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Mafia e Cultura Mafiosa
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Mafia e Cultura Mafiosa

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Se fosse un fenomeno senza radici nel sociale, la mafia avrebbe i giorni contati: al pari delle Brigate rosse che, prive di legami col tessuto della società, furono isolate e vinte. I pesci hanno bisogno di acqua per nuotare, si disse allora a proposito dell’appoggio fornito da poche centinaia di fiancheggiatori ai gruppi di fuoco brigatisti. Ma un sistema di potere come quello mafioso – capace di conformarsi al mutare dei regimi e delle istituzioni; di entrare in simbiosi con lo sviluppo delle forze produttive; di imporre rapporti di produzione funzionali ai propri interessi; dotato di abilità mimetiche tali da indurre ancora oggi intellettuali e opinione pubblica a ignorarne la natura e a sottovalutarne la pericolosità o, appena ieri, a negarne l’esistenza – non si spiega se non collegandolo a radici culturali diffuse e profonde. Il mito della sua invincibilità, il suo imporsi all‘immaginario collettivo come idra dalle cento teste, piovra dai mille tentacoli, araba fenice sempre in grado di risorgere dalle ceneri per adattarsi in modo proteiforme alle mutazioni economiche e politiche, deriva dalla incomprensione della natura egemonica della cultura mafiosa: che rilascia, a mo’ di precipitato, la mafia come sistema di potere. Se quindi – lo sostiene Gramsci – è un complesso sistema di mediazioni e di rapporti a stabilire un‘egemonia, cioè una compiuta capacità direttiva; e per la mafia tale sistema si risolve, in Sicilia, nei legami organici con la politica, le istituzioni, la burocrazia, il mondo del lavoro – in sintesi: con la società civile – che si radicano in una osmosi culturale con l’ambiente pressoché perfetta, la fine del contropotere mafioso è destinata a coincidere con la fine di questa osmosi: quando sarà ridotto a delinquenza comune estranea al corpo sociale, e perciò suscettibile di essere emarginato e sconfitto mediante l’uso degli ordinari mezzi repressivi.
LanguageItaliano
Release dateOct 10, 2014
ISBN9788868222185
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    Mafia e Cultura Mafiosa - Alberto Rosati

    collana

    Mafie

    diretta da Antonio Nicaso

    19

    ALBERTO ROSATI

    MAFIA

    E CULTURA MAFIOSA

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    ISBN: 978-88-6822-218-5

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.com

    www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Sommario

    Nota bibliografica

    Parte primaUna società di mafia

    1. Una fatalità della storia?

    Appendice n. 1

    Mariano Rosati, Antonio Gramsci e la forza delle idee

    2. È un problema di cultura

    Appendice n. 2

    Il dibattito sul culturalismo

    3. Lo specchio della Verità

    Appendice n. 3

    Lukács, Vittorini e Lampedusa: la verità nell’arte

    4. Calati juncu

    5. Economia e cultura mafiosa

    6. Mafia, politica, burocrazia, società, storia

    7. Di chi è la colpa

    Appendice n. 4

    Ideologia sicilianista e sicilianismo

    8. Le due Italie?

    Parte secondaAnamnesi diagnosi prognosi

    9. Alle sorgenti della mafia

    Appendice n. 5

    Dal baronaggio alla borghesia mafiosa

    10. Nel regno della mafia

    11. Il ventennio mafista

    Appendice n. 6

    Il fascismo e gli agrari

    12. Una repubblica fondata sulla mafia

    Appendice n. 7

    Separatismo e autonomia

    13. Cultura e contropotere mafioso

    Appendice n. 8

    La specificità siciliana

    14. Per una teoria del cambiamento

    15. Gli intellettuali, il potere, la mafia

    16. Storia e prospettive dell’azione antimafia

    Appendice n. 9

    Lo stato di diritto

    Bibliografia

    Elenco dei nomi

    Nota bibliografica

    La bibliografia è distribuita così:

    - a) Opere letterarie, saggi, articoli in riviste e atti di convegni.

    - b) Articoli in quotidiani e settimanali, inchieste giornalistiche e altri media, fonti varie:

    b1) alfabetico per autore;

    b2) cronologico.

    - c) Atti parlamentari e giudiziari:

    c1) Relazioni delle Commissioni parlamentari antimafia;

    c2) Sentenze, memorie, dichiarazioni.

    Per i richiami bibliografici si è utilizzato il sistema autore-data con qualche modifica:

    – La principale: onde facilitare la consultazione, nel richiamo all’interno del testo è indicata, fra parentesi quadre, anche la sezione di riferimento in bibliografia: <[b)]> ovvero <[c1)]> o <[c2)]>. In mancanza, il rinvio è da intendersi alla sezione a).

