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Ho riscritto per te il destino
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Ho riscritto per te il destino

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Quattro uomini: due felici, due disagiati. Quattro vite diverse in tutto, dall'infanzia alla morale ai sogni. Un ospedale psichiatrico contraltare ad una socialità mondana spinta all'eccesso e ... una donna, la Giustiza e la vendetta.
Un inizio poco chiaro ed un prosieguo che sembra chiarire tutto.
Sembra.

Un finale inaspettato e incomprensibile solo per chi ha lasciato indietro i ... Dettagli.
LanguageItaliano
Release dateAug 15, 2012
ISBN9788897313243
Ho riscritto per te il destino

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    Ho riscritto per te il destino - Luca Grandelis

    IL SAPORE DELLE MELE ROSSE

    Brezze

    Venti moderati a periodo diurno.

    Quelle di mare e di terra soffiano

    durante il dì dal mare alla costa,

    durante la notte dalla costa al mare.

    Quelle di monte e di valle soffiano

    durante il dì dalla valle alla montagna,

    durante la notte dalla montagna alla valle.

    Ce ne sono anche di lago e di riva.

    Infinito.

    Era come quella volta all’ufficio postale.

    Due uomini.

    Tra loro un buco; sopra il buco un vetro, sotto il buco un muro.

    Era come ogni volta che incontro qualcuno.

    Ma non era l’ufficio postale.

    Martedì, 1 luglio 2008.

    «Piacere, mi chiamo Vittorio. Sono un volontario che presta servizio qui. Ha voglia di fare due chiacchiere con me?»

    «Sono obbligato?»

    «Certo che no!»

    «E allora perché dovrei?»

    «Si tratta di volere, non di dovere. Io sono qui per passare un po’ del mio tempo con lei, per capire se posso fare qualcosa, aiutarla in qualche modo.»

    «Cos’è, uno psicoqualcosa? È dei servizi sociali o che altro? Cosa vuole sapere da me che già non abbia detto in tribunale. Ma se ne vada, e dica ai suoi superiori che non ho proprio un cazzo da dire.»

    «D’accordo, parlerò con qualcun altro. Avevo scelto lei perché mi sembrava che – dato il suo caso – avrebbe avuto più voglia di parlare con un estraneo…»

    «Ma se ne vada ho detto! Anzi mi levo io dai coglioni, così può guadagnarsi lo stipendio senza far …»

    «Volontario significa che non percepisco alcuna remunerazione per il mio tempo passato qui.»

    «E allora la coscienza se la lavi con qualcun altro.»

    «Farò così, anche se chi sta da quella parte non sono io, e quindi non ho proprio nulla sulla coscienza…»

    «Ehi stronzo, che tu ci creda o no, io ancor meno di te; sono qui per errore, io sono qui perché qualcuno ha voluto fare il furbo con me e perché questa cazzo di giustizia proprio non funziona. Io non ho fatto un bel niente se non …»

    «Infatti. Anche io credo che lei non abbia fatto quello che le è stato ascritto nelle imputazioni. Perlomeno non tutto.»

    «Quindi sei anche un medium, o sei solo curioso? Non fai certo il servizio civile, data la tua età! Cosa sei? Un cattocomunista, con quella barba e quei capelli lunghi? Cosa vuoi saperne del mio processo?»

    «Solo quello che sta scritto nelle cinquecentonovantaquattro pagine degli atti.»

    «Sei un avvocato?»

    «No.»

    «Un giudice?»

    «No.»

    «E cos’altro sei allora?»

    «Sono un libero professionista, solo, che ha perso i genitori, il fratello e l’amico più caro otto mesi fa, e che sta provando a ricostruire la propria vita cercando di dare una mano a chi ne ha bisogno, e a se stesso. Ecco cosa sono. In ogni caso, non mi pare si siano creati i presupposti per continuare. Mi spiace. In bocca al lupo.»

    «No, aspetti …aspetti un attimo. Lei ha letto gli atti del mio processo?»

    «Sì.»

    «E perché?»

