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Il Regno di Sardegna-Vol.02
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Il Regno di Sardegna-Vol.02

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I manuali universitari di Diritto costituzionale recitano testualmente: «L’attuale Stato italiano non è altro che l’antico Regno di Sardegna ampliato nei suoi confini…». Ebbene, questo libro, diviso in due tomi, racconta per la prima volta in modo chiaro e semplice, quando è nato, dove è nato e come è nato lo Stato che oggi, col nome di Repubblica Italiana, comprende tutti noi, insulari e peninsulari.
LanguageItaliano
PublisherLogus
Release dateNov 24, 2012
ISBN9788898062119
Il Regno di Sardegna-Vol.02

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    Il Regno di Sardegna-Vol.02 - Francesco Cesare Casùla

    Il Regno di Sardegna

    Vol. 2 - IL CONSOLIDAMENTO

    Collana di Storia Sardo-Italiana

    Versione elettronica I edizione, 2012

    © logus mondi interattivi 2012

    © Copyright 2012

    Proprietà letteraria: Francesco Cesare Casùla

    Codice ISBN: 978-88-98062-11-6

    Autore: Francesco Cesare Casùla

    Editore: Logus mondi interattivi

    Progetto grafico: Logus mondi interattivi

    Contatti: info@logus.it - www.logus.it

    COLLANA DI STORIA

    SARDO-ITALIANA

    Ciò che facciamo solo per noi stessi muore con noi.

    Ciò che facciamo per gli altri e per il mondo resta ed è immortale

    Edizione dedicata ai miei nipoti

    Ettore, Margherita e Sofia.

    Francesco Cesare Casùla

    IL REGNO DI SARDEGNA

    Vol 1. LA NASCITA

    Vol. 2. IL CONSOLIDAMENTO

    (Il presente volume è la naturale continuazione del volume Il Regno di Sardegna - La nascita).

    *  *  *

    Edizioni

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    Numero di matricola del tuo eBook: FCC598YCZ5

    Capitolo settimo

    IL GRANDE CONFLITTO

    1. Brancaleone Doria.

    Con la morte di Matteo Doria nel 1357, si era venuto a creare il delicato problema della successione ai grandi possessi sardi del ramo discendente da Bernabò, ormai tutto estinto.

    Prima di Matteo erano morti i fratelli: Galeotto nel 1346, Gottifredo intorno al 1329, Cassano, Manfredi e Brancaleone nel 1353 circa; nonché le sorelle: Ginevra, Valenza e Isabella, anch'esse prima del 1353.

    Unica erede vivente, con interessi sardi, era la nipote legittima Violante, figlia di Brancaleone.

    Violante, ancora nubile, era un appetibile partito; ereditava, infatti, oltre ai possessi del padre e dei fratelli defunti (Bernabò morto nel 1341 e Nicolò verso il 1349), le terre e le ville dello zio in Anglona e cioè: Castelgenovese, Casteldoria, Coghinas e Chiaramonti. A lei, nel 1357, pensò Mariano IV per un possibile matrimonio col figlio Ugone, suscitando l'immediata reazione di Pietro I (IV d’Aragona) il Cerimonioso che temeva moltissimo l'unione fra gli Arborèa e i Doria.

    A questo punto del racconto compare, per la prima volta nelle vicende sarde, un giovane di vent'anni chiamato anch'egli Brancaleone.

    Era figlio illegittimo del grande Brancaleone Doria e di una certa Giacomina, nubile, di famiglia sconosciuta. Nacque nel 1337 non si sa dove, forse nell'isola.

    Non è che nel Medioevo la condizione di bastardo, specie se di padre illustre, fosse particolarmente disonorevole; si hanno esempi di persone che lottarono nella vita per avere il riconoscimento, anche solo formale, della loro discendenza irregolare (che poi, in qualche modo, si tramutava in rispetto sociale ed in vantaggi economici. Si ricorda il caso di Napoleone, figlio naturale di Giacomo I (II d'Aragona) e di una certa Gerolda siciliana, divenuto poi castellano di Gioiosaguardia e di Acquafredda in Sardegna).

    Purtuttavia, un illegittimo come Brancaleone è da considerarsi sempre una figura secondaria, un personaggio di umili origini e un partito di ripiego sebbene, dal complesso delle sue azioni, a posteriori, si possa definire un uomo se non proprio intelligente, almeno positivamente ambizioso e molto determinato; comunque degno della famiglia Doria della quale faceva ― bene o male ― parte, soprattutto quando il suo legame con Eleonora d'Arborèa lo portò alla ribalta della storia del Trecento.

    La sua fortuna ebbe inizio con i Catalano-Aragonesi allorquando, nell'aprile del 1357, il governatore del Capo di Logudoro, Bernardo de Cruïlles, avvertì Pietro il Cerimonioso che era urgente risolvere il problema dell'eredità di Matteo, favorendo in qualche modo l'illegittimo Brancaleone per far naufragare il matrimonio di Violante Doria con Ugo d'Arborèa che avrebbe unito pericolosamente le due casate sarde.

    Abbiamo tutta una serie di lettere, nell'Archivio della Corona d'Aragona in Barcellona, sulle trattative intercorse fra le autorità iberiche di Sardegna ed il giovane Doria miranti al suo riconoscimento come erede di Matteo contro i diritti di Violante. Inoltre, possediamo ben tre carte di legittimazione firmate dal re Pietro I (IV d’Aragona), fra il 1357 ed il 1359, che ci informano sui termini dell'accordo e sui successivi sviluppi.

