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Sogno e incubo
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Ebook107 pages1 hour

Sogno e incubo

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Dalla paura di rimanere intrappolati nel proprio corpo, al terrore di rimanere impotenti davanti ad un destino violento e capriccioso, fino alle paure più comuni tra gli uomini come quella di una morte violenta. Queste sono solo alcune delle tematiche descritte in “Sogno e Incubo”, accompagnate da una costante e puntuale descrizione psicologica e spirituale dei protagonisti, veicoli attraverso cui l’autore tenta di affacciarsi, con uno sguardo generale e oggettivo, non solo alle grandi paure umane, ma anche ai sogni che si celano dietro di esse: spesso dietro alla paura si cela il timore di non riuscire a realizzare le nostre aspirazioni primarie.
Oltre a questi temi, l’autore non perde di vista anche l’aspetto antropologico, rappresentando un’umanità che combatte incessantemente per porre un equilibrio, spesso senza successo, tra i suoi estremi incompatibili: quello compassionevole e quello violento.
Infine viene trattato, in maniera piuttosto indiretta, il tema del femminicidio. Spesso le azioni più feroci vedono le donne come vittime impotenti, a volte per colpa dei loro uomini, altre volte per colpa di un fato crudele. Ma c’è una speranza: sono rivolte alle donne infatti non solo le azioni più efferate, ma anche le passioni e gli amori più intensi.
LanguageItaliano
Release dateDec 14, 2014
ISBN9788899121167
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    Sogno e incubo - Matteo Persico

    Ringraziamenti

    Il Marinaio

    (Sognatore sognato)

    Vita I

    Il campanello risuonò nel piccolo appartamento. Jane, che intanto stava tagliando delle carote in cucina, si catapultò verso la porta:

    –  Chi è?

    –  Sono io Jane! Apri la porta- rispose Trevor con voce lugubre.

    Dopo aver sentito la voce poco rassicurante del marito, Jane aprì celermente la porta. Appena lo vide, gli diede un veloce bacio a stampo sulle labbra e iniziò a fissarlo con sguardo circospetto:

    –  Cos’hai Trevor?

    –  Giornataccia al lavoro. Quel bastardo del signor Campbell non fa altro che prendersela con me. Siamo più di cento impiegati ai suoi ordini ma lui non fa altro che aggredirmi.

    –  Mi dispiace, piccolo.

    –  Non ti preoccupare, ora voglio solo cenare e andare a dormire.

    Trevor si tolse la lunga giacca di pelle nera sintetica e la pose sull’attaccapanni posto di fianco alla porta. Dato che la cena non era ancora pronta, si sedette ad aspettare sull’unico divano presente in salone. Era un divano molto vecchio che i genitori di Jane avevano regalato loro dopo il matrimonio. Quella stanza gli metteva molta tristezza, come tutta la sua vita. I muri erano dipinti di un grigio chiaro che detestava particolarmente, ma non aveva né la voglia né i soldi per ridipingere tutte le pareti. Accese il vecchio televisore posto davanti al divano, cercando un po’ di svago in qualche programma di basso profilo culturale. Non lo divertiva nulla. Allora cambiò canale e iniziò a seguire un dibattito politico sulla rete nazionale. Quante parole inutili! Quanti discorsi demagogici! Resistette altri cinque minuti, dopo di che spense la televisione, avvilito. Come un’anima penitente, si diresse verso la cucina:

    –  E’ pronto ora?

    –  Sì Trevor, ecco qui.

    Jane gli pose davanti una ciotola ricolma di verdure fredde.

    –  Ancora insalata?

    –  Lo sai cosa ha detto il medico. Devi mangiare sano, non sei stato bene di stomaco. Non vorrai rischiare di nuovo il ricovero!

    –  Hai ragione amore. Scusami.

    Iniziò a mangiare con molta fatica l’insalata mista: non era la sua pietanza preferita. Dopo qualche minuto però aveva già vuotato la ciotola del suo contenuto. Si guardò intorno insoddisfatto, allontanò dal tavolo la sedia su cui era seduto e si destò.

    –  Grazie amore per la cena.

    –  Niente tesoro, figurati.

    Aveva sempre un forte senso di colpa quando rispondeva male a Jane. Non era nelle sue intenzioni. Quella era la donna che amava, l’unica. Eppure quella vita, abitudinaria e noiosa, lo induceva a comportarsi come non avrebbe mai voluto. Jane si accorse, dalla smorfia che il marito aveva in volto, che era dispiaciuto e smarrito. Avrebbe voluto dirgli quanto lo amava per strappargli un sorriso, dal momento che quello era l’unico modo per ottenere una reazione oramai così insperata, ma non fece in tempo: Trevor era uscito dalla cucina e si stava già mettendo il pigiama in camera da letto. Lo raggiunse. Nella camera era buio e il marito era seduto sul ciglio del letto, pensieroso. Jane accese la luce e si sedette di fianco a lui:

    –  Ti amo Trevor.