    – Per inquadrarle cronologicamente, delle opere storiche si è ritenuto opportuno segnalare nel testo anche la data della prima edizione, <[anno1]>, anteponendola alla data dell’edizione alla quale si rinvia. Nel riscontro bibliografico è presente una variante dovuta al diverso ambito: <[…anno1…]>, ovvero <(…anno1…)>.

    – Tanto nel testo quanto in bibliografia, per talune delle suddette opere storiche la data riportata senza apice fra parentesi quadre indica quella di scrittura: <[anno]>; oppure talvolta <[…anno…]>.

    – Tra parentesi quadre anche le date dei convegni citati.

    – La data di edizione delle altre opere elencate in bibliografia è dettata dalla loro disponibilità nella biblioteca dell’autore o in biblioteche pubbliche.

    – Le note a piè pagina sono a integrazione e/o chiarimento di quel che è detto nel testo.

    – Il resto secondo le convenzioni d’uso (o almeno lo si spera, dato il loro carattere non sempre univoco).

    Parte prima

    Una società di mafia

    1. Una fatalità della storia?

    Se l’affermazione «la storia non si fa coi se» si riducesse a constatare l’impossibilità di modificare il passato, poco male: rimarrebbe confinata nel limbo delle banalità che caratterizzano il pensiero comune, incapaci di nuocere o di giovare. Purtroppo comporta invece, come corollario, uno dei più stantii e pericolosi pregiudizi di una storiografia filosofica che affonda le radici nel pensiero hegeliano e, attraverso Croce ([19081]1963a: 64), permea ancora settori della nostra cultura estranei all’Idealismo: il pregiudizio secondo il quale gli eventi storici non si discutono perché sono opera non dell’individuo ma del Tutto. «Sono […] l’opera di Dio, e Dio non si giudica [perché] ciò che è stato, doveva essere; e ciò che è veramente reale, è veramente razionale».

    È una dottrina che sottrae all’uomo la responsabilità dell’azione e ignora il senso del suo impegno nella ricerca storiografica. Noi viviamo infatti nel presente, ma guardiamo al futuro. Più che un dato, il presente è un intreccio di questioni da risolvere, di contraddizioni da conciliare: i dibattiti ideologici, la dialettica politica, i conflitti sociali, i nodi dello sviluppo economico scientifico tecnico, le esigenze di vita di benessere di felicità. Questi – e altri – i problemi che definiscono l’orizzonte storico in cui operiamo: ove si colloca il nostro essere nel presente e il nostro proiettarci nel futuro; e si spiega il nostro spingerci nel passato per interrogarlo e intenderlo. Perché il vivere e l’operare in un ora e in un qui non è privo di radici, ma si àncora in un complesso di scelte che contribuirono a rendere il presente qual è. Capirne le motivazioni significa comprendere le forze che hanno concorso a edificarlo con tutto il suo carico di bene e di male, e creare le premesse per decisioni più consapevoli e funzionali ai nostri progetti. Significa perciò giudicare il passato, le viltà e le generosità, i sacrifici e gli egoismi, le azioni e le omissioni, non per impartire assoluzioni o condanne ugualmente vane; né, ancora meno, per disfare ciò che neppure la forza di cento dèi potrebbe modificare: ma per assumere conoscenze più adeguate degli eventi che ci resero quali siamo, e che gravano sulle scelte da compiere col peso di quelle già compiute.

    Contro ogni tentativo di sottrarre all’individuo la responsabilità degli avvenimenti, sempre attuale risulta quindi il monito di Nietzsche (cfr. [18741] 1974): come essere che soffre, e ha bisogno di liberazione, l’uomo deve porsi di fronte alla storia da giudice restio alla grazia e all’imparzialità, pronto a combatterne gli aspetti che ostacolano il realizzarsi dei valori in cui crede.

    E non redimerà, in nome di una presunta Ragione insita negli eventi, la malvagità di ànito e la cecità dei giudici di Socrate, né assolverà le inadempienze le collusioni le complicità che hanno consegnato gran parte del Meridione alla mafia. Se contro l’aspirazione alla libertà alla giustizia alla pace – che pure è uno dei lieviti della storia – miseria ingiustizia violenza prevalgono, è anche perché questi mali non sono riconosciuti nella loro natura e nelle loro cause del tutto umane e individuali, e chiaramente condannati.

    È dunque l’uomo l’autore, e il protagonista, del dramma storico; e la fatalità che sembra dominare la storia è solo l’apparenza deviante del disinteresse, dell’assenteismo.

    Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela intessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra che sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno, o pochi, si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? (Gramsci [19171] 1958: 78-80)

    Bisogna che la catena sociale non pesi solo su pochi, e quel che succede non sembri dovuto al caso, alla fatalità, ma sia intelligente opera degli uomini. Ed è perciò necessario che spariscano gli indifferenti, gli scettici: coloro i quali usufruiscono del poco bene che l’attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere. Contro ogni forma di supina accettazione dell’esistente, lo sosteneva nel 1917 Antonio Gramsci (cfr. ibidem).