    «Perché mi hanno colpito le imputazioni, i fatti, l’evolversi del processo e …»

    «Ma perché proprio il mio?»

    «Sto studiando legge, la seconda laurea, e di conseguenza ho accesso agli atti, che come lei sa sono consultabili a processo terminato. In genere li scorro velocemente, ma poi, forse il caso, forse perché anche il mio amico si chiamava come lei, mi sono soffermato più a lungo sul suo… la condanna è adeguata ai crimini. Le prove sono chiare e la situazione pulita. Persino troppo pulita e perfetta. L’ho letto e riletto, ma ho continuato ad avere la sensazione che qualcosa mi fosse sfuggito. Ho deciso così di impegnarmi con lei anziché con un altro. Ecco la verità. Forse con la presunzione di capire qualcosa in più di chi l’ha seguito fino ad ora, ma di sicuro con la convinzione di saper fare bene il volontario.»

    «Mi dispiace per la sua famiglia. Mi spiace anche di averla maltrattata. …Scusi … Sono qui da una settimana e mi sembra di impazzire. Non mi sembra ancora possibile che … non capisco più nulla. Cinque anni. Mi hanno dato cinque anni in questo carcere-manicomio e io non ho fatto nulla! Mi hanno inchiodato, ma non so, non capisco. È un incubo.»

    «È difficile comprendere, ma ci sto provando. Possiamo darci del tu?»

    «Sì, sì …e lei come ha detto che si chiama?»

    «Vittorio.»

    «…»

    Trapassato remoto.

    Edoardo era stato bambino.

    Non lo ricordava più.

    Non gli sembrava possibile l’aver indagato il mondo, curioso, con il mento appoggiato alla spalla di una mamma. Gli occhi grandi e grigio-azzurri disserrati sul nuovo, non potevano essere stati i suoi. Gli era quasi impossibile immaginare che qualcuno gli avesse fatto delle smorfie per farlo ridere.

    Il più lontano ricordo era un buco in un muro. Il muro che delimitava il cortile del palazzo nel quale abitava; il cortile nel quale giocava con la sua vicina di casa.

    Il buco: lo spazio che era forse stato l’alloggiamento di un gancio, un grosso gancio, e nel quale lui infilava il suo esile indice contando fino a dieci, con gli occhi chiusi, così da dare la possibilità alla sua amichetta di scegliere gli ormai sperimentati recessi.

    Edoardo non barava mai.

    Non teneva gli occhi socchiusi per capire la direzione nella quale cercarla.

    Lui stava lì con gli occhi suggellati, con il dito nel buco, e contava.

    Ecco il primo ricordo.

    Non era mai stato in grado di associare a quel buco la sua età: per certo sapeva contare. Altrettanto certo è che potesse giocare senza alcuna vigilanza, in un cortile affacciato alla strada. Senza protezioni.

    Dieci anni, forse nove.

    E prima?

    Durante i suoi trentasei anni di vita aveva provato molte volte a recuperare tracce della sua infanzia, della pubertà, ma il risultato era ogni volta lo stesso: poche scene, senza contesto, e poi il buco.

    Per un po’ aveva smesso di tentare: negli anni più intimi e carichi della sua storia con Sibilla, la moglie. In quella fase dell’amore non c’era tempo, energia e pensiero che non fossero per lei, per loro, per il proprio futuro.

    Poi.

    Erano cresciuti.

    Erano cambiati.

    Con loro anche l’amore.

    Era quindi stato necessario trovare un diversivo, un esercizio per la sua mente esausta e stremata dallo sforzo di epurare il loro rapporto inquinato da un altro lui: trovare ricordi di un passato protetto, accudito, coccolato e al riparo, desiderato e parte di una famiglia.

    Non c’era riuscito.

    Era stato figlio unico, figlio di figli unici. Nessun fratello o sorella con cui litigare o con cui confidarsi. In casa solo padre e madre, non mamma e non papà.

    La vicina di casa: femmina.

    Il carattere: riservato.

    Compagni di classe: tanti.

    Complici: nessuno.