    I capitoli del 16 marzo 1357 dicono: … il re perdona Brancaleone ed i suoi vassalli per le colpe che hanno commesso contro di lui, gli conferma le terre e i castelli che possedeva il defunto Matteo, suo zio paterno, nella stessa maniera in cui furono confermati a Brancaleone, suo padre, ora defunto. Brancaleone si impegna a dare a Violante un marito catalano o aragonese e a concederle in dote Castelgenovese, Casteldoria, Chiaramonti e l'Anglona. Egli stesso si impegna a sposare una catalana o una aragonese.

    Malgrado tante proposte matrimoniali di parte iberica ― fra cui quella di Bernardo de Guimerá ―, Violante sposò prima Luca Doria e poi, rimasta vedova, Corrado Doria, entrambi suoi lontani parenti. Lasciò la Sardegna e le sue pretese sull'Anglona ― non si sa a quali condizioni ― al fratellastro Brancaleone il quale, armato dei riconoscimenti regi, diventato feudatario ed alleato di Pietro I (IV d’Aragona), cominciò a salire d'importanza politica e sociale, ed a cercare moglie fra le donzelle della nobiltà catalano-aragonese.

    Curioso, però, come non riuscì a sposarne nessuna, quasi che tutte lo snobbassero. Cosi capitò con Bianca de Melany e con Clara, figlia del defunto Berengario de Vilaragut; in seguito con Violante, figlia dell'anch'egli defunto Pietro de Tous; infine ― sappiamo ― con la profuga Eleonora, figlia dello sventurato Giovanni d'Arborèa e di Sibilla de Montcada. Rimase scapolo fino al 1376, fino a quando finalmente si sposò, all'età di quasi quarant'anni, con la matura e forse infelice figlia maggiore di Mariano IV d'Arborèa: la futura regina-reggente Eleonora.

    Nel frattempo, si era accompagnato con una sconosciuta donna locale (chiamata Angela Melone in un'antica canzone popolare pubblicata nell'Ottocento dal can. Giovanni Spano) che gli aveva dato i figli illegittimi Giannettino e Nicolò.

    Mentre Brancaleone, in cambio della sua legittimazione e del riconoscimento dell'eredità sui territori sardi appartenenti al padre e allo zio, passava dalla parte del re catalano, la Repubblica comunale di Genova e gli altri Doria, per risolvere il contenzioso sardo, si erano affidati all'arbitrato di Giovanni II marchese di Monferrato e vicario imperiale. Quest'ultimo il 21 giugno 1360 stabili, fra l'altro, che fossero liberati i prigionieri genovesi di Porto Conte e che venissero restituite alla famiglia ligure tutte le terre che aveva nell'isola anteriormente al 1330, eccetto Alghero.

    Ma la sentenza fu impugnata da Pietro I (IV d’Aragona) e tutto ritornò in alto mare.

    Con Genova, la pace fu ancora una volta rimandata e firmata solo nel 1378.

    Nel contenzioso rientrava pure la proprietà di Casteldoria, spettante di diritto a Violante Doria, rivendicata dagli eredi di Cassano Doria ma occupata di fatto dai Catalano-Aragonesi che la riconoscevano per convenienza a Brancaleone Doria.

    Il governatore del Logudoro, Bernardo de Guimerá (quello che nel 1357 si era offerto di sposare Violante), aveva lasciato a guardia della rocca contesa i sardi Giovanni e Barisone Naitza (o Naviça) tenendone i figli in ostaggio per precauzione.

    Ai primi di aprile del 1361 i due Naitza si ribellarono; catturarono un'ambasceria del governatore e, la domenica 11, consegnarono la cittadina nelle mani di Gonario de Jana (o Deiana), rappresentante del donnicello Ugone d'Arborèa, che fece ammainare dalla torre più alta lo stendardo reale e lo sostituì con la bandiera dei Bas-Serra: un vessillo bianco con al centro un Albero verde deradicato e, sotto, il segno regio coi pali rossi catalani.

    È l'ultima volta che troviamo innalzate le Armi araldiche personali dei sovrani dell'Arborèa perché dopo compare, nelle memorie storiche, il solo emblema statale giudicale dell'Albero verde deradicato in campo bianco (= argento) senza alcun segno di dipendenza personale catalana (vedi il pantheon degli Arborèa a San Gavino Monreale).

    Al processo, subito intentato dal governatore del Capo di Logudoro ― e di cui si hanno i resoconti ―, alcuni dissero che i Naitza si sollevarono per riavere i figli; altri, invece, affermarono che si trattò di un vero e proprio tradimento perpetrato ai danni della Corona in cambio di una cifra in denaro pari a 4.000 lire.

    Evidentemente, nel 1361, gli Arborèa erano di nuovo in atteggiamento critico nei confronti dei Catalano-Aragonesi (cosa di sempre, dal momento che Mariano IV non pagò mai il censo feudale anche dopo la pace di Sanluri) e sul piede di guerra.

    Non si sa se e quando la rocca ritornò agli Iberici perché nel 1370 era ancora arborense; né si sa se questo fu il detonatore della ripresa delle ostilità.

    Fatto sta che tre anni dopo Mariano IV si proponeva al papa come candidato antiaragonese al trono di Sardegna e, nel 1365, riprendeva apertamente le armi facendo precipitare l'isola nel caos di una guerra che terminò, dopo cinquantacinque anni, nel 1420. Purtroppo, con la sconfitta e la fine dello Stato indigeno sardo.

