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Finitòria
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Finitòria

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Finitòria, in alcuni dialetti meridionali, fra cui quello siciliano,significa “alla fine”, “verso la fine”. Si può riferire a cose o a situazioni. O a sentimenti.

Romano, cinquant’anni, bibliotecario esperto di editoria digitale, Ezio Tarantino ha fin ora pubblicato alcuni racconti in riviste e antologie. È da alcuni anni redattore del blog letterario collettivo La poesia e lo spirito; cura un sito Web di cultura e critica letteraria, Blog senza qualità. Finitòria è il suo primo romanzo
LanguageItaliano
PublisherNulla Die
Release dateMay 9, 2011
ISBN9788897364061
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    Book preview

    Finitòria - Ezio Tarantino

    Ezio Tarantino

    Finitòria

    lego - narrativa /1

    © 2011 – Nulla die di Massimiliano Giordano

    Via Libero Grassi, 10 - 94015 Piazza Armerina (En)

    www.nulladie.altervista.org

    www.nulladie.wordpress.com

    edizioninulladie@gmail.com 

    nulladie@altervista.org

    ISBN: 978-88-97364-06-1

    Impaginazione e progetto grafico: Ivan Tiziano

    In copertina: foto di Massimiliano Giordano

    I fatti e i personaggi di questo romanzo sono frutto di fantasia. Pertanto ogni somiglianza con nomi, luoghi e avvenimenti reali è da ritenersi del tutto casuale.

    Ai miei genitori, e a Claudia

    Finitòria, in alcuni dialetti meridionali, fra cui quello siciliano,

    significa alla fine, verso la fine.

    Si può riferire a cose o a situazioni. O a sentimenti.

    uno

    I due uomini si appartarono.

    Ruggero Sanvitale e Salvatore Margiotta avevano appena finito il caffè. Amaro, Sanvitale, Margiotta dolce. Sanvitale indossava una canottiera blu, calzoncini da tennis bianchi e ciabatte di gomma. Margiotta pantaloni grigi ben stirati e camicia celeste, senza la cravatta. Sanvitale abbronzato, Margiotta pallido, i capelli grigi svolazzanti, elettrizzati. Sanvitale no, ondulati, lucidi, bianchissimi, come la peluria sulle braccia robuste, sulle gambe, sul petto, sulla schiena. Profumava. Margiotta no. Margiotta era sudato. Era più alto, molto più alto. Si doveva inchinare. Parlava inchinandosi, rispettosamente. Il vantaggio degli uomini bassi. Avevano i baffi entrambi, Margiotta e Sanvitale. Grigi, il primo, folti, come svogliati. Tagliati e pettinati il secondo, Sanvitale, bianchissimi come i capelli. Margiotta passò un fazzoletto ripiegato sulle labbra, accuratamente sotto i baffi, due o tre passate, poi lo guardò, distratto. Sanvitale camminava a piccoli passi rumorosi. Margiotta con passi lunghi e silenziosamente insicuri. Sanvitale scacciò il cane, Bekki, un pastore tedesco eccitato dal muso umido. C’era vento. Il cielo ampio e sereno. L’ombra del giardino li proteggeva dal caldo del mattino. Avanzavano con la precauzione di un differente silenzio. Margiotta pareva avesse a che fare con un problema per cui stava cercando le parole adatte. Sanvitale aveva la testa alta e i concetti chiari espressi nello sguardo obliquo.

    Uscì Angela Sanvitale. Nel patio. Scese i gradini, si sedette al tavolo. Aveva gambe lunghe, ciabatte di legno, un pigiama chiaro, capelli assonnati. Si guardò intorno, pensò qualcosa sul vento, poggiò il telefonino sul tavolo, lo accese, lo fissò. Accolse il cane con una carezza che ne seguì il profilo, dal muso fino al collare. Bekki, Bekki, sussurrò, dispensando una vendicativa complicità. Il cane mise le zampe sulle cosce scure e magre della ragazza all’altezza dei pantaloncini del pigiama, annusandola, annusando poi il tavolo della colazione.

