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Gerberto d’Aurillac. Silvestro II
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Gerberto d’Aurillac. Silvestro II

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Gerberto d’Aurillac è uno dei personaggi più significativi apparsi in Europa nel X secolo. Ebbe contatti con i grandi del tempo e lui stesso divenne tale percorrendo tutto il cursus honorum di un uomo di Chiesa sino ad essere eletto papa con il nome di Silvestro II. Egli fu il papa dell’ anno Mille. Con la sua abile politica riuscì a orientare verso la Chiesa romana i popoli dell’Est europeo, combatté contro i facili costumi del clero; fu dapprima lo “scolastico” più colto del suo tempo, colui a cui i sovrani si erano affidati per l’educazione dei loro eredi, e fu uno studioso, fu colui al quale si deve “il risorgimento delle lettere in Italia, nel regno franco e nell’Impero”, considerati i tanti “scolastici” da lui educati alle scienze. Fu uomo che seppe coniugare scienza e fede senza vedere contrasti tra le due discipline. Anzi fu assertore convinto della possibilità che fede e ragione camminassero di pari passo verso l’Eterno.
LanguageItaliano
Release dateMay 29, 2011
ISBN9788897010050
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    Gerberto d’Aurillac. Silvestro II - Luca Montecchio

    LUCA MONTECCHIO

    Gerberto d’Aurillac

    Silvestro II

    I edizione, giugno 2011

    ©  Graphe.it Edizioni di Roberto Russo 2011

    tel 075.50.92.315 – fax 075.58.37.286

    www.graphe.it • graphe@graphe.it

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

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    Edizione digitale: maggio 2011

    ISBN: 9788897010050


    Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl


    Sommario

    Introduzione

    Da Cluny all’impero ottoniano Religione, cultura e politica

    Le scuole monastiche

    L’impero

    La vita di Gerberto d’Aurillac dalla nascita sino al 982

    Breve passaggio in Italia

    L’insegnamento di Gerberto a Reims

    Gli allievi di Gerberto

    Il periodo di Gerberto a Bobbio

    L’insegnamento di Gerberto a Bobbio

    Gerberto monaco

    Gerberto d’Aurillac e le più importanti figure femminili del secolo X

    Secondo periodo di Gerberto a Reims

    La situazione a Reims cambia

    Il concilio di S. Basle

    Ultimi mesi a Reims

    Gerberto e Ottone III

    L’ideale della Renovatio imperii romanorum

    Gerberto arcivescovo di Ravenna

    Papa Silvestro II

    Silvestro II, papa del I Giubileo?

