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Francesco Borromini. L'architetto occulto del barocco
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Francesco Borromini. L'architetto occulto del barocco

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Francesco Borromini è uno dei sommi artisti che hanno lasciato un segno inconfondibile nel volto architettonico di Roma. Leros Pittoni ricostruisce puntualmente le tappe della carriera artistica di questo geniale esponente del barocco nella capitale - una carriera punteggiata dalla costante rivalità con Bernini - e illustra le splendide opere da lui realizzate. Dalla superba facciata per la chiesa di Sant'Agnese in piazza Navona all'Oratorio dei Filippini, dalla chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Palazzo Spada, dai luminosi interni della basilica di San Giovanni in Laterano al Palazzo di Propaganda Fide, dal campanile di Sant'Andrea delle Fratte alla chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, vengono descritti e commentati tutti i capolavori borrominiani. Pittoni riesamina così l'attività del grande artista per Roma, mettendo anche in luce i profondi significati simbolici ed esoterici presenti nelle sue opere. E riesamina anche i referti medici originali della sua morte. Fu davvero un suicidio?
LanguageItaliano
Release dateMar 13, 2013
ISBN9788868220211
Francesco Borromini. L'architetto occulto del barocco

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    Francesco Borromini. L'architetto occulto del barocco - Leros Pittoni

    Paesi.

    Prefazione - Un caso stravagante e lacrimevole…

    … così il diarista Cartari Febei descrive la fine di Francesco Borromini che caduto da alcuni giorni in pieno umore hipocondriaco, con una spada col pomo in terra e la punta verso il proprio corpo si ammazzò.

    E, nella sua biografia del Bernini, il Baldinucci riportava: Di questo tale architetto parlando il Borromini con un gran Prelato, il quale gli diceva di non poter soffrire quegli per troppa voglia di uscire di regola, di buon disegnatore e modellatore che egli era, avesse sbalestrato tanto nelle opere sue, che paresse, che alcune di esse tirassero in maniera gotica, anziché al buon moderno e antico: disse, Signore dice ella molto bene, ed io stimo che, meno male sia essere un cattivo Cattolico, che un buon Eretico.

    Certamente – ed è significativamente documentato dalla crestomazia critica che arricchisce questo ultimo lavoro di Leros Pittoni – l’atteggiamento dei contemporanei fu largamente ostile al Borromini ed i pregiudizi e l’inclinazione sfavorevole della critica nei suoi confronti mai si stemperarono sin quasi agli inizi del secolo scorso.

    Una ostilità, una visione riduttiva dell’opera e della personalità del grande Architetto che hanno a lungo oscurata la ricchezza e la complessità dei suoi rapporti con la cultura classica e con lo spirito ed i fermenti del suo tempo ed hanno finito con l’accreditare una riduzione a meri aspetti biografici e caratteriali dei travagli di una personalità complessa ed inquieta, così da renderne quasi un corollario l’epilogo del suicidio.

    Ed invece credo si possa legittimamente affermare che Borromini sia stato uno dei protagonisti più grandi ed emblematici di quel secolo straordinario che fu il ’600 e dell’essenza più affascinante e profonda dell’arte barocca.

    Un secolo – anch’esso forse a lungo misconosciuto – intessuto, com’è stato acutamente scritto, di grandi contraddizioni e di straordinarie pulsioni: di disordini e di instabilità, di guerre e di rivoluzioni, di assolutismo e di eversione, di stagnazione economica e di straordinario sviluppo commerciale, di classicismo e di barocco, di razionalità e di spaesamento.

    Un secolo attraversato dall’inquietudine, dalla continua ricerca del nuovo, da un’ansia di conoscenza generatrice di un enorme progresso del sapere il quale – paradossalmente – finirà poi per produrre esso stesso la crisi del sapere.

    Osserva acutamente Eco nella sua Storia della Bellezza che il passaggio dal Manierismo al Barocco non è tanto un mutamento di scuola, quanto l’espressione di una drammatizzazione della vita conseguente alla ferita narcisistica inferta all’ego umanistico dalla rivoluzione copernicana e dagli sviluppi successivi delle scienze fisiche ed astronomiche.

    Una drammatizzazione della vita strettamente connessa alla ricerca di nuove espressioni della Bellezza: lo stupefacente, il sorprendente l’apparentemente sproporzionato (l’esempio è – ovviamente – il Borromini!)

    E soggiunge che, nel secolo barocco, un reticolo di relazioni e di forme, da crearsi e ricrearsi ogni volta, prende il posto dei modelli naturali vincolanti e oggettivi. Di modo da esprimere una Bellezza per così dire al di là del bene e del male che può mostrare il bello attraverso il brutto, il verso attraverso il falso, la vita attraverso la morte: un tema, questo della morte – egli evidenzia, e ritengo vada ai nostri fini sottolineato – ossessivamente presente nella mente barocca.

