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La 'Ndrangheta nella letteratura calabrese
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La 'Ndrangheta nella letteratura calabrese

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C’è una tesi che ha il fascino indiscreto e attaccaticcio di tutte le cose false. Come è noto, la verità stenta ad affermarsi. II falso non conosce questa difficoltà in proposito di riflessi della criminalità organizzata in letteratura il falso e che nel Mezzogiorno e in Calabria su mafia, camorra, 'ndrangheta hanno osservato un rigido silenzio non solo la classe politica e le classe economiche, ma anche gli intellettuali: saggisti o letterati che siano. Ma bisogna aggiornare le lancette dell'orologio ed essere contenti, ora, dell'insonne veglia dei letterati dell'obitorio che offrono morti ammazzati alle pompe funebri editrici. II saggio dl Pasquino Crupi, che per primo ha ricostruito i riflessi della 'ndrangheta nella letteratura calabrese, fa solare chiarezza con la compiuta antologizzazione di scrittori e poeti popolari calabresi. II che consente di innestare nelle scuole un percorso didattico di tutta utilità nella costruzione d'una cultura antindranghetista, d'una cultura della legalità.
LanguageItaliano
Release dateFeb 21, 2013
ISBN9788868220082
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    La 'Ndrangheta nella letteratura calabrese - Pasquino Crupi

    Paesi.

    Profilo linguistico e storico / I

    1 - IL NOME DELLA COSA

    Camorra napoletana e mafia siciliana sono gravate, ieri e oggi, da studi, indagini, inchieste private e pubbliche, parlamentari e giornalistiche, che di tempo in tempo le hanno fantasticamente carezzate, negate e riconosciute, minimizzate e massimizzate, fatte a pezzi e, quindi, nuovamente giganti interi dalle loro stesse ceneri. La storia letteraria, discreta, non ne ha fatto sentire il rimbombo nelle sue pagine. Non così nel cinema, che, assunto complessivamente, le ha trasformate in spettacolo.

    In deserta solitudine, viceversa, era rimasta per lunghissimo tratto di anni, anzi di decenni, l’Onorata Società calabrese. Dal suo timido affacciarsi, già all’indomani dell’Unità d’Italia, dal suo riformarsi e apparire tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento all’attraversamento periglioso, ma non letale, del ventennio fascista al suo riorganizzarsi ed espandersi dopo la fine della seconda guerra mondiale, la criminalità organizzata della Calabria e, meglio si direbbe, del Reggino era stata espulsa dai circuiti della letteratura e della letteratura giornalistica, della storia e della storia politica.

    Il prolungato totale silenzio, quasi una sorta di omertà culturale e politica, fu appena incrinato, nient’affatto interrotto, nel 1975 da Sharo Gambino[1] con il suo saggio, ben costruito e ben documentato, La mafia in Calabria (Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1975; ora, Edizioni Città del Sole, Reggio Calabria s.d - con prefazione di Paolo Pollichieni[2]). Ma non se ne tenne conto. Come, peraltro, non si tenne conto delle giuste pagine di Augusto Placanica, preclaro storico, morto nel pieno delle sue energie intellettuali[3].

    L’Italia era afflitta dal terrorismo e tutte le luci della ribalta erano concentrate su di esso. Sconfitto il terrorismo, ecco emergere, come evocata dal nulla, la ndrangheta, che entra prepotentemente nella stampa nazionale, nei tribunali, nelle carceri, nella legislazione di emergenza, e, salienti gli anni Novanta con affaccio al Duemila, non c’è romanzo, nato in area calabrese, che non abbia a protagonista uno ndranghetista e un paio di morti ammazzati. Ciò che recava e reca il rischio di trasformare la letteratura calabrese in letteratura dell’obitorio.

    La cultura meridionale contemporanea ha avuto bisogno del sangue per accorgersi dell’esistenza della classe pericolosa, dell’Onorata Società, spezzando, in questo modo, ogni rapporto di continuità con il pensiero meridionalistica dell’Otto-Novecento che aveva costantemente e fermamente denunciato la presenza di fenomeni degenerativi, come la mafia, la camorra, il banditismo, nella vita del Mezzogiorno. La ’ndrangheta vi era taciuta, perché non era che una picciotteria, una sottomarca della camorra e della mafia. E non c’è dubbio che questo taglio con la tradizionale linea del pensiero meridionalista ha rappresentato una vera e propria barbarie culturale. Non è stato Benedetto Croce[4] a ricordarci e ad ammonirci che la rottura con le tradizioni è barbarie o imbarbarimento?[5].