    La mancanza più sentita: i consigli.

    L’equilibrio.

    A ruota: la sicurezza.

    Gli ingredienti giusti per diventare un amante del fai da te.

    A quindici anni – e questo lo ricordava bene – aveva iniziato la sua carriera teatrale.

    Un vezzo della madre.

    Un corso di recitazione, uno di dizione, un altro di recitazione; sempre dopo la scuola.

    Era capace, sul palco.

    Non era più lui.

    Sulla scena perdeva ogni traccia di timidezza, quella stessa timidezza che lo accompagnava sino a pochi istanti prima di passare dalle quinte all’occhio di bue.

    Si era cimentato con compagnie locali, a livello amatoriale, e intanto si era diplomato: secondo i tempi.

    Riuscire in teatro, come a scuola: un dovere che, se ben assolto, portava con sé riconoscimenti, accettazione, stima, quindi sicurezza.

    A vent’anni aveva perso i genitori, travolti in strada da un furgoncino guidato da uno zingaro ubriaco.

    Solo, con un nonno in vita ma chissà dove. Di lui portava il secondo dei suoi due nomi, una identità anagrafica mai usata: da piccino per evitare confusioni, da grande per picca, per risentimento verso quell’uomo che era stato capace di abbandonare la sua famiglia, e suo nipote: lui.

    A ventuno anni aveva iniziato a lavorare come impiegato per pagarsi le troppo esose tasse universitarie. A ventitré si era laureato: secondo i tempi.

    Alla festa di laurea: lui, il relatore e Sibilla.

    Il giorno dopo, in ufficio: una promozione.

    Dopo sei mesi, in comune: il matrimonio.

    Ancora qualche doppiaggio per registi conoscenti.

    Poi soltanto il lavoro ufficiale e la sua Famiglia: Sibilla.

    La sicurezza e l’equilibrio.

    Passato remoto.

    La sua Famiglia. Si erano conosciuti a un corso di inglese patrocinato dall’università.

    La facoltà di lei: umanistica; quella di lui: scientifica.

    Entrambi in difetto sulle lingue straniere.

    Di quella ragazza dai capelli riccioli, struccata, dagli scatti repentini del mento verso l’alto durante la lezione, l’aveva affascinato l’apertura verso l’esterno, lo sconosciuto; la sua curiosità per nulla mascherata.

    A ogni lezione lei cambiava posto a sedere, come se l’apprendimento, per essere completo, dovesse prevedere ogni diversa angolazione, come se l’inglese dell’esame fosse l’intima conoscenza di tutti i suoi compagni di corso, e non solo di ciò che l’insegnante, con tedio, ripeteva.

    Era toccato il turno di Edoardo, dicembre 1994.

    L’ultima lezione prima di Natale.

    «Ciao, sono Sibilla. E tu? Da quale facoltà ti hanno spedito qui? Posso sedermi vero? Manca ancora un bel po’ di gente. Meno male che è l’ultima lezione prima delle vacanze. Tu vai da qualche parte a Natale? Io torno dai miei, in campagna. Ha nevicato là. Ah ecco il prof, hai una biro in più?»

    Sibilla era così, quasi sempre in emissione, di rado in ricezione. Non dava la pena al suo interlocutore di impegnarsi troppo nelle risposte.

    Tanto lei già le conosceva.

    La città dove vivevano era spesso grigia di nebbia, grigia di fumi, di umore e di suoni e di pioggia.

    Pioggia pigra e leggera, prolissa; a volte però, per Edoardo, una fedele compagna.

    Imperfetto.

    È quello che bisogna fare.

    Il passo è veloce, il respiro affannato, i sensi quasi doloranti dall’acuta sensibilità.

    Il volto immobile rivela tratti qualunque, espressione comune, sguardo impersonale.

    Uno come tanti, fra tanti.

    Lo stabile, uno come tanti, fra tanti per i tanti attorno; non per lui.

    Nessuna differenza dai sopralluoghi: un palazzo immobile, con tanti all’interno.