    Di queste cose: dei bagliori e delle penombre – che appassionano entrambi – del ’600; della straordinaria ed affascinante modernità e della ricchezza e complessità dell’opera e dell’esperienzia culturale ed artistica del Borromini: della capacità che egli ebbe di rappresentare come pochi altri il suo secolo ed, infine … dello stravagante e lacrimevole caso della sua morte, abbiamo in più occasioni ragionato con l’amico Pittoni durante la stesura di questo libro.

    E, quanto alla morte del Borromini, in particolare – eravamo una sera a Castiglione della Pescaia, dove l’avevo conosciuto più di dieci anni fa, quando ero prefetto di Grosseto – si conveniva di come, alla luce di un tale contesto, potesse risultare semplicistico (e coerente, tuttavia, con uno stereotipo ormai logoro) accettare, così come ci è stata tramandata, la versione del suicidio.

    Anche se essa ci proviene dal racconto reso dallo stesso Borromini morente al medico Sebastiano Molinari: ma come evidenzia la relazione di uno psicoanalista interpellato sul tema dall’Autore, si tratta di testo risultante da una doppia trasposizione!

    E difatti, il Pittoni, a fronte dell’ormai consolidata rappresentazione di un Borromini che, illividito dall’invidia per il successo del rivale Bernini, depresso per l’inaridimento delle commesse, ridotto ormai quasi all’inedia e, di suo cupo, introverso e misantropo, vagheggiava, in adesione all’ideale stoico e ad imitazione di Catone, il suicidio, sottopone nel suo scritto all’analisi di illustri referenti scientifici sia i profili psicologici sia quelli medico-legali attinenti i momenti precedenti e successivi al ferimento. Ne scaturisce la possibilità di accreditare la tesi del suicidio, ma anche l’evidenza di una serie di rilevanti (e forse inoppugnabili) anomalie concernenti la modalità e la variazione del trapassamento con la spada.

    Vengono ipotizzate, d’altra parte dinamiche diverse degli avvenimenti e dei possibili ruoli dei personaggi implicati (il nipote Bernardo ed il capomastro Massari, in specie) e prefigurati scenari anche inquietanti.

    Sul tema, non mancano i contributi: il giornalista Pansa (citato dall’Autore), sul Corriere della Sera, adombra un possibile suicidio agevolato; Paolo Portoghesi, sull’Osservatore Romano del 6.12.2009, declina una serie di dubbi (in parte coincidenti con quelli espressi dal Pittoni); Martin Raspe, in un cospicuo lavoro dal titolo The final problem. Borromini’s failed publicationi project and his suicide pubblicato nel 2001 sugli Annali di Architettura nel porre l’accento sulla distruzione dei disegni che Borromini fece poco prima della morte (egli avrebbe voluto trasmettere i suoi disegni ai posteri, condensandoli in una serie di incisioni pubblicabili e vi avrebbe lavorato per oltre dieci anni), evidenzia, sotto altro profilo, discrepanze e contrasti fra la versione del nipote Bernardo e quello del capomastro Massari (quest’ultimo accusato dal primo di aver somministrato pozioni al Borromini per farli voltare il cervello). Ed essendo questi ultimi, entrambi, sia pure in misura diversa, eredi, ne ipotizza un possibile concorso, inteso a suscitare e favorire il suicidio.

    Emerge però, a mio avviso, un altro profilo rilevante.

    Lo stesso Borromini, dopo il (l’auto?) ferimento, riferisce che giorni avanti si era recato a pigliare il Giubileo; nel rapporto del Procuratore del Tribunale del Governatore risulta che egli, nelle ore precedenti la morte, si sia confessato ed il nipote Bernardo, a conferma e riferisce lo consolò più volte il Padre Orazio Callera, suo parrocchiano e Confessore.

    Ma possibile che nel minuzioso racconto che gli viene attribuito il Borromini – certamente fermo nella fede semplice delle origini, ancorché nutrito di raffinata cultura – non stigmatizzasse il gesto compiuto (a dire il vero, egli dichiara semplicemente che aveva incominciato a pensare come potevo fare a farmi alla mia persona qualche male) e non manifestasse per l’accaduto accorato pentimento?

    Ecco, io credo che tra i tanti meriti del volume di Pittoni – non sta a me soffermarmi sul pregio di una analisi dell’opera borrominiana che, organicamente, pone a filo conduttore la valenza dei simboli onde rendere visibile la fede attraverso l’architettura – vi sia anche quello di aver contribuito a venare di dubbi, con argomentata ricostruzione, gli ultimi momenti di vita del grande Architetto ticinese. Senza poter giungere, ovviamente, a conclusioni definitive, ma facendo giustizia di stereotipi e semplificazioni che, per troppo tempo, hanno non poco concorso – lo ripeto – ad accreditare del Borromini un’immagine forse distorta, sicuramente impoverita.