    Gli avvenimenti del 1001

    La rivolta di Tivoli

    Le opere di Gerberto d’Aurillac

    L’opera scientifica di Gerberto d’Aurillac

    Opere teologiche

    Opere filosofiche

    Poesie

    Opere di carattere storico

    Le lettere

    Conclusione

    Bibliografia

    Fonti manoscritte

    Fonti edite

    Raccolte di fonti

    Letteratura storica

    Introduzione

    Gerberto d’Aurillac è uno dei personaggi più significativi apparsi in Europa nel X secolo. Come si vedrà egli ebbe contatti con i grandi del tempo e lui stesso divenne tale percorrendo tutto il cursus honorum di un uomo di chiesa sino ad essere eletto papa con il nome di Silvestro II. Egli fu il papa dell’anno Mille. Con la sua abile politica riuscì a orientare verso la chiesa romana i popoli dell’Est europeo, combatté contro i facili costumi del clero; fu lo «scolastico» più colto del suo tempo, colui a cui i sovrani si erano affidati per l’educazione dei loro eredi, e fu uno studioso, fu colui al quale si deve «il risorgimento delle lettere in Italia, nel regno franco e nell’impero», considerati i tanti «scolastici» da lui educati alle scienze¹. Ma allora come mai per secoli gli studiosi sembrano essersi dimenticati di questo grande personaggio? Come mai gli stessi uomini di chiesa lo hanno ignorato, quasi egli avesse commesso chissà quali nefandezze? È presto detto: Gerberto d’Aurillac è stato un personaggio spesso scomodo quando era in vita, ma ancora di più lo è diventato da morto. Da vivo fu considerato tale soprattutto dai nobili, dal clero e, a volte, anche dagli imperatori che si susseguirono durante la sua avventura terrena, perché, nonostante avesse il pregio della prudenza, qualità fondamentale per un uomo chiamato a ricoprire importanti cariche sia in ambito pubblico, sia diplomatico, ma anche – com’è ovvio – religioso, era ritenuto troppo rigoroso e il rigore è una qualità generalmente poco apprezzata da uomini che fanno del compromesso o, peggio, della doppiezza e dell’inganno le basi della loro esistenza. Ma persino il popolo vedeva in lui un papa assai inconsueto, strano, eccentrico, oltre che troppo legato all’impero: Silvestro II era il papa che «guardava le stelle» e un pontefice che sapeva di astrologia con facilità, in un’epoca dominata dalla superstizione, sarebbe potuto passare per mago. Da morto fu, in un primo momento, rivalutato da papa Sergio IV², che subito negò con sdegno l’insinuazione che Silvestro II si fosse mai dedicato alla magia. Dopo alcuni anni però venne inferto un colpo durissimo alla figura di Gerberto: nel bel mezzo dell’infuriare della lotta per le investiture il cardinale scismatico Bennone, per screditare la chiesa romana, pensò bene di attaccare alcuni dei suoi uomini più rappresentativi, tra questi papa Silvestro II. Bennone nella Vita et Gesta Hildebrandi³ affermò che Gerberto, rifugiatosi dal regno franco in Spagna, aveva appreso, a Siviglia, proprio dagli arabi, le arti magiche e la negromanzia. Queste affermazioni pesarono pertanto come un enorme macigno sulla figura di Gerberto d’Aurillac, perché la chiesa non si preoccupò di verificarne la veridicità, ma solo di far dimenticare che fosse mai esistito un Silvestro II cui esse erano attribuite. E infatti solo a partire dalla fine del XVI secolo alcuni «coraggiosi» studiosi si azzardarono a rivisitare quella figura. Probabilmente, infatti, solo chi apparteneva a una società investita dal Rinascimento poteva riproporre le opere di un uomo di chiesa del X secolo, studioso di matematica, di astronomia e di astrologia, materie queste ultime ritenute, nell’epoca degli studia humanitatis e delle grandi scoperte geografiche, di grande importanza. Ecco dunque gli studi su Gerberto del cardinale Baronio⁴, del Suarez⁵, dello Bzovio⁶; a Silvestro II faranno poi riferimento il Vittorelli⁷, lo Zaccaria⁸, sino ad arrivare alla prima biografia di Gerberto pubblicata a metà del XIX secolo da C. F. Hock⁹. Ma dové passare quasi un altro secolo prima che si analizzasse scientificamente l’importantissimo contributo che Gerberto aveva dato in qualitàdi scolastico, cosa che in tempi recenti ha fatto il Riché. Un’analisi approfondita e complessiva sul suo pontificato, tuttavia, manca ancora e probabilmente il motivo di tale lacuna può ricercarsi pure nel fatto che non sono stati a tutt’oggi interamente riordinati tutti i codici e le carte del X e del primo XI secolo; si può quindi ragionevolmente ritenere che anche nella Biblioteca Apostolica Vaticana possano trovarsi fonti che potrebbero essere utilizzate all’uopo.