    2. La ripresa della guerra.

    Gli avvenimenti militari che occupano gli anni dal 1364/65 al 1376, fino alla morte di Mariano IV, sono importanti ma senza risultati conclusivi.

    Rispetto alla fase del 1353/55 si ha l'impressione, ora, che il conflitto del 1364 abbia un carattere più nazionalista e diretto, con la partecipazione, deliberata in Corona de Logu, del popolo giudicale e della maggior parte dei Sardi regnicoli in rivolta; questo, perché la massima assise arborense ― come vedremo ― compare nell'effimera pace del 1388 e, per logica, si pensa sia stata presente anche all'apertura delle ostilità. Pure una lettera scritta nel 1378 dal re giudicale Ugone III al duca Luigi d'Angiò ― se si legge attentamente ― sembra confermare questa opinione: "… ché con i Catalani suoi nemici pubblici aveva una guerra a fatti, e non a parole, da quattordici anni e più (quindi dal 1364), senza alcun aiuto al mondo se non quello di Dio e della vergine Maria, madre sua, delle sue genti (rappresentate dalla Corona de Logu) e dei suoi denari...".

    Le ragioni profonde che spinsero Mariano IV a riprendere le armi e ad innalzare definitivamente gli stendardi statali con il solo Albero deradicato, senza segni di sottomissione feudale, sono di natura prettamente politica, in sintonia con una presunta coscienza nazionalista sarda notata nei comportamenti delle genti dell'isola a cominciare da allora e sino alla fine del Regno di Arborèa nel 1420 ed oltre. Si tratta dell'occasione, sfruttata dal re giudicale nel 1364, di farsi nominare dal papa Urbano V re del Regno di Sardegna al posto di Pietro I (IV d’Aragona) insolvente da due lustri del censo annuo di duemila marchi d'argento dovuti alla Chiesa per l'investitura di quel Regno in modo da aver l'appoggio dei Guelfi per combattere e scacciare i Catalano-Aragonesi dall'isola, invisi ormai a tutti i Sardi sia regnicoli che giudicali (… iudex Arboree surgessit summe pontifici et tractavit in Curia Romana quod dominus rex privaretur titulo Regni Sardinie et quod aplicaretur dicte iudici).

    La Chiesa, infatti, era sempre titolare del Regno, e lo poteva dare o togliere a piacimento, in caso d'insolvenza, com'è detto nella bolla d'infeudazione del 4 aprile 1297 in favore di Giacomo II: … ab eodem Regno Sardiniae et Corsicae ipso iure cadatis toto, et Regnum ipsum ad Romanam Ecclesiam eiusque dispositionem integre et libere revertatur.

    Mariano IV fu sul punto di ottenere la nomina, tanto che se ne parlava in Sardegna e nel continente come di cosa fatta (… et fuit publica vox et fama, quod prefatus iudex Arboree nominabatur rex Sardinie in pluribus locis tam in insula Sardinie quam in partibus terre firme).

    Purtroppo, il progetto per diverse ragioni non si realizzò; ma non per questo venne meno la carica combattiva contro gli Iberici. A questo proposito abbiamo la traduzione dal sardo al catalano ― riferita il 21 gennaio 1366 da un testimone siciliano, il visconte di Trapani, agli inquirenti del Proceso contra los Arborèa ―, di un curioso sermone pronunciato nel giugno 1365 dal medico giudicale maestro Corardo, nella chiesa di S. Nicola di Burgos o Gurgo, fuori le mura di Oristano, alle genti lì convenute (che ci ricorda l'allegoria scolpita nel capitello di destra della bifora esterna dell'abside della chiesa di S. Gavino martire, a San Gavino Monreale, dove si vede un cane che rincorre un cerbiatto mentre un uccello resta a guardare).

    Nel sermone, l'oristanese maestro Corardo predicava che il pontefice aveva concesso a Mariano IV di conquistare la Sardegna iberica, indicendo una crociata dei Sardi contro i Catalani. E proseguiva con una parabola molto colorita per incitare i Sardi a stare uniti e d'accordo con il re giudicale: … come i corvi ― diceva ― i quali non si fanno la guerra fra loro…, in quanto … crobu a crobu non bagat s’ogu (in pessimo catalano : … cor corbo a corbo non corba l.oxi ) ovverosia: … perché i corvi non si cavano gli occhi fra loro; infine concludeva: … non dovete essere in disaccordo col giudice perché, se lo sarete, verrà l'uccello che combatte i corvi. Viene e acceca i corvi. Ed è così che l'uccello è il re d'Aragona ed il giudice e voi siete i corvi. Perché se voi vi separate e non siete una cosa sola, il re caverà l'occhio al giudice e a voi. Mentre, se siete una cosa sola, non vi potrà far male. E perciò siate tutti uniti e non avrete danno dall'uccellagione. (…per que vosaltres e lo iutge no devets esser mal, car si.u erets vendria l.ocellas qui se batallen los corbs. Ve e axorba lo corbs; per que seria axi que lo aucellas es lo rey d.Arago, e lo iutge e vosaltres sots los corbs; per que si vosaltres vos contenents, e no sots una cosa, lo rey rebera l.otxo al iutge e a vosaltres. E axi siats tots una cosa e no.us cal dumptar de lo ocelatxo).

    Con questo spirito sardista, dal 1365 in poi troviamo le truppe dell'Arborèa – formate da popolani e da soldati di professione, italiani e stranieri … qui erant stipendiate in terra firma per iudicem – un po' dappertutto in territorio sardo-regnicolo, dall'Iglesiente al Cagliaritano, dalla Gallura al Logudoro, preferibilmente durante la bella stagione favorevole alle campagne militari. Perfino nei mari, una piccola flotta oristanese, comandata dal ventisettenne Ugo d'Arborèa, procurava noie e seri danni al naviglio mercantile catalano.