    A ristoro della quale il Nostro potrebbe consolarsi (lui l’amante di Seneca e che, come ricorda l’Autore, richiesto di mandare i propri disegni a Louvre, respinse l’invito proclamando che i disegni erano suoi propri figliuoli e non voleva che andassero mendicando lode per il mondo) con le parole che si leggono nel libro IV dei Pensieri di Marco Aurelio (20):

    Παν τό кάι όπωδούν кαλόν εζ έαυτоύ кαλόν έστι кάι έψ έαυτό кαταλήγει, оύк έχον μέρος έαυτού τόν έπαινου …

    Tutto ciò che in qualche modo è bello è bello per se stesso e completo in sé, indipendente dalla lode che se ne può fare!

    Giuseppe Amoroso

    Prefetto

    Capo Dipartimento per le Politiche

    del Personale dell’Amministrazione Civile

    e per le Risorse strumentali e finanziarie

    Ministero dell’Interno - Roma

    Prefazione - Enigma e teorema nell’architettura borrominiana

    Questo libro di Leros Pittoni affronta da varie angolazioni il difficile problema della spiritualità, espressa costantemente per simboli, che promana dall’architettura di Francesco Borromini. L’autore ripercorre l’intero arco di vita del grande di Bissone, dall’esordio romano al servizio del duro Maderno, ai rapporti più che difficili con il brillante ed esuberante Gian Lorenzo Bernini, da cui lo separava il suo esistenzialismo al limite dell’ascesi, fino al tragico epilogo del suicidio il 2 agosto 1667.

    Pittoni ha già trattato di Borromini un recente volume dedicato agli artisti ticinesi a Roma nel XVI-XVII secolo. Ma in quella sede, Borromini, per così dire, fluttuava fra tante personalità di scultori, architetti, scalpellini, e non si costituiva come figura dominante dell’idea di spiritualità nell’architettura secentesca. Questo aspetto è invece delineato in questo libro, in cui l’autore rende omaggio alla personalità più innovatrice del Seicento, ricordando, di Borromini, sulla base di una intuizione di Paolo Portoghesi, il coraggio di consumare dall’interno la tradizione classica, per approdare ad esiti affatto originali e, soprattutto, stupefacenti.

    Pittoni riprende in esame le opere borrominiane, delineando attraverso una serrata analisi la personalità del grande Ticinese, che si erge titanica e drammaticamente isolata nel secolo dello splendore barocco. Il severo classicista Bellori lo liquidò ingenerosamente come ignorantissimo e corruttore dell’architettura, infamia del nestro secolo! Per altro verso, l’attenzione di Pittoni non si limita ad un rendiconto degli elementi del codice borrominiano; egli infatti è attratto prevalentemente dalle numerose decorazioni di derivazione alchemico gnostica che caratterizzano questa architettura, letta alla luce di quella suggestiva costruzione iconologica densa di soggetti biblici e mitologici, di cui si ha diffuso riscontro esplicativo nell’Iconologia di Cesare Ripa; il testo, come ricordava Emile Mâle, con il qule si possono decifrare le numerose allegorie che decorano palazzi e chiese romani.

    L’analisi dell’opera borrominiana in chiave allegorica dispone dunque Pittoni in quel filone intellettuale che ha rilevato l’incontro, nella cultura secentesca, di Ovidio e Virgilio con la predicazione degli Apostoli, e che ha fatto brillantemente rilevare a Mario Praz. "[…] la favola di Amore Psiche, non meno del Cantico dei Cantici, si ipostalizzò in allegoria cristiana, gli amorini ellenistici e ovidiani delle pitture parietali romane divenuti emblematici negli Amorum Emblemata (1608) di Ottone Venio, diventarono protagonisti del dialogo tra l’Anima e Dio negli Amoris Divini Emblemata (1615) dello stesso autore […]. Così accanto ai santi e agli dei figurarono un collegio di Virtù e un anticollegio di Vizi, e alle Muse si affiancarono le immagini delle Arti come può vedersi nella Cappella degli Scrovegni e nel Cappellone degli Spagnoli".

    Un filone di cultura iconologica rigoglioso quello del Ripa, che continuò a fiorire ancora nel Settecento con i francesi Boudard, Gravelot e Cochin, con il tedesco J.G. Hertel, che vedrò sempre nel Settecento sorgere l’allegoria Aurora di James Thomson dominata dal Sole sul cocchio d’oro attorniato dalle Ore danzanti, suggestiva evocazione letteraria dell’Aurora reniana nel Casino Pallavicini.

    La complessità della simbologia borrominiana è illustrata anche da Pittoni per vie parallele; da una parte l’Antico Testamento e i Padri della Chiesa, dall’altra la Corporazione dei Muratori, cui apparteneva Borromini.

    Così,

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