    Né questo solo è il vero lato del problema. Vero lato del problema è che sul tema, su questo tema cruciale per la vita democratica e sociale del Mezzogiorno e della Calabria, distratta, colpevolmente distratta, si è rivelata la cultura politica del secondo dopoguerra, governi ed opposizioni.

    Spieghiamone il perché.

    L’Onorata Società fa il suo ingresso in Parlamento nell’ottobre del 1955. La discussione parlamentare è forzata da questo accadimento: alla vigilia del ferragosto sulle impervie strade dell’Aspromonte la macchina del Sottosegretario di Stato all’Agricoltura, il liberale Capua, fu fatta segno a numerosi colpi di armi da fuoco. Scatta l’operazione militare del questore Carmelo Marzano[6], voluta dal Ministro degli Interni, Fernando Tambroni[7], «dopo avere esaminato alcune situazioni provinciali» la più urgente delle quali gli era «apparsa quella di Reggio Calabria». E, come tutte le operazioni militari, destinata a placare gli effetti della criminalità organizzata, non già a eliminare le cause della sua continuità e prosperità.

    Fiume carsico, che scorre nelle caverne della società calabrese, l’Onorata Società rimane assente, da quel 1955, per ben 14 anni, dagli annali parlamentari per riapparire nel 1969[8]. Devono trascorrere, da questa data, altri 18 anni, pieni di morti e vuoti d’iniziativa come di parola, perché di nuovo il Parlamento si rioccupi del fenomeno dell’Onorata Società nel 1987[9]: nel quadro, però, di una discussione generale sulla criminalità organizzata nel Mezzogiorno e in Calabria. Il ritardo, pericolosamente accumulato, nell’indagine delle cause e degli effetti dell’Onorata Società non è problema di secondaria importanza né per quanto riguarda l’aggravamento delle condizioni di vita democratica della Calabria né per quanto riguarda la ricerca, scientificamente fondata, non solo della sua genesi, della sua geografia d’origine, che rimangono appese al dubbio, alle ipotesi, alle congetture. Persino, sul nome della Cosa.

    Documenti di archivio, rapporti di prefetti, delegati di Pubblica Sicurezza, Procuratori del Re, scritture letterarie fanno fede irrefragabile del terremoto semantico del nome della Cosa, che, rilevata e operante, non per questo assume un segno preciso, puntuale, univoco.

    Maffia, camorra, malavita, picciotteria? Quale, insomma, la denominazione prevalente dell’Onorata Società calabrese tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento? Maffia e Camorra sono da principio i segnali verbali che intonano la Cosa. Nell’ultima parte dell’Ottocento prevalgono, in ordine cronologico, picciotterìa e malavita.

    Siccome è inutile domandarlo agli astrologhi, cerchiamo di vedere che tipo di ospitalità linguistica offrono i vocabolari del dialetto reggino. E le sorprese non mancano.

    Le parole picciotteria e malavita circolvano già nel vocabolario poetico di Giovanni De Nava, fin dal 1894, come emerge dalla raccolta in dialetto, Sentiti genti. Ma nel suo Il Vocabolario dialettale calabro-reggino[10], che pur sopravviene nel 1909, 15 anni dopo Sentiti genti, Giovanni Malara non registra né la parola «malavita» né la parola «picciotterìa», prime denominazioni di ciò che appresso sarà chiamata «ndrangheta». Registra, viceversa, «mafia» e la traduce con «braverìa» così come «maffiusu» con «bravaccio». Di illustre e non dimenticata ascendenza manzoniana. Ora, poiché ne I promessi sposi «braveria» sta a significare un insieme di sgherri i quali non hanno esercizio, od avendolo, non lo fanno…, ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante […] per fargli spalle a favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri[11], la conclusione da trarre, con ogni probabilità di certezza, è questa: il lemma «mafia» viene registrato per analogia con la mafia siciliana, che è destinato a imporsi come il paradigma della questione criminale calabrese. Quando, per esempio, gli storici intenderanno dare conto delle origini degli uomini d’onore calabresi[12] ricorreranno all’equazione latifondo-mafia, pedestremente applicata alla criminalità organizzata in Calabria. Ma di questo più avanti.