    Uscì Giuseppe, e uscì infine Rosaria Sanvitale, in vestaglia, carezzò sulla nuca i figli, Angela e Giuseppe. Uscirono i gatti. Il patio, protetto dalla tettoia in legno e canne di bambù, si riempì di voci che non erano ancora una conversazione. Trascinando gli zoccoli, Giuseppe andò verso la cucina esterna, appoggiata al muro di cinta, aprì il frigorifero, fu raggiunto dalla madre. Indossava una maglietta grigia sopra il costume da bagno da surfista. Dov’è papà? chiese Rosaria. Di là con Salvatore, rispose Angela, al tennis. I gatti si mordevano le orecchie e pareva che ridessero.Angela raggiunse gli altri due, trascinandosi il muso di Bekki nel palmo della mano. Mi scaldi il latte? O non ce n’è? "Perché non ce n’è?" fece il fratello, sottovoce, collegandosi a una recidiva polemica. Angela lo scostò con il braccio facendosi largo tra il suo corpo e quello della madre, rimasta a fissare i figli come se si fosse ricordata qualcosa sul loro conto, su loro due come coppia, subendone la presenza simultanea.

    Giuseppe, di due anni più piccolo, era molto più alto di Angela. Sfiorava le tegole spioventi che coprivano il piano cottura.

    Aveva i capelli neri, lunghi e arricciati, tirati indietro, con una profonda ammaccatura davanti: il segno del cerchietto di spugna che portava quando andava al mare.

    Il giorno prima erano stati festeggiati i diciotto anni di Angela e la casa pareva ancora rilasciare gli odori e i suoni della festa che era durata, sobria e perbene, fino a tarda notte.

    Vi siete alzati presto? disse la madre, interrogativa non volendo.

    Ci passa a prendere Totò, andiamo fuori col gommone di Salvo, rispose Giuseppe tornando verso il tavolo con una tazza di latte freddo in mano. Angela fece: M-mm... confermando la sua presenza.

    Andate insieme? domandò la madre aprendosi per la prima volta in un sorriso, evento! Li accarezzò con lo sguardo, resistendo alla tentazione di convalidare con successivi spostamenti dell’umore la precedente vena di malinconia.

    Furono tutti e tre seduti al tavolo e proseguirono la colazione in silenzio. Giuseppe chiese a un tratto alla sorella se non si dovesse per caso depilare, e rise. Quanto sei cretino. Non ti vai a depilare? Lo trovava molto divertente. Certo non ci devi andare tu, guardati, sembri una pallina da ping-pong.

    Rosaria Sanvitale aveva capelli biondi, raccolti sulla nuca con un elastico di spugna, indossava una vestaglia azzurra e portava ciabatte di gomma colorate. Fece colazione svogliatamente. C’entravano i diciotto anni della figlia, forse. Fuori dove? Domandò.

    Capo Feto, vediamo, disse il ragazzo.

    Con questo tempo? Disse la madre.

    Con quale tempo? Si innervosì Giuseppe. "C’è sempre questo tempo." La madre alzò le spalle, offesa e sconfitta. Il sole dall’altra parte della casa abbagliava il muro di calce bianca.

    Si sentirono le urla dei due uomini. Ma non le parole.

    Nessuno disse più niente. Dal terreno dei vicini ricominciò l’assordante rimbombo della pala pneumatica. Durava pochi secondi, seguiti da una pausa di assoluto silenzio occupato solo dall’eco del frastuono che si richiudeva su se stesso. Poi ricominciava, cupo, ossessivo, profondo. I Sanvitale ci avevano fatto l’abitudine e non fecero commenti. A seconda del tipo di roccia che incontrava il rumore cambiava volume e frequenza. I muri tremavano, lo sforzo meccanico faceva vibrare l’aria calda. Orecchie allenate riconoscevano le diverse tonalità dell’attacco alla resistenza della terra. Sembrava non dovesse finire mai. Meglio delle tortore aveva detto una mattina Giuseppe. Cosa ci devono costruire? Aveva chiesto Angela. Dicevano una piscina, ma a Ruggero Sanvitale la fossa pareva troppo profonda, voleva vederci chiaro. Una cosa che lo mandava in bestia. Un argomento da non affrontare più in sua presenza.