    Ma ben si addicono, le sue parole, all’inerzia dell’uomo d’oggi nei confronti di una realtà, la mafia, che nel nostro mondo erode inesorabile i presidî fondamentali della convivenza democratica. Se, come è probabile, la mafia è una forma di esercizio del potere che si basa sul consenso prodotto da una omogeneità culturale storicamente consolidatasi in Sicilia attorno a un complesso di valori antitetici a quelli dello stato di diritto, ogni progetto di riscatto dovrà coinvolgere – e anzi assumere a protagonista – l’uomo comune, l’uomo di ogni giorno, l’uomo che insieme agli altri uomini forma la società civile: concreatore, partecipe e vittima, ancorché inconsapevole, di un sistema di modi di sentire pensare e agire che sono l’humus donde trae alimento vitalità e forza la mafia come struttura di potere.

    Scopo di queste pagine è sottolineare con forza tale connessione, e individuare, se esistono, princìpi d’azione e strategie che possano sgretolare, e abbattere, la fortezza sinora monolitica della cultura mafiosa. Solo quando un certo universo di valori fondato sulla distorsione del senso dell’onore, sull’omertà, sulla violenza palese e occulta sarà sostituito dalle regole dello stato di diritto, solo allora avrà fine quel contropotere mafioso che ha escluso la Sicilia dal consorzio dei paesi civili, condannandola a livelli di degrado materiale e morale degni di un’appendice del terzo mondo. Purché – premessa, fondamento e cardine di ogni analisi che punti a un obiettivo del genere – si riconosca che, lungi dall’essere storia sacra in senso hegeliano,

    la storia accadimento è il grande dramma tra l’immensa forza naturale dell’arbitrio e la dura azione liberatrice del diritto. (M. Rosati 1953: 49); [e] la storia racconto, fatta per spiegare e interpretare non per giustificare, sarà, invertendo una nota e funesta massima, non giustificatrice ma giustiziera, e sempre giustiziera. (ivi: 47)

    Appendice n. 1

    Mariano Rosati, Antonio Gramsci e la forza delle idee

    Pensatore poco conosciuto al gran pubblico, Mariano Rosati (1894-1973) fu precursore dell’Esistenzialismo col suo Libro della Conoscenza ( Roma, 1919, Loescher-Chiantore).

    Strenuo avversario del fascismo, nell’aprile del 1925 fondò a Perugia la Rivista Romantica: un bimestrale di filosofia, letteratura e arte che fu di opposizione in filosofia all’Idealismo tedesco e italiano, in politica al fascismo e in letteratura al Neoclassicismo che già nel fascismo affiorava come retorica di tutto ciò che derivasse dalla romanità. Lo diresse fino all’ultimo numero dell’agosto 1926, quando fu soppresso dalla dittatura. Partigiano (A. Codignola, l’Italia e gli italiani d’oggi, Genova 1947, Il Nuovo Mondo), dopo la Liberazione, per i suoi trascorsi antifascisti il Comando alleato lo nominò sindaco di Lenola, suo paese natale.

    Al termine della guerra diede alle stampe tre saggi: Parole franche alla Filosofia (completato sul finire degli anni Trenta, non pubblicato a causa delle avverse condizioni politiche e riscritto nel dopoguerra perché l’unica copia manoscritta, custodita presso Guanda, editore in Parma, era stata smarrita in seguito agli eventi bellici), s.d. [1948]; La Storia, 1953; Linee per una storia del secolo XIX e della prima metà del XX (Come cadde il regime liberale e sorse il fascismo), 1958: tutti per i tipi dell’editore Guida (Napoli). In essi riprendeva, ribadiva e ampliava le sue analisi sugli eventi e i processi che favorirono l’ascesa del fascismo. E, insistendo sul ruolo dell’ideologia nell’orientare lo sviluppo della realtà, richiamava un criterio ermeneutico fondamentale, pur se le tesi elaborate in nome di una male intesa ortodossia marxista preferiranno per lungo tempo sottovalutarlo: nello stesso periodo in cui Gramsci, confrontando gli strumenti teorici offerti dal marxismo con la realtà italiana degli anni Venti, scopriva l’importanza delle sovrastrutture ideologiche nella formazione della coscienza rivoluzionaria e le innalzava alla dignità di elementi strutturali, il Rosati, ponendo l’accento sul verso della medaglia, sottolineava le responsabilità del Neoclassicismo e del Neoidealismo, punte avanzate del panorama culturale italiano del primo Novecento, nel promuovere e legittimare le scelte pratiche e politiche che avrebbero condotto alla dittatura, e poi al disastro della guerra a fianco del nazismo. Questo è oggi più chiaro in seguito al fiorire di studi sull’influsso che le correnti letterarie e filosofiche dei primi decenni del secolo scorso ebbero nel creare la temperie che preparò il sorgere e l’affermarsi del fascismo.