    Al detto paradigma aderisce successivamente anche Giovan Battista Marzano[13] che nel Dizionario etimologico del dialetto calabrese (Polistena 1928) «malavita» e dà conto del lemma «maffia», geograficamente e linguisticamente assestata in Sicilia. Il che è davvero paradossale per un dizionario, come il suo, che si pone come Dizionario etimologico del dialetto calabrese, e dove il lemma «picciotteria» insorge come una stampella per meglio sorreggere e spiegare che cosa sia la «mafia». Tale la voce «mafia» del Marzano:

    Mafia - Tracotanza, prepotenza, atti e parole da bravaccio, da margiasso, braverìa, smargiassata: nome dedotto dall’ar. maphias, tracotanza, o da maehfll,voce pure araba che significa adunanza. Secondo alcuni deriverebbe invece dalla parola mefula, che vale gente triste, dedita al malaffare, o da ma/Ikatan, luogo ombroso. Mafia è un’associazione di violenti, un dì assai fiorente in Sicilia, sorella gemella della camorra napoletana e della picciotteria calabrese. Maffiusu, appartenente alla mafia, camorrista, prepotente; maffiata, bravata, sbravazzata. Mafia ha pure il significato di lusso, eleganza, boria, fasto, alterigia.

    Per chi abbia un minimo di conoscenza dei vocabolari siciliani, non c’è dubbio che la voce «mafia» in questo modo spiegata dal Marzano è declinata secondo i lessicografi siciliani, gli studiosi siciliani. Annota Napoleone Colajanni[14]:

    Benché questo scritto [Nel regno della mafia (dai Borboni ai Sabaudi) non abbia e non pretenda menomamente di avere un carattere storico e molto meno filologico, pure mi pare utile in una nota dar notizia su ciò che di più sicuro si conosce sulla etimologia e sulle origini della mafia. Qualcuno – ed è persona assai autorevole che da me pregata me ne ha scritto – dal fatto che la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano-italiano [Tip. Pietro Pensante, Palermo 1853] del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3ª edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia che equivale a camorra. La verità è diversa. L’essenza vera della mafia esisteva da secoli e venne generata dalle cause, che sommariamente vengono descritte in questo modesto lavoro; si vedrà pure da un documento ufficiale che nel 1838 le autorità denunziavano l’azione di qualche cosa, che intrinsecamente corrispondeva alla mafia; esisteva pare da secoli la parola benché avesse sino ad un tempo relativamenterecente un significato diverso dell’attuale. Il Prof. Pitré[15], l’illustre folklorista siciliano, nel 2.° vol. dei suoi Usi e costumi del popolo Siciliano a p. 289 così scrive: La voce, Mafia coi suoi derivati valse sempre bellezza, generosità, perfezione, eccellenza nel suo genere[16] ec.. G. A. Cesareo, l’eminente insegnante della università di Palermo, in quanto all’antichità della voce cortesemente mi comunica che in un codice di poesia siciliana e spagnola settecentesco c’è il seguente strambotto: Quannu vinisti vui, picciotta bedda / Tutta la Briaria si ribiddau: / Chista è la donna chiù mafiusedda / chi l’ancilu bedd’ancilu purtau.

    Pel Cesareo: Mafia deriva dall’arabo mahias- spaccone. Data questa etimologia, sulla quale non ho competenza alcuna per interloquire, il significato primitivo della parola Mafia avvicinerebbe di più a quello attuale. È innegabile, però che per lungo, tempo l’aggettivo mafiusu venisse adoperato nel senso dato dal Pitrè; ciò che viene confermato dallo stesso strambotto ricordato dal Cesareo: la donna bella e mafiusedda, infatti, era stata portata da un angelo; anzi da un angelo bello: da un bedd’ancilu. Come sia avvenuta la trasformazione nel significato della parola mafiusu nessuno credo può dire: queste sono elaborazioni linguistiche che si verificano lentamente e misteriosamente nelle masse popolari. Certo è che l’uso della parola nel senso odierno il Sig. Gaspare Mosca lo colse poco dopo il 1860, dalla frase di un popolano che apostrofò un individuo in attitudine spavalda e minacciosa colla frase: vurrissi fari u mafiusu cu mia? (vorresti fare il mafioso con me?). La commedia: Li mafiusi dello stesso prof. Gaspare Mosca, il cui protagonista Iachinu Fungiazza fu reso popolarissimo in Sicilia e in buona parte d’Italia da Rizzotto, assodò e divulgò il nuovo significato. Oggi in Sicilia si adopera un traslato inverso: fari u graziusu si dice nel senso di fare il prepotente. È interessante, a leggere la lettera che il suddetto prof. Gaspare Mosca ha pubblicato come prefazione alla sua commedia Li mafiusi (Palermo 1896). Il prof. Antonio Traina nel Nuovo Vocabolario siciliano-italiano (Palermo, Pedone Lauriel 1869) della parola mafia e dei suoi derivati dà numerose spiegazioni, che l’avvicinano alla origine araba del Cesareo; mentre il Mortillaro nella seconda edizione del dizionario citato (1853) la mette come equivalente di camorra. E il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamoros che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa!…[17]