    Accesso libero, nessuna telecamera all’ingresso.

    Ascensore.

    Sotterraneo; al parcheggio.

    Posteggi riservati.

    La temperatura è sempre più bassa, sia fuori, sia dentro il suo corpo.

    La direzione è certa, l’obiettivo anche.

    Due uguali, sì; le vede. Sempre al loro solito posto.

    Nessun altro.

    Due uguali, ma una più bella.

    Quella!

    Adesso sì, ecco le telecamere. Sudore.

    Esce dal loro campo visivo.

    Fatto. Ora giù!

    A terra, avanti, ancora nessuno.

    La chiave già stretta nel pugno.

    Respirare con calma, ordina al suo cervello.

    È quello che bisogna fare.

    Il fianco destro a contatto col suolo.

    Mano destra: equilibrio.

    Sinistra: azione.

    Contatto della chiave; non nella toppa.

    Pelle d’oca - più pressione - ancora pelle d’oca e il sudore si fa gelido.

    Quasi un metro.

    Come un aratro.

    Strisciare via, ancora nessuno: un altro comando per la sua mente.

    Fuori dalla visuale degli occhi elettronici; su, in piedi e via, via libera.

    Ascensore, vuoto. Fazzoletto intriso del suo umore.

    Il volto immobile, l’espressione qualunque.

    In strada il passo si fa più sicuro: a destra, semaforo, a sinistra; eccola!

    Finalmente protetto nell’auto: motore, accelerazione; via.

    Fatto.

    È quello che bisogna fare.

    Alisei

    Soffiano tutto l’anno nella stessa

    direzione e nello stesso senso.

    Tra l’equatore e i tropici spirano

    da nord-est a sud-ovest nell’emisfero boreale,

    da sud-est a nord-ovest nell’ emisfero australe.

    Nascono nelle zone anticicloniche tropicali

    e convergono verso le zone equatoriali.

    Martedì, 22 luglio 2008.

    «Buongiorno.»

    «Salve.»

    «…»

    «Mi sembra fuori luogo chiedere come va. A dire il vero mi sembra fuori luogo chiedere qualsiasi cosa, come pure il buongiorno non è stata un’uscita molto felice, ma da qualche parte dobbiamo pur iniziare. Dell’ora che abbiamo a disposizione sono già trascorsi cinque minuti; in silenzio. Sono due settimane che tento di incontrarla, ma mi è stato detto che non voleva vedermi, è vero?»

    «Sì.»

    «Ma …?»

    «Sì , senza ma. Sì, punto.»

    «…»

    «Altri cinque minuti di silenzio, forse è meglio che me ne vada dal momento che…»

    «Non avevo voglia di vederla, di vederti. Oggi non ho voglia di parlare.»

    «Un passo avanti. Come vuoi tu.»

    «…»

    «Ti ho portato un libro, non so se può piacerti; nel tuo profilo questa informazione non c’è. È la storia dell’orologeria, dagli albori a oggi, dai primi ingranaggi alle firme contemporanee. Lo vuoi?»

    «Sì.»

    «Tieni, ci passa appena qui in mezzo.»

    «Grazie.»

    «Prego. Com’è il mangiare?»

    «Gli altri tuoi assistiti non te lo hanno mai detto? Fa vomitare.»

    «Per ora non posso portarti alimenti, ci vorrà un po’ di tempo prima di avere il permesso.»

    «Tanto è uguale.»

    «…»

    «Tra pochi minuti devo andare.»

    «Ok.»

    «Martedì prossimo vuoi che torni?»

    «Sì.»

    Trapassato remoto.

    Il quartiere dell’adolescenza di Edoardo si era ormai contratto nella memoria sino a diventare un isolato: l’isolato del quale casa sua era una tessera. Un mosaico di costruzioni primi novecento, anni trenta e quaranta di cui solo una nuova: anni sessanta. Non era un armonico disegno architettonico, ma un incastro governato dalla necessità e da nient’altro. Il suo balcone, al terzo piano: una torre di controllo da cui lui – vedetta – controllava l’andirivieni delle auto che dalla strada, passando attraverso i cortili, trovavano rifugio nei bunker: i garage.

