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Il vero poliziottesco
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Il vero poliziottesco

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Il vero poliziottesco vuole farvi scoprire il vero carattere di un genere ancora oggi attuale, audace e contestato, attraverso lo studio dei personaggi, delle storie e dei messaggi che registi, sceneggiatori e attori hanno voluto trasmettere come interpreti dei tempi e parti attive dei tanti cambiamenti intervenuti nel modo di pensare e di agire di una società divisa tra uomini di potere, uomini onesti e fuorilegge, dove non è difficile riconoscere il buono, il bello, il brutto e il cattivo del poliziesco italiano anni ’70.
LanguageItaliano
Release dateAug 24, 2015
ISBN9788891198426
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    Il vero poliziottesco - Tania Di Massimantonio

    poliziottesco

    INTRODUZIONE

    Avete presente il poliziottesco? Quel genere cinematografico che si è affermato negli anni ’70, subito dopo gli spaghetti western, con tutta una serie di banditi e di commissari? Se avete scelto questo libro penso proprio di si; è agli appassionati di questo genere che mi rivolgo, al di là delle questioni di etichetta rimaste dalla critica del tempo.

    Ora, se doveste individuare il buono, il brutto e il cattivo nel poliziottesco, chi scegliereste? Nel famoso film western di Sergio Leone, c’era Clint Eastwood come buono, Eli Wallach come brutto e Lee Van Cleef come cattivo, ma qui nel poliziottesco chi ci potrebbe essere? Difficile, vero? Bene, cominciamo a vedere cosa c’è di buono, di brutto e di cattivo in questo intrigante genere, e poi magari potremo trarre i lineamenti e dare un volto, un corpo a questi tre tipi umani che, dall’intuizione originale di Leone sono rimasti così impressi nella nostra memoria e nella storia e la cultura del cinema italiano. A dire il vero, i tipi di Leone non erano così integrali; Clint Eastwood non era proprio così bravo e un po’ di cattiverie non ce le ha fatte mancare ed Eli Wallach non era proprio così sgradevole, anzi, aveva i suoi aspetti simpatici e malandrini che lo rendevano accettabile.

    Sul cattivo invece Leone non perdona; Lee Van Cleef, in qualunque occasione lo si voglia considerare è sempre perfido e squallido e alla fine, da eliminare. Anche nel poliziottesco non è tutto così nitido e chiaro, magari dove non ci aspetteremmo mai di trovare qualcosa di buono, lì lo troviamo e dove ci sembrerebbe ovvio trovarlo, invece ci rendiamo conto che non c’è. Più spesso siamo di fronte a una prevalenza, un’apparenza di bontà contrastata da tanti altri aspetti.

    Non manca ovviamente il bello e lo spettacolare, com’ è giusto che sia nel mondo dell’arte, di cui il cinema è una delle più coinvolgenti espressioni. E un qualcosa di più, che dà una particolare grinta, prospetta una visione, lancia un monito su cui riflettere. Faremo luce su più film e personaggi alla ricerca di questi caratteri, con un occhio anche allo sfondo storico e sociale di quegli anni, così densi di avvenimenti e di cambiamenti, e alla fine di questo libro ci ritroveremo per rispondere alla domanda: chi è il buono, chi è il brutto e chi è il cattivo del poliziottesco e per vedere chi lo ha reso bello e attraente e chi vi ha impresso un animo fiero e ribelle. Se siete pronti, iniziamo con le indagini !

    Indice

    CAPITOLO 1: IL BUONO

    Il buono, bravo e giusto poliziotto

    Siamo passati dalla febbre dell’oro agli anni di piombo [1] e per capire come si sia scatenata la corsa per la supremazia e la sopravvivenza e la lotta al terrorismo e alla delinquenza dei famigerati anni ‘70, bisogna far riferimento ai movimenti di denaro.

    Già dal ’47, dopo la guerra, gli americani erano stati molto chiari: No right no party. Il piano di aiuti economici del generale Marshall poteva avanzare a condizione che vi fosse un governo senza comunisti. E così guidò il Paese la Democrazia Cristiana, espressione delle classi e movimenti liberali, che aprì le casse di Mediobanca, creata appositamente allo scopo, con a capo Enrico Cuccia, per alimentare i maggiori gruppi industriali dell’epoca. Mediobanca sarà al centro della finanza e della politica italiana degli anni a seguire, con l’appoggio della Banca d’Italia e del Ministero del Tesoro e sbaraglierà senza mezzi termini concorrenti come Michele Sindona, creatore di Banca Privata Italiana e Roberto Calvi, alla testa del Banco Ambrosiano.