    Se si va, come si deve andare, oltre gli etimi e le parole, non c’è difficoltà alcuna a stabilire da quale parte stia la verità. Il Marzano aveva come suo referente la mafia siciliana per come storicamente si era impostata e posta, e da lì partiva per assestare in sede vocabolaristica «picciotteria», già in circolo nel linguaggio comune. Ma può suscitare stupore che in un Dizionario etimologico del dialetto calabrese sia la parola «maffia» a richiamare e spiegare «picciotteria»? Per nulla, se mettiamo la questione sulle gambe della logica e della storia.

    È sempre il noto che spiega il nuovo e anche il relativamente nuovo, se non proprio l’ignoto. «Maffia» era linguisticamente più significante di «picciotteria», più geograficamente estesa, storicamente più accertata, parlamentarmente più dibattuta, giornalisticamente più presente, etimologicamente più rivisitata, lessicalmente più antica che non «picciotteria», geograficamente periferica, linguisticamente accantonata, ritaglio della grande famiglia siciliana. E debbo aggiungere: il più ricomprende il meno, e non può darsi il contrario. E, dopo tutto, mancava alla picciotteria calabrese quell’attenzione nazionale, che gli uomini d’onore siciliani si erano meritati con il Rapporto (1861) di Diomede Pantaleoni[18] a Marco Minghetti[19], con le Relazioni (1874) dei prefetti di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, con le Inchieste parlamentari del 1875, del 1877, del 1907, le Lettere meridionali (1875) di Pasquale Villari[20], La Sicilia nel 1876 di Leopoldo Franchetti[21] e Sidney Sonnino[22].

    E «’ndrangheta?».

    Non ve ne è traccia né nel Malara né nel Marzano.

    Il Malara, invero, annota indranghiti, traducendolo con «uomo balordo, stupido». E su questo lemma Franco Mosino, dopo una serie di raffronti tra i Gerghi della malavita dal 1550 a oggi di Ernesto Ferrero[23] e il Gergo della malavita – a cura del Ministero dell’Interno (Arti Grafiche Fratelli Palombi, Roma 1969), conclude che «’ndranghita» è "la società degli ’ndranghiti, cioè dei balordi [i quali] si credono furbi, più furbi naturalmente della polizia, ma, per una antifrasi di sapore ironico, usano chiamare balordi, cioè stupidi, se stessi (e balorda la loro attività) e furbi i loro antagonisti, i poliziotti"[24].

    Conclusione davvero inaccettabile. I Gerghi e il Gergo non contengono ’ndranghiti. Nel Gergo della malavita troviamo (p. 116) «’Ndranghete (’o)» così spiegato: "La società mafiosa (Reggio Calabria). Termine locale con il preciso significato sopraccitato, diffuso anche in Sicilia". Come ci s’accorge, lo scarto linguistico tra «’ndranghiti» e «’Ndranghete (’o)» è minimo sul piano grammaticale, cioè formale, ma è, viceversa, grande sul piano sostanziale. Ma c’è di più. I Gerghi e il Gergo riportano «balurd» e lo spiegano rispettivamente con «l’uomo della mala, il pregiudicato in genere» e con «pregiudicato in genere», in uso a Torino, precisa il Gergo della malavita. Questo particolare avrebbe dovuto mettere in allarme Franco Mosino, distogliendolo dall’avventata analogia, a meno di non voler ritenere, con uno sgarro storico di grandiose proporzioni, che il nome degli appartenenti all’Onorata Società calabrese sia stato fabbricato dai piemontesi. Oltre tutto, balurd, nei Gerghi e nel Gergo, qualificano il «pregiudicato in genere»[25], ed è, però, risaputissimo che l’uomo di malavita non è un «pregiudicato in genere», un delinquente comune. È l’affiliato specifico dell’associazione a delinquere, con tratti e caratteristiche che lo distinguono da ogni altro delinquente, e dal delinquente comune. Ma, se sinonimi balurd e ’ndranghiti, come mai non appaiono simultanei, rinviandosi dall’uno all’altro, nei Gerghi e nel Gergo? Come mai, ancora, il Gergo omette ’ndranghiti, ed ha ’ndranghete(o), che accoglie, però, come «la società mafiosa (Reggio Calabria), Termine locale con il preciso significato sopracitato, diffuso anche in Sicilia»[26], e non anche come «la società degli ’ndranghiti, cioè de balordi»? Ma dovrebbe pur dir qualcosa che il Malara registri ’ndranghiti e non menzioni ’ndranghita. Il che dichiara la solitudine dello ’ndranghiti, del balordo, dello stupido nel contesto della Società degli uomini d’onore.