    Gli piaceva veder scomparire quelle auto: finalmente al sicuro.

    Il quadrilatero chiuso e delimitato dagli interni delle case presentava un giro di cortili, e più all’interno un cuore di box, di garage che formavano un nucleo centrale rialzato. Era sui tetti di questi – piani – che i gatti randagi girovagavano talvolta azzuffandosi per un pezzo di cibo lanciato dai balconi, altre volte per una femmina ben disposta, più spesso per la conquista del territorio. Anche durante i rapporti sessuali, quei felini, davano l’impressione di abbaruffarsi. Insomma, mai un momento di quiete per la vedetta che, quando la distanza lo permetteva, spegneva le risse con secchiate d’acqua fredda.

    Aveva studiato il mondo animale – al quale sin da giovane e senza alcun tipo di condizionamento aveva affratellato uomini e donne – scrutando e controllando le attività dei suoi raminghi. Ciò che più l’aveva lasciato perplesso era stata la dinamica dell’accoppiamento: ma perché – si domandava ogni volta – 18 non scappa anziché farsi brutalizzare con così tanta violenza?

    Quelle stesse gatte che in altri periodi avrebbero fatto paura al loro antagonista con un solo agghiacciante ringhio, in quel contesto si facevano graffiare e mordere la testa con aggressività inaudita dal loro caduco compagno. Il collocamento nelle esperienze di vita era stato: lei deve farsi perdonare, lui la deve punire.

    Non era andato oltre.

    18: il nome che aveva dato alla gatta che più gli piaceva.

    C’erano anche 16, 08, 02, 111; gli altri erano tutti Gatto e Gatta.

    Non aveva mai avuto la fortuna di trovare una cucciolata a portata di carezze. Le mamme partorivano e allattavano con tutta probabilità nelle cantine ed Edoardo, a quel tempo, aveva ancora paura del buio.

    Molto tardi, infatti, era riuscito a ispezionare da solo le soffitte, e ancora più tardi quelle stesse cantine. Nemmeno la presenza della sua compagna di giochi di sempre era stata d’aiuto durante le varie prove, nel corso degli anni. Poi, un giorno, tutto solo, la scoperta. Ciò che ricordava di quell’esperienza era soprattutto il raccapriccio che lo permeava tutto, e i brividi lungo l’intera schiena, per le braccia e persino sul dorso delle mani. E ancora il forte irrigidimento del collo, a indurre quasi un blocco respiratorio. Qualcosa nella scatola cranica che premeva con veemenza verso l’esterno provocando una temporanea sordità. Un intimo tremolio continuo, tanto soffocato quanto fastidioso, della palpebra inferiore destra.

    La sensazione di non essere solo, ma il non vedere nessuno.

    Nel contempo però la malsana curiosità lo aveva spinto avanti, fino alla fine del corridoio centrale, quello di accesso, dal quale ne partivano altri due perpendicolari: uno a destra, uno a sinistra.. La prima volta erano rimasti inesplorati mentre, dalla seconda in poi, erano diventati nuovi territori di sfida, con un crescendo di paura ed eccitamento sempre più stupefacente. La confidenza con quegli ambienti era pian piano maturata e così, giorno dopo giorno, paura dopo paura, avventura dopo avventura, si era consolidata il lui la consapevolezza che la solitudine della buia soffitta era più rassicurante della sua comoda, ma troppo accessibile, cameretta.

    Passato remoto.

    Il giorno di Natale era stato ospite di Sibilla. La campagna, i genitori molto avanti con l’età, e tanti cani. La visita era durata poche ore, appena il tempo per pranzare e scartare i regali che Sibilla aveva ricevuto.

    Tanti.

    Ognuno pensato per lei; non obblighi cerimoniali ma vere e proprie dichiarazioni di affetto. Sibilla suscitava affetto in chi la incontrava.

    Era stato così anche per Edoardo.