    Il primo attacco, che all'inizio sembrava diretto contro Castelgenovese, fu sferrato a sud, contro Sanluri, dove il 27 luglio 1355 Pietro il Cerimonioso vi aveva fatto innalzare in soli ventisette giorni un piccolo ma solido castello, destinato ad avere un ruolo importantissimo nella storia della fine della statualità dell'Arborèa perché attorno ad esso fu combattuta la grande battaglia del 30 giugno 1409 fra i Sardi giudicali ed i Catalano-Aragonesi, vinta purtroppo dagli Iberici (Cap. X, 3).

    All'inizio dell'estate del 1364 il governatore del Capo di Cagliari e Gallura, Asberto Satrilla, temendo un'incursione giudicale e preferendo prevenire il pericolo (… ante tempus occurrere quam post vulneratam causam remedium gerere), aveva cominciato a rinforzare la guarnigione del castello portandola a 15-20 unità al comando di Ughetto Sant Just (o di San Giusto), e dotandola di balestre e di dardi sufficienti a tenere in scacco un piccolo esercito per lungo tempo.

    L'anno seguente, nell'estate 1365, aveva ordinato di fortificare anche il borgo, e in settembre si era recato di persona nella villa per controllare i lavori. Lì il 18 ottobre, giorno di Santa Luca, fu sorpreso dalle truppe di Mariano IV scese improvvisamente in guerra, e costretto a rinchiudersi nel ristretto spazio del castello. Molti suoi funzionari dovettero restare fuori e furono catturati dai Sardi giudicali.

    Durante l'assedio furono uccisi – narrano le fonti – molti Catalani e Sardi regnicoli; fu impiccato nella forca del paese anche il povero Filippo della Sala, ultimo vicario pisano di Gippi e Trexenta, davanti agli occhi esterrefatti del governatore affacciato alle mura del fortilizio (Cap. VI, 4).

    Subito dopo, lasciato un contingente a proseguire l'assedio, il re giudicale, col figlio Ugone, si era diretto a Selàrgius per minacciare da vicino Castel di Cagliari.

    Era abbastanza facile, per Mariano IV, superare rapidamente le distanze nella pianura del Campidano sparsa di villaggi non fortificati ed abitati da gente più favorevole alla sua causa che a quella dei governanti iberici.

    Secondo la testimonianza di un mercante genovese di passaggio a Cagliari, un certo messer Luigi Donadio, il 25 ottobre (1365) gli Arborensi, raggiunto il capoluogo, attaccarono prima Stampace e, cinque giorni dopo, la zona sottostante Bonaria (press'a poco fra le odierne via Dante e via Sonnino), dove devastarono orti e bruciarono molte case di salinieri. Il testimone specifica che dall'alto della rocca aveva visto egli stesso il re giudicale in persona dar fuoco alle abitazioni insieme coi suoi terribili barbaricini (quibusdam sardis barbaraxinis), sicuro – soggiungeva – di poter occupare la città con l'aiuto del re di Castiglia Pietro I il Crudele, al quale aveva mandato suoi ambasciatori (… ad quem misisse nuncios et ambaxiatores suos).

    Disgraziatamente, Mariano d'Arborèa aveva sbagliato il momento per avvicinarsi al re di Castiglia. Pietro I era in piena guerra civile con il fratellastro Enrico II di Trastàmara – quest'ultimo sostenuto, ovviamente, dall'Aragona e dalla Francia – e si trovava allora in una fase di difesa più che di offesa; cosicché, il suo contributo fu del tutto inefficace nello scacchiere bellico sardo. E tale rimase anche dopo l'effimera vittoria di Nájera del 3 aprile 1367 e fino alla sua morte violenta avvenuta il 23 marzo 1369 per mano del fratellastro.

    I documenti inediti del Proceso contra los Arborèa fanno risalire al marzo del 1359 il progetto di Mariano IV di approfittare della discordia fra Pietro il Cerimonioso e Pietro il Crudele per prendere Castel di Cagliari "… perché – diceva – io so che il re d'Aragona ha perso la battaglia col re di Castiglia (…car jo se que.l rey d.Arago ha perduda la batalla ab lo rey de Castella).

    Quella primavera stessa Castel di Cagliari – secondo un suo piano – sarebbe dovuta cadere in suo potere per frode.

    Il re giudicale aveva comprato, per quaranta fiorini d'oro di Firenze, la complicità di un certo Giovanni Sardo (o Sart), amico dei Catalani, il quale, ad una cert'ora di un certo giorno, avrebbe dovuto aprire la porta cagliaritana di San Pancrazio ad un manipolo di dieci Sardi arborensi. Il resto è intuibile.

    Preso il capoluogo, sarebbe stata la volta di Sassari e di tutte le altre città regnicole dove ancora abitavano gli indigeni. Il re giudicale confidava, evidentemente, sul loro sentimento antiaragonese o su un nascente spirito nazionalista. Lo si deduce dalla frase che avrebbe detto a Giovanni Sardo mentre gli esponeva il suo progetto: "...per quanto riguarda Alghero non ci si può far niente perché non vi sono Sardi. Ma appena avrò Castel di Cagliari chiederò a Genova d'inviarmi quaranta o cinquanta galere e, così, avrò anche Alghero.".

