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L'Urlo di Gaber psicologia di un artista
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L'Urlo di Gaber psicologia di un artista

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L’angolo prospettico dal quale l’autore ha voluto osservare Gaber è quello ormai ampiamente utilizzato e sperimentato in psicologia: conoscere gli aspetti psicologici di un autore attraverso le sue opere, in quanto, in ogni opera prodotta, l’uomo, inevitabilmente, è portato a proiettare in essa parti di sé.

In questo lavoro, che si legge in modo scorrevole e piacevole, in quanto il tecnicismo lessicale è poco presente, l’autore ha voluto analizzare e mettere in evidenza anche le assonanze e le disarmonie tra l’opera gaberiana e altri universi del sapere e delle arti.
Cosicché risulta interessante scoprire altri autori delle diverse arti espressive messi a confronto con Gaber. Una sorta di “gioco” psicologico, dal quale emergono contenuti più o meno coscienti e vissuti inconsci.

L’autore, senza tralasciare gli uni o gli altri, senza far prevalere l’interesse su una delle due condizioni psicologiche, posa la sua attenzione sui testi gaberiani con l’intento di analizzare aspetti riguardanti Gaber e i contenuti concettuali proposti nelle sue rappresentazioni teatrali.
LanguageItaliano
Release dateMar 8, 2013
ISBN9788868220181
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    Book preview

    L'Urlo di Gaber psicologia di un artista - Amedeo Pingitore

    dell’uomo"

    PRESENTAZIONE

    L’autore di questa pubblicazione è un mio caro amico, un collega con il quale ho condiviso gli anni di studio nella facoltà di PsicoAlogia, all’Università La Sapienza di Roma.

    Lo preciso da subito per mettere in chiaro che la mia non sarà una presentazione oggettiva (se mai sia possibile farne!), bensì influenzata dal fatto che ho seguito a distanza il progetto nella mente di Amedeo, del quale cominciò a mettermene a parte circa due anni orsono.

    La curiosità fu il sentimento che avvertii quando l’amico cosentino mi parlò del suo desiderio di provare a rileggere l’opera di Gaber, tentando di metterla sotto la lente interpretativa della psicologia e connettendola con una serie di artisti, pervasi dalla medesima energia creatrice del cantautore milanese.

    L’interesse per il lavoro che stava sviluppando mi fece immediatamente aderire alla richiesta di scriverne la presentazione, per l’onore che mi faceva e per la possibilità di leggere il manoscritto, senza aspettarne l’uscita ufficiale.

    La lettura del testo, molto fluente, fa da subito entrare in confidenza con un personaggio che, altrimenti, si è sempre posto come scarsamente orientato ad accattivarsi le altrui simpatie.

    Questa intimità è da collegare all’affetto dell’autore per il suo mentore e mi sembra interpretabile nella descrizione che viene fatta del protagonista, spesso declinata col tempo presente, ad esempio in – Gaber riesce a sollecitare – come se lo avvertisse ancora esistente, ovvero vivo nella sua mente.

    Grazie alle sue competenze psicoterapeutiche, l’autore prova ad evidenziare quando la creatività può diventare energia trasformativa delle nevrosi che abitano in ognuno di noi, rispetto a quando, se non avviene un’integrazione tra le componenti razionali e quelle affettive, può ritorcersi contro l’artista, condannandolo all’auto distruzione, come è ben delineato nel caso di Pasolini.

    Utilizzando quella conoscenza privata che ho di Amedeo, mi risulta evidente quanto, peraltro dallo stesso autore già riconosciuto nel suo testo, ci sia di personale nell’analisi degli artisti che passa in rassegna

    Al riguardo un aspetto che mi ha profondamente colpito nella lettura di questo lavoro sono i tanti – senza ombra di dubbio – rafforzativo che l’autore usa più volte, che, mi sembra, possano essere in relazione alle angosce che la sua analisi de il signor G e degli altri autori, che affronta con questo testo, gli sollevano interiormente, tanto da cercare rassicurazioni nell’«assenza di dubbi».