    Né Gramsci né Rosati si occuparono in modo specifico di mafia, ma le loro idee sul ruolo dei fattori culturali nell’orientare gli sviluppi della società hanno influito su quest’opera.

    2. È un problema di cultura

    «Ma chi mafiari e mafiari! Unn’è ca mafiava!»

    Sono due delle frasi pronunziate da Michele Greco, il papa di cosa nostra, nella fugace intervista televisiva strappatagli dopo il rilascio per decorrenza di termini disposto dall’ineffabile giudice Carnevale. Non immaginava, il tapino, che di lì a poco un altro giudice, Falcone, lo avrebbe ricacciato in gattabuia. Poco male però, se ci stacchiamo dal contingente e ci eleviamo all’eterno; perché Michele Greco era già passato agli annali delle patrie lettere per la coniazione di quello splendido neologismo – mafiare – che lo colloca a buon diritto fra i creatori di nomi di cui parla Platone nel Cratilo: gli eletti che possono dare i nomi alle cose perché ne colgono l’archetipo, l’essenza, l’Idea. E, in tema di mafia, chi meglio di lui poteva farlo?

    Eppure – non sembri un paradosso – è da credere che il signor Greco fosse in perfetta buona fede quando, tra l’infastidito e il perplesso, respingeva le insinuanti insistenze dell’intervistatore protestando: «Io non mafio, l’agricoltore faccio!»

    Sì, quando ordina di ricattare estorcere taglieggiare uccidere, il signor Greco fa l’agricoltore: intriso com’è di cultura mafiosa, non percepisce in alcun modo tali comportamenti come disvalori, mafiosi nel senso negativo che la coscienza comune attribuisce ormai a questo termine; ma del tutto normali e naturali, normalmente e naturalmente connessi all’attività che svolge. Non era mai apparsa con tanta cristallina chiarezza l’alterità del sistema di valori nei quali ogni società civile tende a riconoscersi rispetto a questa legge ancestrale della giungla che chiama giustizia l’assassinio e onore il tradimento; di cui la condotta del signor Greco è solo un esempio; che informa, con gradazioni diverse a ogni livello, i modi di pensare sentire e agire del popolo siciliano.

    Proprio in Sicilia, a Raffadali, grosso centro dell’entroterra agrigentino, c’era un prete, padre Cufaro, che della mafia aveva capito molto, se non tutto (cfr. Bolzoni 1988: 6 [b)]):

    Questo una volta era un paese ad alta densità mafiosa, quando c’era la mafia della terra: uccisioni, furti di bestiame. Ora, da qualche anno, non ci sono più omicidî. Continua, però, l’usanza del pizzo, il pagamento delle tangenti, soprattutto tra i commercianti, anche se tutti stanno zitti. Ma qui, e non solo qui, c’è una mafia strisciante. La mentalità è mafiosa in ogni campo. […] Mafia non è solo mafia di delitti. Mafia è il costume diffuso che fa cercare il proprio interesse contro la legge, ma servendosi degli uomini della legge. La mafia è dentro: dentro l’animo, dentro i rapporti con gli altri, dentro le amministrazioni. Per qualunque cosa, per un posto di lavoro, per una pensione, per una attività commerciale, funzionano i complimenti. I complimenti sono d’obbligo. Sa che cosa sono i complimenti? Sono i regali. Si porta un capretto, vino o molto di più se si chiede qualcosa che è molto di più. A quali personaggi devono andare i complimenti noi preti non lo sappiamo, ma la gente lo sa: un avvocato, un sindaco, un onorevole, un assessore, un semplice impiegato, un usciere… La gente sa sempre da chi deve andare. La gente sa sempre tutto. Quando avviene un omicidio, la gente sa chi è stato ad ammazzare. Sapeva chi doveva morire. Sa chi dovrà morire: fra un anno ammazzeranno quest’altro. Ma alla giustizia non dice niente. (Riportato in Del Rio 1990: 7 [b)])

    Come niente dice alla giustizia l’imprenditore di Alcamo sulla vicenda della nipotina di pochi mesi, rapita e rilasciata dopo alcune ore; e compie invece atto di contrizione in diretta televisiva chiedendo scusa, per chissà quale sgarro, al potere che sente più vero, e quindi più pericoloso e invasivo perché omogeneo alla propria cultura (cfr. Gullo 2001: 3 [b)]).

    Certo, arbitrio corruzione violenza omertà delitto sono sempre esistiti, e continuano a esistere, anche altrove fuori dalla Sicilia; ma non in maniera così generalizzata e diffusa;

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