    Si sa che Mariano IV devastò le appendici di Stampace, Lapòla e Villanova ma non riuscì ad occupare la rocca di Castel di Cagliari.

    Però, dicono i documenti, … è noto che fece ribellare contro la Corona tutti i Sardi del Cagliaritano e della Gallura..

    Infatti, pare che durante la permanenza di Mariano d'Arborèa sotto le mura di Castel di Cagliari anche Villa di Chiesa sia insorta contro i Catalano-Aragonesi e che si sia data ai Sardi giudicali guidati da Alibrandino Atzeni. Lo disse il 2 gennaio 1366 un certo Michino Mastino di Bosa, con molti particolari sulla composizione dell'esercito arborense formato da circa centocinquanta soldati di professione: tedeschi, inglesi ed italiani, e dalle mute sarde indigene in avvicendamento.

    Intanto, con rito sbrigativo – entrando in fila dalla porta principale della chiesa di Sanluri e uscendo dal retro – avevano giurato fedeltà a Mariano IV gli uomini del Sulcis, del Sigerro, del Campidano di Cagliari, del Sàrrabus, dell'Ogliastra e della Gallura, accogliendo di buon grado nei loro paesi gli ufficiali giudicali.

    Anche il castello di Sanluri era diventato arborense. Si era arreso ai primi del 1366 o anche prima. Non si sa come abbia fatto il governatore Asberto Satrilla a fuggire dal forte assediato; ma è certo che poco tempo dopo era riuscito a raggiungere il castello di Acquafredda e, di lì, Castel di Cagliari.

    "Comunque – dice la fonte – fin dal novembre (1365) tutta la Sardegna era all'obbedienza del judike, eccetto Castel di Cagliari, Sassari e Alghero.".

    Poiché la situazione per i Catalano-Aragonesi del Regno di Sardegna si stava facendo insostenibile, Pietro I (o IV) il Cerimonioso sospese momentaneamente l'endemica guerra con la Castiglia nel febbraio 1368 e organizzò una grossa spedizione militare da mandare nell'isola al comando di Pietro Martínez de Luna, buon condottiero, imparentato con Mariano IV d'Arborèa tramite la sorella Bonaventura moglie di Pietro de Exèrica (o Xèrica), ed appena riscattato dalla prigionia castigliana dopo la sconfitta di Nájera del 1367.

    3. Morte di Mariano IV d’Arborèa.

    Il Martínez de Luna, già sostenitore della linea dura nel '54, non perse tempo: sbarcato a Castel di Cagliari nel giugno del 1368 si diresse subito contro Oristano. Violando nottetempo il sistema difensivo arborense, che al meridione allineava i castelli di Arquentu, Monreale e Las Plassas, giunse dalla parte di Santa Giusta nei pressi della capitale giudicale e la cinse d'assedio.

    Aveva con sé 500 cavalieri, 1.500 fanti e numerosi balestrieri potenziati dai contingenti di stanza nell'isola agli ordini di Berengario Carròs; a loro aveva aggregato, poi, anche alcune soldatesche castigliane e alcuni sardi regnicoli di Figulina comandati dai fratelli Lorenzo e Giovanni Sanna.

    Si può immaginare l'emozione degli Oristanesi in quel frangente, ed il fermento della città in armi. Lo stesso Mariano, vigoroso uomo sulla cinquantina, dirigeva le operazioni di difesa ed impartiva ordini alle truppe sugli spalti. Le donne probabilmente pregavano.

    Eleonora, se non era già nel castello di Monreale o in quello di Burgos, residenze estive della famiglia, viveva in Oristano quei momenti di turbamento. E, certo, si recava trepida nella vicina chiesetta del monastero di Santa Chiara – dov'era la tomba della zia Costanza di Saluzzo, fondatrice dell'edificio – per invocare insieme alle suore la grazia del Signore. Aveva ventott'anni.

    Che siano state le preghiere o che sia stato il valore, l'assedio non durò che poche settimane, perché arrivò in aiuto il donnicello Ugone con i presidii sardi delle località regnicole occupate ed impegnò i Catalano-Aragonesi nei pressi di Sant'Anna, mentre Mariano, uscito con gli Oristanesi dalla Port'a Mari, attaccava i nemici alle spalle.

    Fu, per gli Iberici, una totale sconfitta. Morirono sul campo lo stesso Pietro Martínez de Luna ed il fratello Filippo. Scampò alla strage Berengario Carròs che con qualche manipolo riuscì a riguadagnare Castel di Cagliari.

    Il 2 aprile 1369, lunedì di Pasqua, Pietro I (IV d’Aragona) annunciò a Barcellona di voler muovere di persona contro Mariano IV. Era imbaldanzito dalla recente notizia della morte dell'eterno rivale Pietro I di Castiglia, pugnalato dal fratellastro dieci giorni prima nel castello di Montiel; ma la spedizione militare, questa volta, non si realizzò.

    Sono molto interessanti e singolari i pensieri del re catalano, scritti di suo pugno all'indomani della sconfitta di Oristano in un quaderno edito nelle sententiae curiarum che si conserva nell'Archivio della Corona d'Aragona di Barcellona.