    Quando Pingitore parla del perturbante, riferendosi a S. Freud, riconnettendolo allo specifico significato di tutto ciò che destabilizza, perché apparentemente è sconosciuto, suscitando angoscia e inquietudine, mi sembra che denunci lo specifico motivo che lo ha costretto a scrivere questo lavoro.

    Ci perturba, infatti, non qualcosa che ci è estraneo, che al massimo può impaurirci, ma qualcosa che, in realtà, corrisponde al ritorno del rimosso, ovvero qualcosa che un tempo conoscemmo, ci angosciò e da esso ci difendemmo negandolo, salvo poi verificare il fallimento di questa fantasia controllante, il momento in cui si ripresentifica nella nostra mente, in contrasto con la nostra volontà.

    Mi sembra che tentare l’analisi di Gaber, anche fisicamente somigliante con lo scrittore del testo, rappresenti per quest’ultimo un modo per avvicinarsi al proprio sè con un medium d’eccezione, l’artista idealizzato.

    Grazie a questo lavoro si può permettere la sublimazione, ovvero la trasformazione di quelle parti primitive, altrimenti distruttive, verso una elevazione ed una valorizzazione personale.

    In questo modo Amedeo stabilisce una sorta di equazione con un modello straordinario, che lo facilità nell’accettazione dei suoi personali lati ombra, dandone fervido esempio a noi lettori.

    Ad esempio nei versi – Con tutta la rabbia, con tutto l’amore – come canta Gaber in Il signor G dalla parte di chi, dove la rabbia e l’amore rappresentano i due sentimenti, antagonisti per eccellenza, in perenne tensione alla ricerca di un’integrazione, che, immagino, evidenzi la ricerca di Amedeo attraverso questo lavoro.

    A questo punto appare più chiaro il senso del titolo del testo. L’urlo diventa lo strumento per l’espressione dell’autenticità personale ed il desiderio di comunicarla all’altro, considerando la distanza che ci separa da loro.

    L’Altro che possiamo effettivamente conoscere solamente se ne accettiamo l’estraneità, piuttosto che familiarizzarlo e quindi non conoscere le sue qualità, ma attribuirgli i propri pre-giudizi: un giudizio che noi emettiamo sull’altro per non implicarci affettivamente con qualcosa di sconosciuto, di ignoto, che solleva le nostre ansie.

    Rimanere dentro di noi, nel conosciuto o nel senso comune, piuttosto che spingerci nell’altro/ignoto è invece rassicurante... ma ci priva del piacere di conoscere!

    Freud, ne Il disagio della civiltà, ci offre la spiegazione di questa becera semplificazione, collegandolo anche all’origine delle nevrosi, con un teorema ormai conosciuto anche dai non addetti ai lavori – l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.

    Questo baratto e la sua patogenicità sembra coglierla l’artista milanese in Quando è moda è moda, ove il confondersi con gli altri ci permette di evitare l’angoscia, definendo la nostra identità, rischiando di non essere accettati, riconoscendoci separati dall’Altro. La moda diventa la gomma per cancellare con cui si eliminano le distanze, si polarizzano le differenze, ed il mondo, irrealmente, ma rassicutoriamente, appare diviso tra chi è amico, alla moda, o chi è nemico, chi non lo è, piuttosto che riconoscere le differenze che caratterizzano ciascun individuo.

    L’Urlo sembra allora il modo per andare al di là delle ristrettezze della vita, intesa come evento meramente razionale, ove le emozioni fastidiose non vengono riconosciute, bensì rimosse.

    Il mondo interno, quello privato, irrazionale, il regno degli affetti, viene in questo modo negato. Si tenta così di colmare, superare e, dunque, non aver paura, del vuoto che ognuno di noi avverte dentro, il momento che non riesce a dar senso alle proprie fantasie.

    La maggior parte delle persone si lascia irretire dalla paura di non saper esprimere e di non riuscire a reperire il senso della confusione interiore, quando la nostra irrazionalità si fa largo.

    Questo a me sembra il messaggio che possiamo trarre dalla lettura de L’urlo di Gaber: se non si rischia di tentare (guarda caso un verbo che richiama il daimon) di vivere artisticamente, creativamente, mettendosi in discussione continuamente, così come i tanti artisti che saranno analizzati hanno provato a fare, allora la sindrome dello struzzo prende il sopravvento e ci distraiamo o mettiamo la testa sotto la sabbia.