    –  Lo so tesoro. Ciò mi rallegra infinitamente.

    –  Mi dispiace per questo momento che stai attraversando. Passerà prima o poi.

    –  Tu dici? Non ne sono così convinto. Sono come un leone nella gabbia di uno zoo. Il mio istinto è quello di un animale coraggioso e selvaggio, ma più passa il tempo e più divento mansueto e molle. Tra poco non avrò più neanche la forza di reagire. Questa vita spenta e grigia non mi lascerà via di scampo.

    –  Non dire così!

    –  Invece lo dico. Spero solo che tu continuerai ad amarmi.

    –  Certo amore!

    Una lacrima solcò il volto di Jane che, non appena ebbe sentito quelle dilanianti parole, portò a sé le labbra del povero marito e lo baciò, con quanta passione avesse in corpo. Dopo il bacio, sul volto di Trevor comparve un timido sorriso.

    –  Grazie Jane del tuo appoggio, ora però vado a dormire. Oggi è stata una giornata dura. Domani sarà come oggi e così sarà sempre. Sono stanco.

    –  Va bene Trevor. Buonanotte.

    Jane si alzò dal letto e, dopo aver dato un ultimo bacio sulla fronte del marito, il quale era già sotto le coperte, uscì dalla stanza spegnendo la luce. Non era casuale il fatto che Trevor desiderasse tanto il sopraggiungere del sonno. Era un periodo in cui l’unica speranza su cui poteva fare affidamento, tolto l’amore di sua moglie, erano i sogni. Durante tutto il giorno, dalla mattina alla sera, non faceva altro che desiderare il momento in cui avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe iniziato a fantasticare su terre lontane e storie avventurose. Finalmente quel momento era giunto. Chiuse gli occhi. Bastarono pochi secondi e cadde in un sonno profondissimo.

    Intermezzo I

    Sono un marinaio. Non uno di quei marinai senz’anima dei vostri squallidi tempi moderni. Sono un marinaio idealizzato. Infatti non sono altro che il frutto della mente di chi mi sogna e di chi, nella mia figura, si immedesima. La mia terra non ha nome, come me d’altronde. Io sono Il Marinaio, tale è il mio nome. Questo sogno, come tanti altri che hanno come protagonisti questi coraggiosi uomini, combattenti del mare, inizia su una nave. Una nave di legno, con tre alberi ricolmi di vele spiegate, gonfiate dal ricco e fecondo zefiro, un timone rotondo e un numeroso equipaggio, proprio come la mente umana e la tradizione comune la immagina. Il mare dove ci troviamo si chiama Salbat. Tale nome non è presente su nessuna cartina, ma è creazione di Trevor, come tutto ciò che è presente attorno a me, in questa realtà. Dunque non si scandalizzi il lettore dell’assurdità di ciò che avviene in questo luogo. Qui non è dominio della razionalità, dell’organizzazione, della scienza, delle argomentazioni e dell’oggettività, ma solo della mente generatrice che, come un dio viziato e lamentoso, crea e distrugge a suo piacimento, senza leggi o limiti imposti. Chi è già pronto, come il corridore a scattare, a lamentarsi per l’assurdità degli avvenimenti, chiuda il libro. Si faccia cogliere, invece, più impreparato che può, il Lettore. La sorpresa risulterà sublime.

    Sogno I

    –  Ammainate le vele!- urlò il capitano- E’ arrivato il momento di riposarsi.

    Tirammo tutti un sospiro di sollievo. Dopo un’oscura notte di tempeste furenti, colma di fatiche, dove non avevamo avuto modo di vedere né le stelle né il candido sole, finalmente era giunto il giorno e potevamo riprendere fiato. Alcuni scesero nella stiva a bere ma io decisi di rimanere sul ponte per godermi la brezza marina. In alto si stagliava la lucente luna che, con i suoi raggi, donava brillantezza al calmo mare di color rosso sangue. Uno dei marinai, appena ritornato dalla stiva, aveva portato con sé una fisarmonica e, senza attendere oltre, iniziò a suonarla. Tutti gli altri membri dell’equipaggio presenti sul ponte fecero un cerchio attorno al musicista e qualcuno accennò un timido ballo. Dopo pochi minuti uno dei mozzi portò dell’alcool dalla stiva e iniziammo tutti a berlo di buon gusto così che, quelli che prima erano timidi passi, divennero dei veri e propri balli sfrenati. Mi buttai anche io nella folle danza. Preso un mio amico per l’avambraccio, iniziammo a scalciare in avanti, con il bacino tendente verso il suolo, a ritmo di musica. Quello è uno dei balli che più amiamo fare noi marinai ma è anche terribilmente stancante. Fu così che presto chiesi il cambio ad un altro marinaio. Non appena mi appoggiai a terra, sfiancato dalle le fatiche del ballo, uno dei mozzi iniziò a strillare:

    –  Venite tutti! C’è un branco di delfini!

    Fu uno spettacolo magnifico. Accorremmo tutti verso il lato sottovento della barca. Di

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