    Dopo una serie di citazioni bibliche esemplari, Pietro il Cerimonioso concludeva – con prosa altisonante alternata a quartine di rime baciate – che Mariano IV d'Arborèa era da condannare perché "… colpevole d'irriconoscenza almeno quattro volte: 1°) verso Dio, dal momento che voleva diventare re di Sardegna mentre l'Altissimo aveva voluto che il re fosse lui (quindi, cercare di cacciarlo dall'isola e voler regnare al suo posto era come andare contro Dio); 2°) verso il suo maestro, Alfonso il Benigno, in quanto quel re lo volle presso di sé a Barcellona perché imparasse ad amare la Nazione catalana e non ad odiarla come ora faceva; 3°) verso suo padre (Ugone II) perché non ne aveva seguito l'esempio e la raccomandazione di conservarsi sempre fedele e leale servitore della Corona; 4°) verso il suo signore – Pietro stesso – perché era venuto meno al suo giuramento di fedeltà, facendo lega con il re di Castiglia per togliergli la Sardegna (per tolre nos Sardenya). Cosa – aggiungeva – accettata di buon grado dai Sardi perché erano un popolo povero di senno che non capiva che il vero re era solo lui (… e lo poble d.aquella isla, lo qual es pobre de sen, e mostra ho be cor a indicions falses del iutge, iaquexen nos qui som lur senyor natural ...).

    Press'a poco nello stesso periodo, negli anni attorno al '70, compariva nell'araldica europea un Indice dei Blasoni, compilato da un certo Claus Heinem fra il 1370 e il 1386, che c'interessa da vicino.

    Il foglio 62 v. del manoscritto, oggi conservato nella Bibliothèque Royale di Bruxelles (n° 15652-56), contiene, fra gli altri, uno stemmario del sovrano della Corona d'Aragona e degli Stati in unione da lui dipendenti, compresa la Sardegna regnicola la quale ha disegnata, come attributo di personalità, una bandiera quadrata con una testa sbendata di Moro rivolta all’asta, inquartata in croce rossa in campo bianco (o argento) e, sotto, la scritta Sardeugne (Sardegna).

    Si fa notare che non si tratta di quattro Mori, come tutti credono, ma di una sola testa di Moro (quella del re saraceno Abderramen vinto e ucciso nella battaglia di Alcoraz nel 1096) ripetuta euritmamente quattro volte.

    è la prima volta che vediamo attribuito alla nostra terra l'emblema che fu degli Aragonesi (vedi Introduzione) e che, oggi, è il simbolo della nostra Regione mantenuto fino al 1999 con la variante della benda sugli occhi dei Mori.

    Quando questa variante negativa sia stata apportata durante il Regno di Sardegna, e perché, non si sa con precisione. Il filone principale della tradizione iconografica mantiene i Mori coronati o bendati sulla fronte, in segno di regalità, fino al 23 marzo 1848, allorquando lo Stato, nell’imminenza della prima guerra risorgimentale contro gli Austriaci del Regno Lombardo-Veneto, con intento aggregativo nazionalista peninsulare li sostituì col Tricolore verde-bianco-rosso e, al centro, lo stemma sabaudo (quindi, la bandiera oggi detta italiana, senza stemma sabaudo, non è quella nata a Reggio Emilia il 7 gennaio 1796, che, pur avendo gli stessi colori verde-bianco-rosso, fu distintiva di uno Stato – la Repubblica Cispadana – il quale visse appena sei mesi).

    Dopo il 1848 i Quattro Mori caddero in disuso nel Regno di Sardegna, poi Regno d’Italia (la Marina, però, li mantenne almeno fin quasi alla fine dell’Ottocento).

    Nel 1920 il Partito Sardo d’Azione, appena costituito, riesumò come proprio stemma i Quattro Mori, ma, invece di scegliere la versione ortodossa offerta dall’iconografia tradizionale, si rifece ad alcune immagini equivoche del Cinquecento, in cui i Mori (in realtà un solo Moro inquartato) erano rappresentati – pare per cattiva impressione tipografica – con la benda sugli occhi, che è segno di sottomissione. E, in questa forma alterata, i Quattro Mori sono passati a rappresentare, con legge del 19 giugno 1950, pure la Regione Autonoma della Sardegna, fino a quando, dietro nostra personale insistenza, su proposta del consigliere regionale Salvatore Bonesu (Psd’Az), il 3 marzo 1999 il Consiglio regionale ha deliberato di trasformare il suo gonfalone in bandiera, ma con l’emendamento dell’on. Marco Tunis (Fi) che, finalmente, ha tolto la benda dagli occhi dei Quattro Mori ma voltati all’esterno.

    Tornando alla nostra storia, nel 1369 vinceva Mariano IV d'Arborèa nella lotta contro i Catalano-Aragonesi.

    Il re giudicale, dopo la vittoria su Pietro Martínez de Luna, sicuro del non intervento personale di Pietro I (o IV) in Sardegna (aveva spie dappertutto, perfino a Corte), aveva attaccato Sassari e, dopo un lungo assedio, l'aveva occupata inserendola nel sistema curatoriale arborense in cui rimase per circa cinquant'anni.

    Poi, si era rivolto contro Òsilo alla testa di molti soldati di professione e di contingenti giudicali organizzati in mute (gens de muda).

    Per cercar di salvare in qualche modo la situazione o, quanto meno, per renderla meno pressante, il governatore del Capo di Logudoro, Dalmazzo de Jardí, invitò Brancaleone Doria a correre in suo aiuto con trecento militi, fra cavalieri e fanti, dandogli in cambio 3.000 lire di alfonsini minuti.

    Brancaleone "… dichiarò pubblicamente la guerra al judike" nell'ottobre 1369, e ne informò il re catalano tramite due suoi ambasciatori: il canonico Nicola Cherchi e mossen Bartolomeo Pereda. Il suo apporto, però, fu minimo.