    Roma, 17 febbraio 2013

    Roberto Torresi

    NOTA DELL’AUTORE

    Talvolta i padri che scegliamo durante il cammino della nostra vita

    diventano più importanti di quelli naturali[1].

    «I padri miei, i padri che ci ho avuto io»[2] sono stati veramente tanti, scelti per affinità e per interessi comuni. A tutti loro che mi hanno adottato, cresciuto e alimentato va la mia più viva gratitudine, poiché mai sazio dei loro insegnamenti, ne ho succhiato la conoscenza più che potevo.

    Conobbi Giorgio Gaber un pomeriggio di Maggio, avevo da poco raggiunto l’età adulta. Me lo presentò un mio compagno di scuola, cui sono molto grato.

    Mi fece ascoltare, su un vecchio nastro magnetico, Polli di allevamento. Fu un classico colpo di fulmine, che costrinse il mio compagno, Marco Mingrone, a offrirmi in regalo la registrazione.

    Da quel giorno sono ormai trascorsi più di trent’anni, un lungo periodo in cui ho avuto modo di apprezzare tutte le sue opere teatrali.

    A metà degli anni Ottanta Gaber portò nella mia città, Cosenza, la rappresentazione di Anni affollati.

    In quell’occasione ebbi l’intraprendenza di telefonare all’albergo dove egli alloggiava.

    Riuscii, spacciandomi per un suo amico, a ottenere dal portiere il numero della stanza. Quando lo ebbi, al telefono gli chiesi d’incontrarlo.

    Egli acconsentì e mi diede appuntamento al Teatro Morelli, dove si sarebbe svolto lo spettacolo.

    Ricordo che andai con mezz’ora d’anticipo. L’incontro durò poco, ma fu per me intenso e indimenticabile.

    Ravvisai in lui modi garbati e un linguaggio pacato; la postura, la mimica, tutto era come quando reggeva la scena. Niente era artefatto.

    Nessun comportamento affettato. Nessuna ostentazione tipica di chi si crogiola nella vanità derivante dal successo.

    Sebbene consapevole del suo carisma e della fascinazione che io subivo e della quale sinceramente mi sentivo irretire, mostrò una grande umiltà e fu curioso di sapere come avessi fatto per rintracciarlo, rimanendo colpito dalla mia intraprendenza.

    Da allora mi feci idealmente adottare.

    Intanto, negli anni successivi, la schiera dei miei padri s’infoltiva sempre di più, ma l’amore per Gaber rimase sempre intatto.

    Anzi, ogni qualvolta incontravo un nuovo scrittore, un filosofo, uno psicologo o un artista, mi rendevo conto, con piacevole sorpresa, che Gaber lo aveva frequentato, talvolta citato in qualche suo monologo, insomma capii che avevamo le stesse frequentazioni, le stesse amicizie.

    Via via mi accorsi che non era solo un grande artista, era soprattutto un intellettuale con il dono dell’umorismo e spaziava nei diversi campi del sapere in modo leggero, ma certamente non superficiale.

    Oggi ho deciso di omaggiarlo attraverso questo lavoro che vuole essere un excursus penetrativo delle sue opere teatrali, senza tralasciare di rivolgere uno sguardo al suo mondo interiore.

    Non so come reagirebbe a questa evidente intrusione, ma spero di farlo con il rispetto che si deve a una persona cara.

    D’altra parte a Gaber tocca lo stesso destino di tutti i grandi artisti e dei grandi uomini in genere.

    La loro vita e le loro opere sono scandagliate e analizzate, sono messe sotto una lente d’ingrandimento, per poter cogliere i vari aspetti della loro esistenza. Talvolta può sembrare irriverente, irriguardoso e insolente, però è necessario, perché più cresce il valore dell’artista, più pressante diventa l’interesse degli estimatori nel voler conoscere particolari che riguardano l’opera e la vita dell’autore.

    Del resto egli stesso lo esigerebbe, perché dice: «Amo le persone cui non devo concedere attenuanti, che non mi concedono attenuanti»[3].

    Pertanto, sono certo che Gaber

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