).

    Nei piccoli, grandi film diretti negli anni ’40 per un produttore intelligente come Val Lewton, Jacques Tourneur aveva sempre puntato sull’implicito, sull’invisibile, sull’angoscia sottile celata nelle tenebre, dalle quali può sprigionarsi da un momento all’altro una minaccia segreta. È il buio, è il non-vedere, a interessare Tourneur come reminiscenza di spaventi infantili: gli angoli bui, i corridoi oscuri, luoghi di presenze misteriose, tanto più inquietanti quanto più ciò che vi si nasconde resta indeterminato.

    Imbattersi in Val Lewton, proprio a Hollywood, era stata una fortuna per Jacques, così come lo era stata per il Mark Robson della Settima vittima o per il Robert Wise del Giardino delle streghe[4]. Analogamente Maurice Tourneur, padre di Jacques, aveva potuto girare in Francia nel ’42 il film fantastico La mano del diavolo, con Pierre Fresnay, profittando della situazione anomala del cinema francese sotto l’occupazione tedesca, e a costo di passare quasi per collaborazionista.

    La mano del diavolo. Ma di chi è la mano grinzosa e adunca che a un certo punto appare nella Notte del demonio, sul mancorrente della scala di casa Karswell, come se qualcuno seguisse nell’ombra il protagonista John Holden (Dana Andrews) in missione di spionaggio nel covo dello stregone? Certo, non può essere che la mano di Karswell, nella fiction – ma non è la mano dell’attore che lo interpretava, Niall MacGinnis, per ammissione dello stesso Tourneur.

    Di chi era la mano, allora? Jacques non lo rivela. Dice solo[5] che aveva scelto la mano d’un uomo vecchissimo, prossimo a morire (Maurice aveva allora quasi 80 anni). Era forse la mano del diavolo (o del suo rappresentante) quella di Maurice Tourneur?

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