    Rosaria si alzò da tavola con le tazze dei figli e andò a lavarle sospirando. I ragazzi sparirono.

    Ruggero Sanvitale e Salvatore Margiotta ricomparvero, a testa bassa. Ruggero toccò il braccio alla moglie, che richiuse il rubinetto. Salvatore Margiotta chiese se era avanzato del caffè. No, era finito, lo rifaccio, che ci vuole?.

    È morto Nicola, Rosaria.

    Nicola?

    Nicola tuo nipote. Veramente l’hanno ammazzato, povero figlio.

    Rosaria si portò la mano alla bocca e con lo sguardo costruì un ponte con gli occhi del marito, scavando nelle sue orbite l’istantaneo terrore che non era ancora dolore. Dopo qualche secondo allentò la presa, si strinse la vestaglia e si guardò attorno, come se qualcosa lì nel patio in quel momento potesse tornare utile. E com’è stato? Non si sa. Un incidente? Sì, un incidente... sospirò il marito, involontariamente beffardo. Chiamo i ragazzi, dovevano andare al mare. No, aspetta.

    I Carabinieri stanno facendo le indagini, disse Margiotta.

    I Carabinieri? Perché i Carabinieri? chiese Rosaria, come risollevata per un breve attimo dalla prospettiva di un’inchiesta che avrebbe fatto luce su quella notizia assurda.

    Lo vuoi fare questo caffè? Le disse il marito, riconducendo il dramma nel mondo concreto delle cose possibili. Rosaria lo fissò percependo la sua voce e il significato delle sue parole da un livello molto profondo della coscienza e piangendo preparò il caffè. Continuava a voltarsi verso il marito che a testa bassa si era diretto verso il tavolo, preoccupato di non calpestare uno dei gatti. Quando la caffettiera fu sul fuoco Margiotta la abbracciò, mi dispiace, disse, elaborando la formalità delle condoglianze, ormai mature. Fece poi due passi indietro, rispettoso del lutto. Dignitoso, pensò.

    Il frastuono del martello pneumatico montato sulla ruspa volteggiava con la sua ottusa reattività sulle loro teste alzando nuvole di polvere di tufo giallo dalla parte del campo da tennis.

    Quella mattina Salvatore Margiotta si era alzato più tardi del solito. Suo figlio Ruggero, di dieci anni, già si era messo a leggere i fumetti sul bordo della piscina.

    Dopo colazione era tornato al piano di sopra. Prima di chiudersi in bagno era entrato nella camera di Ruggero per sistemare il letto; fece tutto senza aprire la finestra, per evitare che il sole la inondasse.

    Entrato nel bagno, si era guardato nello specchio interrogando il suo viso invecchiato. Aveva afferrato la bomboletta della schiuma da barba e all’improvviso si era accorto di aver smarrito l’automatismo che gli avrebbe consentito di riempirsi l’altra mano della dose necessaria. Non aveva saputo dove esattamente rilasciare la crema, né quanta. Né da quale lato del viso iniziare come d’abitudine a spanderla. Si ricordò, mentre indovinava i gesti successivi, di non avere chiuso la porta a chiave, cosa che del resto non faceva mai. Avvicinatosi alla porta aveva invece acceso la luce. Solo quando fu di nuovo davanti allo specchio si era reso conto dello sbaglio. Per questo ora fissava la propria immagine come se fosse tenuta a dargli delle spiegazioni per quello che stava succedendo.

    Poi era arrivata la telefonata. A lui, non a Sanvitale. Una forma di rispetto.