    Sulla storia della parola ’ndranghita si cimenta, con grande ambizione, anche Paolo Martino. Gli argomenti, che egli chiama in soccorso della sua tesi, sono diversi, e di diverso impianto. Argomenti innanzitutto polemici nei confronti di Gerhard Rohlfs. Il quale, secondo Paolo Martino, poiché travolto dal «preconcetto che ’ndranghita sia un neologismo gergale» si è tolto dalla necessità di «cercare nel sostrato grecanico la possibile ascendenza di questa voce»[27]. Per nulla travolto dall’ostativo ed esiziale preconcetto, Paolo Martino si è messo, di lena, alla ricerca degli antichi genitori della parola ’ndranghita, e l’ha scovata nella greca andragathìa, che è propriamente «l’agathìa dell’individuo, il valore personale, i propri meriti»[28]. Come ogni sostantivo, andragathìa può fecondare ed ha generato l’aggettivo andràgathos, che sta dirittamente e direttamente per «uomo nobile e coraggioso, degno di rispetto in virtù delle proprie capacità», ponendosi, perciò, anche per impulso del Pitré, come «l’immediato precedente del calabrese ndrànghitu uomo d’onore e di rispetto, spaccone, camorrista, ndranghitista»: sicché «ndranghita si presenta dunque o come un derivato da ndrànghitu oppure come una formazione deverbale da «ndranghitiàri, come tsitu, tsita da tsitìari zetéo» e la «comparsa dell’appellativo ’ndranghitista, accanto al più antico ’ndranghitu si giustifica analogicamente per l’equazione seguente: Camorra: camorrista =: ’ndranghita: ’ndranghitista» [29]. E, poiché ’ndranghita e ’ndranghitista ebbero queste relazioni familiari, di parentela ristretta, è giocoforza restituirli al lontano passato della loro purezza originaria.

    La conclusione di Paolo Martino, che osa saldare 2.000 anni di storia, etimologicamente, con una parola, è questa. Ma è il De Saussure a persuadere come sia necessariamente improbabile ogni conclusione che si fondi solo e soltanto sull’etimologia, che porta sempre dentro di sé l’incertezza[30]. E non è tutto. Il grande studioso non manca d’ammonire: I significati delle parole si evolvono: il significato d’una parola cambia sovente nello stesso tempo in cui un popolo cambia sede[31].

    A dir vero, è lo stesso Paolo Martino ad avere avvertito l’estremo formalismo della sua conquista linguistica se ha tentato di rafforzare l’argomento etimologico, che non abbandona,con un argomento storico. Questo: che nel «massiccio dell’Aspromonte, roccaforte tuttora vivente della grecità calabrese è generalmente [corsivo mio] collocata la nascita e la base operativa della ’ndranghita»[32]. Come dire: la ’ndranghita sortì nella roccaforte della grecità calabrese; dunque, greca, meglio grecanica fu la sua denominazione.

    È una dimostrazione? O più propriamente uno slogato sillogismo? Decidersi è facile. Poiché affermare che «la nascita e la base operativa della ’Ndranghita» sono generalmente collocate nel massiccio dell’Aspromonte orientale non è provare che l’Onorata Società calabrese abbia avuto colà origine e sviluppo. Il generalmente, come il notorio, è una poco raccomandabile categoria storica. Vale di più, però, ricordare, anche se d’inciso, che l’Onorata Società delle origini è fenomeno cittadino non meno che contadino. Inoltre, come mai, la sciagurata creatura, nata nella roccaforte della grecità calabrese, si trova orfana di nome nella lingua grecanica?

    Ma Paolo Martino, nonostante tutto, sembra aver fatto scuola e alla sua lezione aderisce, senza un minimo d’acribia, Enzo Ciconte, mafiologo risonante, che così affianca:

    La parola ’ndrangheta è stata adoperata, soprattutto nell’ultimo ventennio, per distinguere le associazioni criminali operanti in Calabria da quelle analoghe della Sicilia e della Campania […]. Forse sarebbe più corretto, dal punto di vista etimologico, dire ’ndranghita che è termine di chiara origine grecanica derivato da andragathos che indicava proprio l’uomo coraggioso e valoroso,

    Procediamo su un terreno più sicuro[33].

    La giovane età della parola ’ndranghita è documentata, nella seconda parte del Novecento, dalla letteratura calabrese, la quale, per

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