    Non era né bella, né alta, né bionda. Non una terza di seno e più di sessanta di vita.

    Eppure.

    Quando immobile, una ragazza come tante, ma non appena un suo movimento, un suo sguardo o la sua voce raggiungevano un altro essere umano, questi era obnubilato dal suo fascino e dalla sua malia.

    L’epifania l’avevano trascorsa ancora insieme, ma a casa di Edoardo.

    Un bell’appartamento.

    Cucina, salotto, bagno e camera da letto: di qualcun altro.

    La cameretta: solo sua.

    Da quando i genitori erano morti non aveva cambiato nulla. Il suo non era un atteggiamento commemorativo, bensì una forma di forte pigrizia. Non aveva voglia di pensare a come gli sarebbe piaciuto dividere e utilizzare quegli spazi.

    Erano ivi, alla sua vista, alla sua portata, ma inutilizzati.

    Per contro la sua cameretta era sciupata da un eccessivo quanto ordinato utilizzo: libri, vestiti, giochi e scarpe, riviste e computer.

    Nel corso degli anni l’aveva ritinteggiata più volte.

    Era pulita.

    La cucina intera fungeva da mezzo, né più né meno del più usato dei suoi semplici accessori: la caffettiera.

    Con Sibilla avevano pranzato in cameretta.

    Iniziavano a piacersi.

    Nessun altro incontro fino alla ripresa delle lezioni.

    Era diventato più difficile seguirle per Edoardo. La sua attenzione era rivolta ai riccioli che, nel proseguire del corso, continuavano a cambiare di banco.

    Aveva desiderato che Sibilla avesse optato per la sua compagnia: sempre; il posto sicuro al suo fianco, ma lei aveva continuato a esplorare l’intera aula.

    Ciò che faceva sperare Edoardo in un tiepido interesse di lei in lui era che, una volta ripresi i corsi, Sibilla aveva scelto posti a sedere che gli permettevano di vederla senza doversi contorcere sulla sedia.

    Una gentilezza, una premura.

    Davanti a lui oppure – al massimo – a lato sulla stessa fila.

    Mai dietro Edoardo.

    Toccava all’uomo l’invito galante.

    A dispensare consigli c’erano stati solo film in televisione, ma le situazioni sullo schermo erano ben diverse dalla sua, e poi non approfondivano a sufficienza il metodo; i film erano superficiali, confusi. Era passato ai libri, assorbendo quanto più velocemente possibile, condizioni di partenza e risultati.

    Ancora troppo poco.

    A quell’epoca lavorava la sera in una emittente locale come speaker di radiogiornali e, di tanto in tanto, doppiava dei documentari. Si era perfino proposto come voce maschile per telenovelas .

    Per trovare il modo migliore di affascinare Sibilla cercava al suo esterno, non dentro di sé. Era certo che gli strumenti per poter farla innamorare di lui dovesse ancora acquisirli. Era altrettanto sicuro di non essere geneticamente predisposto al corteggiamento.

    Si susseguivano le lezioni e così, un pomeriggio, era stata Sibilla a proporre un gelato, a prenderlo per mano passeggiando, e a dirgli che avrebbe voluto stare con lui.

    Per tutta risposta Edoardo aveva iniziato enumerando tutti i suoi difetti, quelli di cui era consapevole, ed esasperando quegli aspetti del suo carattere che avrebbero potuto essere o diventare pecche.

    Settimane a studiare il modo più charmant per conquistarla, pochi minuti per autodistruggersi ai suoi occhi.

    Se dopo tutto ciò lei avesse continuato a voler stare con lui, aveva pensato, allora sarebbe stato al sicuro.

    Lei non ci aveva badato, forse non l’aveva nemmeno ascoltato.

    Lei l’aveva scelto, e così doveva essere.

    «Ma tu prendi sempre gli stessi gusti Edoardo? Crema e cioccolato, sempre?»

    «No, preferisco crema e cioccolato, ma a volte cambio, mi piace anche molto la nocciola, il …»

    «Anche a me; la nocciola piace da impazzire, ma quando devo

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