    Una vicenda conclusa, questa era l’impressione che aveva fatto a Margiotta la notizia di quello che era capitato a Nicola Barracco. Il sipario calato. Un fuoco spento. Non sapeva che questa sua immediata sensazione, non ancora levigata dai dettagli dei rapporti di polizia, gli sarebbe stata, in un certo senso, fatale. Raccogliendo i pensieri e cercando di solennizzare i contenuti delle parole che avrebbe speso davanti a Sanvitale nel comunicargli la notizia gli era venuta in mente una tragedia cui avevano assistito l’anno prima al teatro antico di Segesta. Lì sipario non ce n’era. Gli oggetti sulla scena aspettavano l’inizio dello spettacolo sbuffando nel vento del tramonto, appoggiati con un’intenzionale casualità che li rendeva vivi, padroni di casa in attesa dei loro ospiti: attori travestiti da cose. E gli attori che s’intravedevano attraversare agitati le quinte già con gli abiti di scena parevano intrusi che stavano preparando un’invasione, per appropriarsi di uno spazio che non gli apparteneva. Di quello spettacolo Nicola Barracco aveva realizzato la scenografia: un intreccio di tubolari freddi e oppressivi sul quale poi gli elementi del coro, fra il vento e il panorama delle colline trascoloranti, si sarebbero mossi con l’abilità straniante di ginnasti avvolti dentro drappi scuri, marrone e viola. I tubolari arrivavano a coprire in parte anche la cavea, come un tetto bucato che alla fine della tragedia sarebbe stato interamente ricoperto da un telo bianco, gonfio come una vela che avrebbe voluto trasportare i presenti in un luogo diverso. La scena scompariva nell’oscurità del suggestivo reperto archeologico. Dopo pochi secondi, d’improvviso la vela veniva ritirata, con un fruscio sordo e compatto, di cosa provata e ben riuscita, e ciò che restava era l’esodo degli spettatori silenziosi, avvertiti, prima dell’inizio dello spettacolo, che non era gradito l’applauso finale. Nel fondo della vallata i fari delle auto che sfrecciavano sull’autostrada, rallentati dalla lontananza, sibilavano presenze mute. Intanto attori travestiti da attrezzisti in abiti neri (forse gli stessi che avevano recitato le parti dei protagonisti della tragedia) già provvedevano a smontare la scena, accatastando i tubi al centro dell’orchestra e l’eco metallica dei rimbalzi sul terreno pietroso era alla fine l’unico ricordo plausibile.

    Nicola Barracco ora era morto e tutto questo tornava alla mente di Salvatore Margiotta che aveva assistito allo spettacolo al fianco di Rosaria Sanvitale, cui aveva prestato la giacca a vento che gli era stata restituita prima del saluto davanti al cancello della villa, intrisa del suo profumo giovanile. Rosaria e Agata Margiotta si erano scambiate un abbraccio e un appuntamento, Margiotta aveva atteso al volante cercando di ricordarsi qualche battuta della tragedia, che non gli era piaciuta, senza riuscirci. Solo il suono vibrato e secco dei tubolari. Solo il chiarore opalescente della tenda che riverberava la luce fredda dei riflettori, coprendo con un unico gesto sovrumano le loro teste. E il profumo di Rosaria Sanvitale sulla sua giacca a vento.

    Era rimasto qualche istante fermo, dietro la vetrata, a osservare il figlio, immobile sul bordo della piscina, immerso nella lettura dei fumetti.

    Rosaria Sanvitale comunicò la notizia ai figli quando questi avevano già invaso il patio con i loro zaini e il profumo di creme solari al cocco. Disse solo che il loro cugino Nicola era morto. La ragazza abbracciò la madre, a Giuseppe parve un gesto falso, ma anche lui fece lo stesso. La madre cominciò a piangere disperatamente. Cercava di oltrepassare la cortina di lacrime per condividere con i figli il proprio dolore, ma non ci riusciva. Il loro invece era un pianto contenuto e incredulo. Immaginavano un incidente stradale. Singhiozzava, abbracciata alla figlia, che la sorreggeva con una confidenza che, combattendo il desiderio di non porre mai fine alla sofferenza, alla madre restituiva piano piano il calore di una regolare circolazione del sangue.

    Com’è successo? Com’è successo? implorava Giuseppe, che non poteva partecipare di quella simbiosi. Rosaria lo guardò da sopra il braccio della figlia che la cingeva, e soffrì l’impossibilità di rispondere. Tremava tutta, la

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