    Da lì iniziò a formarsi la casta degli amministratori e distributori di denari, per tutte le spese di ricostruzione dello Stato. Uno Stato che doveva essere sociale, per garantire servizi come la scuola, la sanità, la giustizia, la sicurezza pubblica, ma soprattutto manageriale, tale da richiedere per il grande compito, un immenso apparato burocratico ed un fondo smisurato di entrate pubbliche. Fu così che a un certo punto, non bastarono più i contributi degli italiani, né quelli americani alla DC, e nemmeno quelli russi al PCI. Occorreva qualcosa di solido e permanente e fu trovato: la riforma fiscale del ‘73, rivelatasi da subito come un ignobile salasso su ogni genere di reddito, soprattutto sul più facile da colpire: quello dei lavoratori dipendenti, con la ritenuta alla fonte in busta-paga.

    Migliardi e migliardi affluirono nelle mani dello Stato e i suoi padroni, che per la loro opera trovarono bene il modo di istituire anche il finanziamento pubblico ai partiti, nel ’74, senza trascurare i vecchi usi di tangenti sugli appalti e di creste sugli affari più lucrosi; quegli affari di cui poi si parlò come dello scandalo Eni-Petronim, lo scandalo Lockeed, lo scandalo del terremoto in Irpinia e dei finanziamenti all’Iraq [2]. Una mangiatoia automatica che alimentò la sopraffazione e la degenerazione politica, con i suoi effetti a cascata sulle amministrazioni centrali e locali, sulle imprese e i sindacati. E una corsa all’oro, come non si vedeva dai tempi del far west, che proprio per questo ispirò tanto cinema italiano ed ebbe tra i suoi tanti titoli: Se sei vivo spara ! [3]

    L’arraffa-arraffa in grande stile e sotto una parvenza legale generò il suo contraltare negli ambienti più spicci e grossolani, comunemente detti delinquenti, secondo la famosa legge elementare di natura: come in alto così in basso. Fino a un certo punto quel sistema generò un’opposizione, e furono gli anni di manifestazioni, di proteste, di scioperi, e purtroppo anche di terrore e di attentanti; dopodichè ci fu un passo, un compromesso, e al gran banchetto, di fronte a una tavola ben imbandita da Moro e da Andreotti, tutti si ritrovarono d’accordo nel ‘76: DC, PCI, PSI, PSDI e PR, per il programma comune, per la stangata 1, la stangata bis e la stangata ter, sui cittadini [4]. Un maledetto imbroglio, per dirla alla Pietro Germi ! [5] E inizia La grande abbuffata, si diffonde il fascino indiscreto e sregolato della nuova borghesia [6].

    Non ha più senso scannarsi e accanirsi, a destra o a sinistra. Tutto si può accomodare con la giusta portata, e il conto a carico di tutti. La polizia deve stare al gioco e agire in base agli ordini superiori, pur sapendo di trovarsi in mezzo ad altri ordini di questioni. Ed è quello che grida con un megafono Mario Capanna ad una manifestazione di studenti, in Piazza del Teatro alla Scala, per la repressione dei braccianti ad Avola, una fredda sera di dicembre del ’68, alla presenza di signori in abito da sera e squadroni di polizia: Non ce l’abbiamo con voi, perché voi, come noi, siete figli di lavoratori e di poveri. Riflettete, il 74 % di voi viene dal Sud e dalle isole. Avete dovuto abbandonare le vostre case e vestire la divisa per il pane. Sappiamo quanto la vostra vita è difficile. Quattro giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, dove magari c’era tuo padre o tuo fratello. Adesso vi fanno star qui, per ore, al freddo, e per un salario misero, a proteggere i ricchi. Quelli che vi hanno costretto ad abbandonare il paese e affamano le vostre famiglie. Lottiamo insieme, e insieme con i lavoratori, per avere giustizia. E la folla si commuove, e un giovane poliziotto di 22 anni piange e mormora: Sono di Lentini, un paese vicino ad Avola" [7].

    E’ un gioco al massacro, di cui sono ben coscienti le forze dell’ordine che si muovono al loro interno per la rappresentanza sindacale e la smilitarizzazione della Polizia, l’abbandono delle armi da fuoco, come strumento di repressione delle manifestazioni di piazza [8]. E se bisogna giocare, qualcuno decide di giocare fino in fondo, andando dalle radici della società del malessere, al tronco del potere e delle sue intricate ramificazioni.