    Con quest’opera ci siamo dunque proposti di rielaborare tutto quanto sin qui scritto su Gerberto in modo da dimostrare, una volta accertata l’inconsistenza delle accuse circa le sue presunte capacità di mago, tutto l’autentico suo valore, e inoltre per mettere in luce le inconsuete avventure di quella vita. Ci siamo serviti, in questo senso, dell’epistolario di Gerberto¹⁰, opera principe per ricostruire i rapporti da lui tenuti con i grandi dell’epoca (grandi personaggi che, o sono stati suoi allievi, o lui ha comunque avuto modo di conoscere) e per cercare di studiare l’infaticabile studioso, tutto teso a vivere secondo i dettami cluniacensi. Le lettere di Gerberto permettono al lettore di penetrare il carattere, sovente spigoloso, del benedettino così legato al potere della casata imperiale di Sassonia ma, al contempo, così profondamente e pervicacemente desideroso di indipendenza rispetto ai potentati stessi. Oltre che sul suddetto epistolario, ci baseremo sugli autori sopra citati e sul Richerius, coevo e allievo di Gerberto, nonché autore degli Historiarum libri quattuor, opera questa fondamentale per la conoscenza degli avvenimenti del IX e X secolo. Di qualche interesse si è rivelata anche la consultazione dei tre Codici Vaticani Latini, al cui interno è compresa una serie di fogli in cui sono contenute copie manoscritte cartacee del secolo XVII di codici del secolo X e del secolo XI riguardanti l’attività di Gerberto quale arcivescovo di Reims, arcivescovo di Ravenna e quindi papa; inoltre, in questi manoscritti, abbiamo potuto analizzare anche alcuni passi che attestano l’attività del primo papa tedesco, Gregorio V. Questi Codici recano la segnatura Vat. Lat. 9864, ff. 220-263; Vat. Lat. 9866, ff. 53-79; Vat. Lat. 9867, ff. 271-286. Nel primo di questi, ossia nel Cod. Vat. Lat. 9864, i fogli che vanno dal n° 220 al n° 263 trattano dei tre anni del pontificato di Gregorio V e dei primi tempi del pontificato di Silvestro II e, in particolar modo, si soffermano sulla posizione assunta dal papa nei confronti dell’arcivescovo di Reims, Arnolfo; nel Cod. Vat. Lat. 9866 è invece preso di mira il lasso di tempo che va dal 989 all’anno Mille; infine nel Cod. Vat. Lat. 9867 sono conservate copie di documenti che testimoniano la celebrazione di taluni Concilii nell’anno Mille, Concilii già esaminati invero, in maniera esauriente, dal Mansi¹¹. Supponiamo che, in genere, i Codici suddetti, copie di codici precedenti, coevi ai personaggi di cui ci occupiamo, siano stati analizzati e tenuti presenti anche da alcuni tra gli studiosi sopra citati: soprattutto, oltre al Mansi, ci riferiamo al Baronio e al Suarez. Infatti, nei detti fogli, non si trovano grosse novità sull’attività di Silvestro II pur se contengono più di un cenno di cui ci siamo avvalsi nel nostro lavoro e che citeremo al momento opportuno. Piuttosto è interessante notare come nel Cod. Vat. Lat. 9864, nei ff. in cui viene trattato il pontificato di Gregorio V, ossia gli anni 972-999, non si faccia menzione della cacciata del papa da Roma da parte di Crescenzio Nomentano. Possiamo pertanto azzardare in proposito che, essendo questo un episodio poco edificante della storia del papato, il copista abbia voluto soprassadere appositamente, per mettere in valore solo ciò che poteva tornare in maggior gloria al papato.

    A noi, dunque, dopo aver consultato le suddette copie secentesche di codici risalenti al secolo X e all’inizio del secolo XI, nonché tutta la letteratura storica riguardante Gerberto d’Aurillac, non resta che sperare che il presente lavoro possa rappresentare un serio avvio perché, nella storia del X secolo, la figura di Silvestro II acquisti pienamente la posizione che gli compete. Così che, accanto alle opere degli storici tedeschi, tutte volte all’esaltazione di Ottone III¹², se ne pubblichino altre che, senza nulla togliere al grande imperatore, diano il giusto risalto ad un pontefice interessante e inconsueto come fu Silvestro II, dotato di una cultura e di una finezza di intenti fino ad allora sconosciuta in ambito ecclesiastico, un pontefice in grado di porre problemi che sarebbero stati ritenuti attuali, e quindi più concretamente affrontabili, solo molti secoli dopo.

    Luca Montecchio

    Nel 909 il concilio di Trosly aveva deplorato con durezza la decadenza della disciplina in ambito monastico ma non aveva saputo fare proposte atte a porre rimedio a ciò¹.

    Tra il 909 e il 910 a Cluny in Burgundia venne fondato un monastero dal duca di Aquitania, Guglielmo il Pio, il quale si dimostrò uomo di azione oltre che di pensiero. Quel cenobio in tempi invero rapidi, nei due secoli successivi, assunse una posizione di dominio nel monachesimo altomedievale. Il duca finché visse fu sempre pronto a proteggere quel monastero che venne «donato» ai santi Pietro e Paolo². Guglielmo apparteneva ad una famiglia di lignaggio antico, sempre fedele alla dinastia carolingia e i suoi avi ottennero la potestà in diverse contee tra la Linguadoca e il sud della Borgogna. La vicenda della sua famiglia è indicativa perché la possibilità che essa aveva di tramandare per via ereditaria il potere ricevuto dal sovrano suggerisce come, ormai, era diminuita la capacità di controllo dell’autorità regia che avrebbe dovuto, invece, poter rinnovare o meno la delega di potere alla morte di ciascun beneficiario.

    Il monastero sembrava nascere sotto una buona stella se è vero che il duca fece sì che fosse ricco di beni: vi erano infatti ville, cappelle, servi dei due sessi, vigne, campi, prati, boschi, acque e corsi d’acqua, mulini, vie d’accesso e di uscita, colto ed incolto nella sua interezza³.