    Mentre Mariano d'Arborèa si trovava momentaneamente ad Oristano, forse al capezzale della nuora morente (l'anonima moglie di Ugone, figlia di Giovanni III di Vico prefetto di Roma), il Doria uccise o ferì nelle campagne di Òsilo sette soldati giudicali e ne catturò cinque, inviandoli in catene a Monteleone (Roccadoria) insieme con 14 cavalli e 900 pecore razziate.

    La sua fu, più che altro, una misera guerra del bestiame, continuata quando i Bosani rapirono due mandrie agli abitanti di Monteleone, ed una mandria a quelli del castello di Càpula (Bonnanaro).

    Chi non è avvezzo ai valori medioevali ed è pregno d'immagini letterarie, resterà deluso nel leggere talvolta dell'esiguità dei contingenti, della semplicità dei fatti e della pochezza degli episodi d'armi durante la lunga lotta fra l'Arborèa e la Corona d'Aragona.

    Eppure, in tutte le guerre europee del tempo erano scarsi i grandi spostamenti di masse, poche le battaglie campali e rare le imprese eroiche, giustamente ricordate come avvenimenti eccezionali dalla tradizione popolare, dall'epica e dalla cinematografia moderna. Della ventennale Guerra del Vespro, per esempio, resta nella memoria solo la rivolta siciliana della Pasqua del 1282; dell'estenuante Guerra dei Cent'anni è celebrata la battaglia di Azincourt (1415) e sono esaltate le gesta singolari di Giovanna d'Arco a Orléans (1429); il resto è fatto spesso di insignificanti scaramucce estive, di vuote azioni dimostrative, d'inconcludenti scorrerie.

    Comunque, Mariano d'Arborèa, in quegli anni, era deciso a profondere tutte le sue energie ed a vincere la guerra.

    In Oristano si era appena spenta la povera nuora che già il re giudicale s'apprestava ad invadere in forze il Logudoro. Sappiate – scriveva il governatore settentrionale Dalmazzo de Jardí al Consiglio regio di Barcellona il 21 dicembre 1369 – che la moglie di Ugo d'Arborèa è morta, e, soggiungeva malignamente: … che Dio le dia subito la compagnia di suo marito e di suo suocero perché essi sono pronti a venire con un grande esercito in questo Capo di Logudoro (… trobarets que la muller d.en Huguet es morta. Deus li do tost marit e son sogre per companya, los quals eren ja aperplegats ab gros poder per venir en aquest Cap, no se que.s faran).

    Il 28 marzo 1370 le truppe giudicali entrarono in Òsilo, l'antico borgo dei Malaspina, sovrastato da un imponente castello; ma il 1° aprile furono sconfitte dalle milizie di Brancaleone Doria fra Monteleone ed Alghero.

    Non molto tempo dopo, in novembre, ci fu una tregua fra Brancaleone e Mariano, durata almeno fino all'aprile dell'anno successivo; e, forse, in quell'occasione si cominciò a parlare della possibilità di un matrimonio fra lo stesso Brancaleone ed Eleonora, figlia maggiore del re giudicale, poi realizzato non prima dell'estate del 1376 perché sappiamo che in quel periodo il Doria, dopo aver difeso Alghero dagli attacchi degli Arborèa, lottava ancora in favore del re d'Aragona. D'altronde, che le nozze non siano avvenute prima dell'autunno 1376, a parte ogni considerazione d'ordine politico-militare, lo dimostra il fatto che quando Brancaleone Doria ed Eleonora d'Arborèa vennero chiamati a governare ad Oristano, nel 1383, avevano i due figli ancora piccoli, di quattro e sei anni, perfettamente in accordo con la data da noi ipotizzata per lo sposalizio.

    Intanto, poiché Castel di Cagliari e Alghero – le due città del Regno sardo-iberico – resistevano validamente ai Sardi giudicali insieme con i castelli di San Michele, Gioiosaguardia e Quirra, Pietro il Cerimonioso rinunciò ancora una volta a venire in Sardegna, come aveva nuovamente annunciato nel 1370. Organizzò, invece, una spedizione militare di seimila armati, al comando di Gualtiero Benedetto, la quale, non si sa come, si disperse nell'autunno del 1371 in un punto imprecisato del continente, creando un autentico mistero che gli storici, ancora oggi, non hanno risolto.

    Nel 1374 Genova, nemica del re d'Aragona e di Brancaleone Doria, tentò di aiutare Mariano d'Arborèa bloccando con quaranta galere il porto di Castel di Cagliari, mentre i Sardi attaccavano la città dalla parte di terra.

    Ma tutti gli sforzi furono inutili. Nessuna fortezza catalano-aragonese di Sardegna si arrese più, e Mariano IV morì nel 1376, forse per la peste scoppiata furiosa l'anno prima, senza realizzare il suo sogno di unità nazionale.

    Aveva circa cinquantasette anni. Nel pantheon di San Gavino è ricordato fiero, con la corona in testa, la mascella volitiva, il naso diritto e gli occhi severi, mentre stringe con la sinistra lo scettro regale e reca a lato uno scudo gotico araldico col simbolo del suo Stato: l'Albero deradicato.

    4. Ugone III d’Arborèa.

    Gli subentrò, secondo le regole successorie osservate dalla Corona de Logu, il figlio Ugone, quasi quarantenne, terzo di tal nome in Arborèa.

    La figura e la personalità di questo sovrano – la cui effige, con la corona in testa, è scolpita anch'essa in uno dei peducci pensili dell'abside della chiesa di S. Gavino martire a San Gavino Monreale – è strana e per molti versi oscura.