    Così si muove il cinema. E la nuova figura che emerge è quella del commissario Miceli/Fredrick Stafford di Abuso di potere (1972) di Camillo Bazzoni. Già caratteristico è l’assetto interno alla polizia: è stato ucciso un giornalista che stava per ottenere informazioni scottanti su un traffico di droga e sul caso inizia ad indagare un commissario mediocre e inconcludente, che in definitiva preferisce non impegolarsi nel caso per non rischiare la promozione appena ottenuta; i superiori allora decidono di richiamare in campo il commissario Miceli, che ha fama di un certo temperamento, per ottenere dei risultati plausibili da dare in pasto all’opinione pubblica; dai giornali sembra trattarsi di un caso di omicidio di mafia. Il commissario riconosce i suoi errori, e non solo quelli: Si avrò tirato qualche schiaffone, ma chi è che non lo fa; il mio torto è di aver sbagliato persona, … un pezzo di merda te lo puoi anche mettere sotto i piedi e avere la promozione, ma se tocchi uno che fa le vigliaccate più grosse ….

    Grazie ad una soffiata, la polizia arresta un mafioso di piccolo taglio, che confessa il delitto, e i superiori si compiacciono con il commissario. Ma ovviamente si tratta di una manovra preordinata, che non convince nessuno e tantomeno il commissario Miceli, che prosegue le sue indagini, senza farsi trattare come un burattino, fino a scoprire il losco personaggio a capo del traffico di droga: Gunther Rosenthal/Corrado Gaipa. Per concludere l’operazione chiederà, a cose fatte, l’aiuto del magistrato D’Alò/Raymond Pellegrin e a quel punto si sentirà rinfacciare di aver agito a sproposito con abuso di potere, proprio lui che sin da subito è stato abusato dal potere dei superiori collusi con la mafia [9].

    Anche qui come nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, emerge come la polizia debba muoversi secondo certe coordinate, secondo il clamore della notizia, ancora prima delle prove, e in base ad una serie di accordi corporativi di polizia, magistratura e Ministero. Un diagramma cartesiano destinato a cadere di fronte alla normale intelligenza dei cittadini, e degli agenti e commissari di polizia, che ormai dispongono di un discreto bagaglio culturale, di mezzi ed esperienza e sono continuamente informati e sollecitati dai media: riviste, giornali, radio e televisione. Lo stesso Dottore-Capo della squadra omicidi/Gian Maria Volontè che si esalta con i suoi discorsi autoritari e altisonanti, si sente in definitiva ridicolo, e ridicoli trova i suoi colleghi che ancora lo applaudono, considerandoli incapaci, burocrati e servili.

    La situazione non può che richiedere un nuovo tipo di commissario. L’emblema della svolta poliziottesca del cinema è La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, con la figura del commissario Bertone/Enrico Maria Salerno, da cui parte un resoconto lucido sulla situazione della polizia, presa in mezzo dall’alto e dal basso. Di fronte ai giornalisti che chiedono perché gli agenti al posto di blocco non hanno sparato ai rapinatori, risponde: I miei uomini non se la sentono più di sparare; ogni volta che hanno la disgrazia di colpire un delinquente, scoppia subito una grana e i primi a farla scoppiare siete proprio voi giornalisti. I giornalisti replicano: Ma quelli erano due rapinatori assassini, nessuno avrebbe trovato da ridire; noi vi diamo addosso quando spaccate la testa agli studenti, quando sparate sugli operai o quando buttate gli anarchici dalla finestra; In città la gente non si sente protetta, riceviamo una valanga di lettere di protesta che ci domandano che fa la polizia per difenderli da questa delinquenza scatenata. Il commissario Bertone non risparmia strali e ribatte: La gente non si sente protetta dalla polizia, è vero, lo so, ma neanche noi ci sentiamo protetti da chi ci dovrebbe coprire le spalle; ce li abbiamo tutti contro con il fucile spianato, tutti: giudici, giornali, partiti, a volte sembra che i delinquenti siamo noi!. E organizza una curiosa conferenza stampa: un giro per la Roma notturna a bordo di un tram, nel primo girone della malavita: la prostituzione, che fornisce i primi liquidi per i traffici successivi, di armi, droga, sequestri e via dicendo. E passando davanti alle carceri dice: Dietro quelle mura ci sono circa duemila detenuti in attesa di giudizio. Per assicurare ciascuno di loro alla giustizia, la polizia ha dovuto sudare le cosiddette sette camicie; bene! Quanta di questa brava gente credete che verrà regolarmente processata e condannata? Ve lo dico io, si e no il 10%, perché i giudici, d’accordo con gli avvocati, tirano alle lunghe in attesa della prossima amnistia, che prima o poi ci restituirà di colpo duemila delinquenti perfezionati e rifiniti in galera che, come sapete è l’università del delitto [10].