    Non dovendo soddisfare le diverse mansioni pratiche, che venivano assolte dai servi di cui sopra, l’attività principale dei monaci di Cluny era la preghiera. Essi dovevano pregare con assiduità proprio perché non avevano la necessità di compromettersi con il lavoro dei campi, né avrebbero dovuto farlo. Quei monaci non avrebbero dunque lavorato con le mani, potendo trarre sostentamento dalle ricchezze del duca Guglielmo il quale, da parte sua, si sentiva in dovere di donare parte dei suoi beni a persone che avrebbero, a loro volta, donato la vita per ringraziare Dio e pregare il suo nome⁴. Ma alto dovere sacro per quei religiosi è la donazione di tutto ciò che si possiede e anche di più, perché si verrà subito ricompensati⁵! Ecco, dunque, convivere in una società che si rivela impazzita e sottosopra, i singoli individui bramosi di appropriarsi di tutte le ricchezze possibili, indigenti – cioè persone che non riescono a sfamarsi – e «forestieri», che scappavano di fronte all’avanzata normanna lasciando tutti i loro poveri averi⁶: doverosa era pertanto l’assistenza a contadini e servi costretti ad abbandonare tutto, così come era doverosa l’assistenza ai pellegrini che, pur tra mille difficoltà, già iniziavano a percorrere vie lontane dalle loro case per venerare sacre reliquie. Per quanto concerne il pellegrinaggio va altresì ricordato come fosse una pratica incoraggiata dai monasteri e, in modo particolare, si veniva spinti a visitare la Città Eterna.

    Si diceva che il monastero di Cluny fosse dedicato ai santi Pietro e Paolo e in particolar modo quei monaci si sentivano devoti a Pietro, considerato come loro patrono. Essi sentivano di essere protetti da Pietro in Cielo e dal pontefice, cioè dal suo successore, in terra. Ecco perché non venne mai meno, da parte dei cluniacensi, la devozione nei confronti del vescovo di Roma, considerato vescovo di tutti gli altri vescovi⁷. Nondimeno la consapevolezza di superiorità del papa rispetto agli altri vescovi non significava che qualsivoglia pontefice potesse intervenire nella vita interna del monastero, esattamente come l’autorità regia. Cluny quindi si sentiva indipendente da tutto e da tutti e sottoposto solo a Dio.

    Il secondo degli abati di Cluny sarà determinante in virtù del pensiero che espresse. Oddone di Cluny di fatto illuminò la strada di quei monaci mettendo in discussione l’operato stesso della chiesa e la sua santità⁸. Per il santo abate era necessario ritirarsi dal mondo per evitare di esserne travolti. Era convinto che si potesse ascoltare meglio la parola di Dio quando si fosse lontani dal secolo perché l’animo sarebbe stato più silenzioso, sarebbe stato in grado di recepire il Verbo. Avvertiva che il mondo non avrebbe capito il desiderio di alcuni di ripararsi da esso e li avrebbe disprezzati. Coloro però che avessero avuto il coraggio di affrontare i lazzi, gli insulti e le minacce dei seguaci del mondo sarebbero stati associati da Dio ai cori degli angeli⁹.

    Oddone era giunto a quelle drastiche conclusioni dopo aver visto con i suoi occhi, nel corso di un pellegrinaggio, quanto fosse grave la crisi monastica in Italia, nella terra cioè che accoglieva il papa. Gli sembrò quasi che fosse proprio quella terra a incoraggiare i monaci ad uno spiccato disordine morale¹⁰. Proprio l’azione decisa e costante dell’abate Oddone di Cluny indusse Alberico II, figlio di Marozia, Princeps Romanorum, ad allacciare rapporti con lui e, in buona sostanza, ad invitarlo in Italia per tentare una vera e propria riforma del sistema monastico laziale¹¹. Tra il 936 e il 938 si registra pertanto l’impegno di Oddone per migliorare la situazione dei monasteri sorti nell’Italia centrale. Egli, per ovviare ad un panorama davvero desolante, fu costretto ad affidare ad un solo abate più monasteri, perché si fidava di pochissime persone.

    In tempi rapidi Oddone riuscì a riformare, secondo i dettami cluniacensi, anche quei monasteri, diffondendo, de facto, quei cambiamenti che in pochi anni avevano reso Cluny un faro in buona parte dell’Europa occidentale.

    Le scuole monastiche

    I tentativi dei monasteri riformatori, primo fra tutti Cluny, di sottrarsi all’autorità vescovile e pontificia, nonché all’autorità dei signori locali, creava una frattura tra il mondo cittadino e quello delle campagne dove erano ubicati i cenobi. Lo iato tra i due mondi non riguardava solo lo status giuridico, ma si ripercuoteva anche sui tratti essenziali dell’educazione dei singoli.