    Quand'era donnikellu e combatteva contro i Catalano-Aragonesi del Regno di Sardegna, nei castelli occupati venivano cantate lodi in suo onore dai soldati e dai Sardi delle campagne (diceva un teste del Proceso contra los Arborea che … audivit laudes et preconia ad honorem dicti Hugonis laxis fibriis resonari in castris).

    In tutte le azioni militari, al tempo del padre, s'avverte la sua presenza – sia in mare che in terra – mai ambigua o sospetta: evidentemente era seguìto e stimato da tutti.

    Ma da monarca il suo carattere sembra farsi scontroso e torvo, poco incline alle sottigliezze e alle formalità, tutto teso alla lotta "per la salvaguardia della comunità", com'egli stesso fece incidere nella campana della chiesa di S. Francesco di Oristano nel 1382 (ALPHA ET OMEGA. MENTEM SANCTAM SPONTANEAM HONOREM DEO ET PATRIE LIBERACIONEM HOC OPUS FECIT FIERI FRATRIS CHISTOFORI ET VENERABILIS FRATRES HELIE RENNANTE DOMINO UGHONE IUDEX ARBOREE TERTIO. ANNO DOMINI MCCCLXXXII. MARCUS DE PERUSIA ME FECIT).

    Forse, fu veramente … un crudele e un tiranno oltre il normale metro medioevale, come dicono le fonti iberiche. Tant'è che alcuni importanti personaggi e ufficiali arborensi abbandonarono la sua Corte e passarono al nemico. Fra costoro vi furono l'ex maggiordomo Giovanni de Ligia e il figlio Valore i quali, in ricompensa del loro tradimento e delle informazioni sui piani di guerra del re giudicale, nel 1378 ricevettero dal re catalano il feudo nominale del Marghine, Goceano, Costavalle, Barigadu e Guilcier (naturalmente se e quando quei territori fossero venuti un giorno in mano catalano-aragonese. Cosa che era ben lontana dal realizzarsi, come vedremo nel Cap. XI, 4).

    Ugone III, intanto, cercava alleanze in Sardegna e nel continente europeo.

    Se le nostre supposizioni son giuste, fu lui che nell'autunno del 1376, subito dopo la morte del padre, riuscì a intavolare o, quantomeno, a definire con Brancaleone Doria un'intesa politica comprendente anche il matrimonio della sorella Eleonora: accordo importantissimo che, oltre a risolvere un problema domestico intuito non facile, toglieva alla Corona d'Aragona un prezioso alleato e permetteva all'Arborèa di mantenere le sue conquiste isolane.

    All'atto di salire sul trono di Oristano, Ugone era già vedovo da sette anni. Si era sposato nel 1362 con una figlia anonima di Giovanni III di Vico, signore di Viterbo e prefetto di Roma, che gli aveva dato una bambina, Benedetta, ed era morta, come si ricorderà, nel dicembre del 1369.

    Stranamente – e benché ancora trentaduenne – l'allora donnikellu non aveva contratto nuove nozze né si era legato a qualche concubina (caso comune nella storia giudicale) per assicurarsi una discendenza maschile diretta, ben conoscendo il ruolo istituzionale secondario delle donne – e, quindi, della figlia – quando sarebbe venuto il momento di succedergli.

    Nel 1376, anno dell'intronizzazione del padre, Benedetta aveva circa tredici anni, ed era quasi in età da marito, secondo i canoni medioevali. Nell'ambito di una conveniente alleanza con Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia Carlo V di Valois, nel 1377-78 a Oristano fu esaminata la possibilità di darla in moglie al figlio omonimo del duca, che all'epoca aveva poco più di un anno. Il matrimonio, secondo le parole dello stesso Ugone, era ridicolo (ridicolosum) anche per la ragion di Stato, perché Benedetta – che nell'abside di San Gavino vediamo giovinetta con le treccine raccolte sul capo – era già grande (… iam ad annos nubiles deducta), mentre il figlio di Luigi I era infante (anniculus); per cui, diceva il re giudicale, la loro unione sarebbe mal riuscita (dictum matrimonium non bene sortiretur effectum); tanto più che Ugone desiderava, un giorno, circondarsi di nipotini.

    Però il progetto non fu scartato per questo; ma cadde, più che altro, per mancanza di seri intendimenti da parte angioina.

    Per l'inadempienza del duca francese naufragò pure l'accordo politico che mirava a guadagnare ad Ugone III d'Arborèa il Regno di Sardegna ed a Luigi d'Angiò il Regno di Maiorca col consenso del papa Urbano VI, entrambi a scapito della Corona d'Aragona.

    Di quel fallito tentativo diplomatico ci è rimasta, fortunatamente, la bellissima relazione del viaggio – iniziato il 4 agosto e concluso il 13 ottobre 1378 – scritta dal notaio Raimondo Mauranni venuto al seguito degli ambasciatori francesi Migon de Rochefort e Guglielmo Gain nella seconda visita all'infuriato judike di Oristano, durata lo spazio di un giorno, dalle sei pomeridiane di lunedì 30 agosto alla sera del martedì 31, quando, temendo addirittura per la propria vita, la delegazione lasciò in tutta fretta le terre di Ugone e si imbarcò per Marsiglia.

    Uno dei passi più interessanti della colorita cronaca – tradotto da noi dal latino – riferisce:

    "… Il lunedì, trentesimo giorno del detto mese di agosto, (gli ambasciatori,

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