    Un film basilare, di denuncia, che mette in luce come ci sia un ordine e un contro-ordine che segue gli interessi di una casta di personalità altolocate. E a questo ne seguono altri. La polizia incrimina, la legge assolve (1973) di Enzo G. Castellari; un titolo con una dichiarazione forte, che suona come una sferzata. Il monito è chiaro: per quanto ci si impegni nel contrastare la criminalità, c’è qualcosa a monte che non quadra. C’è un sistema di norme, e un’organizzazione gerarchizzata che frena il percorso della polizia come una corsa ad ostacoli e le impone, di situazione in situazione, la svolta a destra, il parcheggio forzato o il divieto di transito.

    Il commissario Belli/Franco Nero non ci sta, con il suo carattere pratico e immediato, non può avere la pazienza del suo capo Scabino/James Whitmore, per raccogliere minuziosamente le prove; quelle prove che non saranno mai abbastanza per la condanna, che fanno perdere tempo prezioso e intanto danno tempo alla criminalità di organizzarsi sempre meglio (Abbiamo tutti i mezzi, che cosa aspettiamo ?!). Va avanti deciso a fermare i criminali con la sua squadra, anche se il prezzo personale è alto: la sua bambina viene travolta da un’auto, la sua fidanzata non lo segue più e molti dei suoi compagni rimangono uccisi. I suoi sforzi alla fine sono premiati, ma nella scena conclusiva del film, l’inquadratura si ferma sul suo volto che sorride - piange - prefigura la sua prossima morte e ritorna alla realtà, in pochi memorabili secondi di sequenza.

    Ciò che interessa Castellari è questo buttarsi anima e corpo nel perseguire un obiettivo, senza calcolare, senza pianificare, secondo una sorta di intuito-istinto che è decisamente estraneo ai canoni classici di comportamento ereditati dalla tradizione romana, ed è più riconducibile ad un atteggiamento anglossassone. Ritorna in mente quel sottopassaggio della metropolitana che il detective Papa Doyle/Gene Hackman percorre a tutto gas, con un’auto strappata di brutto a un cittadino, senza più badare a nulla, se non ad inseguire uno dei mafiosi marsigliesi, costi quel che costi, nel film Il braccio violento della legge di William Friedkin (1971).

    Ciò che conta non è tanto l’effetto scenico, quanto l’idea di poter raggiungere ciò che si vuole, se si vuole, tirando diritto di fronte agli ostacoli. Lo stesso tema che Friedkin riprende anni dopo nel capolavoro Vivere e morire a Los Angeles (1985), dove l’agente federale Richard Chance/William L. Petersen, sfidando ogni barriera, prima si lancia nel vuoto da un ponte, poi guida contromano in una superstrada, e infine si trova a trattare alla pari con il falsario e assassino Rick Masters/Willem Dafoe. Il commissario Belli non si sofferma a valutare ciò che conviene o meno, agisce automaticamente, spontaneamente, per ciò che è giusto e va fatto sul momento; la valutazione di convenienza è una valutazione politica, frutto di ragionamenti di parte e di partito, è una valutazione dei livelli superiori, dai quali Belli si distacca, per seguire ciò che sente come lo sente la gente comune. I suoi riferimenti sono gli uomini della sua squadra, non i suoi superiori. Non è lui che si lascia influenzare dal suo capo, ma il contrario e ahimè, quel capo allora farà una brutta fine [11]. Castellari privilegia l’azione al pensiero e questa sarà sempre una caratteristica dei suoi film. E’ l’azione che fa l’uomo, in un insieme di corpo, cuore e mente. Il pensiero non sopraggiunge che dopo, per ricordar e riepilogare i fatti o immaginare eventi futuri.

    Il cinema si concentra sul dissidio tutto interno alla polizia tra l’agire e il non agire, che si risolve infine per l’azione. Questo dilemma è la trama costante. Ma perché? Perché l’azione della polizia è al centro di tanti film, e riempie tanti titoli degli anni ’70 ? [12] Si, certo, il genere western era agli sgoccioli, occorreva puntare su qualcosa di nuovo e coinvolgente come il poliziesco e dall’America arrivavano film come Bullitt, Il giustiziere della notte, Ispettore Callaghan il caso scorpio è tuo, Il braccio violento della legge. I film di Yates, Friedkin, di Winner e

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