    Tra i secoli VI e VII sia nella penisola iberica, sia nel regno dei Franchi vi era stata una grande diffusione di scuole monastiche che avevano affrontato il problema della diffusione dell’istruzione in modo diverso da quello delle scuole episcopali. In queste ultime infatti venivano approfondite soprattutto materie giuridiche al fine di costituire un’efficiente classe burocratica che potesse essere utile all’amministrazione di un regno¹². I concili spagnoli ricordano quanto la chiesa fosse presente nel campo culturale, sia per la preparazione dei laici sia, in particolare, per la preparazione dei chierici che avrebbero dovuto avere una buona conoscenza dei canoni e delle Scritture¹³.

    Le scuole monastiche invece permettevano agli studenti di approfondire temi diversi¹⁴.

    In verità all’inizio del secolo XI Adalberone di Laon, in un poema satirico dedicato al re Roberto, aveva a lamentarsi perché venivano nominati vescovi monaci che ignoravano le Sacre Scritture, non trascorrevano un giorno della loro vita a studiare e non sapevano fare altro che «compitare sulle loro dita le lettere dell’alfabeto»¹⁵. Si trattava di vere e proprie calunnie da parte di chi non poteva sopportare i monaci di Cluny perché, lo abbiamo anticipato, sin dalla fondazione del monastero gli abati si prodigarono per dare ai monaci una buona istruzione. Si pensi che Oddone stesso, dopo aver acquisito una solidissima cultura letteraria a Tours, avendo seguito le lezioni di Remigio di Auxerre a Parigi, giunse a Cluny con almeno cento manoscritti e venne designato a dirigere la scuola di Baume¹⁶. Colà, infatti, si potevano studiare i classici latini in codici che venivano, con cura e dedizione, raccolti, copiati e gelosamente custoditi¹⁷.In quelle scuole si poteva quindi spaziare nel campo dell’apprendimento dalle materie scientifiche a quelle umanistiche. Rari erano i casi in cui si trovasse disdicevole affrontare autori pagani perché, riconoscendone il valore, si riteneva opportuno che i giovani misurassero le loro forze con i grandi, seppur pagani¹⁸. Insomma la cultura classica era ritenuta essenziale per la formazione dei giovani, sia per la profondità di pensiero di cui si poteva far tesoro, sia per la necessità di apprendere la lingua latina scevra dalle imperfezioni dei secoli alto medievali. Isidoro di Siviglia nel secolo VII aveva studiato i grammatici latini, conscio che essi avrebbero potuto migliorare la comprensione di autori cristiani¹⁹. Non era quindi stato vano l’insegnamento di papa Gregorio Magno, il quale aveva considerato lo studio della letteratura classica pagana non fine a se stesso ma necessario per un approfondimento delle Scritture e quindi per l’innalzamento culturale del cristiano²⁰. Isidoro semmai, in qualche caso, arrivava a sconsigliare le opere moderne di argomento profano²¹,così come quelle scritte da eretici²², mentre è propenso ad incoraggiare lo studio dei classici, la cui conoscenza era ritenuta, anche da lui, fondamentale complemento nella preparazione di un monaco colto. Ad ogni modo, anche per quanto concerne le opere sconsigliate, si deve supporre che il caveat di Isidoro non riguardasse tutti, ma solo quei monaci che agli occhi dell’abate apparissero spiritualmente fragili perché più sensibili a certe lusinghe.

    Nelle sue Occupationes, redatte in esametri virgiliani, Oddone di Cluny affermava che lo studio delle arti liberali era molto utile a coloro che sceglievano di vivere in un monastero, poiché affinava e stimolava lo spirito²³.

    Dunque acquisisce un’enorme importanza il ruolo degli scriptoria nei monasteri. Un gruppo di pittori va di cenobio in cenobio per offrire la loro arte nel decorare magnificamente evangeliari, salteri, sacramentari, lezionari, Vite dei santi. I codices miniati rapidamente si diffondono nei monasteri europei, dalla Germania, dove nascono le scuole di Corvey, Fulda, Ratisbona e altre, alla Spagna settentrionale, ricca di pittori encomiabili. Anche l’Inghilterra meridionale vede la nascita di una scuola celeberrima, quella di Winchester, dove vengono educati i futuri pittori e dove vengono miniate le opere che poi arricchiranno le biblioteche cenobitiche. Ma negli scriptoria, oltre alla produzione di miniature, vengono copiati manoscritti da pazienti copisti, manoscritti

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