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La difficile unità
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La difficile unità

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Il volume ripercorre il Risorgimento italiano attraverso i grandi e i piccoli episodi, i sentimenti, i grandi ideali ma anche le contraddizioni e gli scontri tra le diverse anime politiche e culturali che vissero quell'epoca. Dalla discesa di Napoleone alle fughe, agli esili e alle forche dei giovani patrioti; dalle sette segrete alle barricate del 1848; da Solferino ai Mille: i protagonisti di quella epopea - da Mazzini a Garibaldi, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II, da Cavour a Verdi - vengono 'lasciati parlare' attraverso i loro scritti, i discorsi ufficiali e ufficiosi, gli epistolari.Tali riflessioni, intrise di speranze e delusioni, consentono infatti di comprendere non solo i motivi che fecero nascere e diffondere l'idea di Nazione e di 'Italia' ma, al contempo, le scelte decisive che lasciarono in eredita' problemi irrisolti e per molti ancora attuali: federalismo e centralismo, la questione meridionale, il complicato rapporto con la Chiesa.

Ne esce un racconto che si concentra sui fallimenti e sulle vittorie, sulle grandi passioni e sul significato profondo del Risorgimento, quel processo di modernizzazione che portò gli italiani alla conquista delle moderne libertà di stampa e di associazione, della garanzia del diritto, dell'indipendenza e delle istituzioni rappresentative.

Infine il libro affronta, per la prima volta, 'cosa sia rimasto' del Risorgimento oggi, e ripercorre il serrato e polemico dibattito che negli ultimi anni, sulle pagine dei principali quotidiani italiani, ha visto contrapporsi intellettuali, opinionisti e uomini politici di fama nazionale. Un dibattito che, non a caso, ha fatto parlare di 'Assalto al Risorgimento'.
LanguageItaliano
Release dateJan 2, 2012
ISBN9788897264071
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    La difficile unità - Antonio Maria Orecchia

    Informazioni

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2012 Oltre edizioni

    ISBN ePub: 978-88-97264-07-1

    ottimizzato per Adobe Digital Edition

    Titolo originale dell’opera: La difficile unità

    Sottotitolo: storia di ieri, cronaca di oggi

    Autore: Antonio Maria Orecchia

    Collana * passato prossimo* diretta da Edoardo Bressan

    Prima Edizione Gennaio 2012

    INTRODUZIONE

    Mi immagino come se la deve ridere tra sé e sé il vecchio principe di Metternich [...]: non l’aveva sempre detto, lui, che l’Italia non è altro che un’espressione geografica?[1].

    Così Ernesto Galli della Loggia chiudeva il suo editoriale sul «Corriere della Sera» del 20 luglio 2009. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità si avvicinava e, sosteneva, la pochezza dei progetti per le celebrazioni indicava alla perfezione quale sia l’immagine che la classe politica – tutta, di destra e di sinistra, senza eccezioni (nonché, temo, anche la maggioranza dell’opinione pubblica) – ha ormai dell’Italia in quanto Stato nazionale e della sua storia. Un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa[2].

    Il giorno dopo, su «Libero», Vittorio Feltri rincarava la dose, e affermava che

    la nostra è una nazione soltanto formalmente, e il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini e dai loro rappresentanti [...]. Se del 150° anniversario dell’Unità neppure si parla, e se per celebrarlo non esistono progetti all’altezza, il motivo è tristemente semplice: la maggioranza degli italiani lo considera una iattura da non festeggiare. Tutti hanno leggiucchiato qualcosa del Risorgimento sui libri di scuola, ma pochissimi ne rammentano il significato e ne apprezzano le finalità[3].

    Due soli esempi, significativi di come il dibattito sull’Unità sia stato condotto in questi ultimi anni. Il Risorgimento, cioè, è finito sotto processo, come ben mostrano anche solo alcuni titoli di articoli pubblicati sulle più note testate nazionali: Unità d’Italia? È tutta da riscrivere[4], Abbasso il Risorgimento[5], Assalto al Risorgimento[6], Cosa ci sarà mai da festeggiare se l’Italia è unita?[7], Il peccato originale dell’Unità d’Italia[8], Il Risorgimento fu ferito[9], Risorgimento, i conti non tornano[10]. E, naturalmente, tale elenco potrebbe essere di molto allungato.

    Titoli assai forti che – anche a fronte di una bibliografia pressoché incontrollabile – sui principali mezzi di comunicazione, e sulla stampa in particolare, hanno evidenziato le contraddizioni del processo unitario ma soprattutto la debolezza dell’idea di Nazione e dell’identità italiana.

    Alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’unità, ha scritto ancora Sergio Romano, l’Italia unitaria è malata,

    i lombardi rimpiangono malinconicamente Maria Teresa. I veneti celebrano religiosamente il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe. I toscani non perdono occasione per decantare le virtù degli ultimi granduchi. I napoletani ricordano con nostalgia i fasti del regno borbonico. E molti romani continuano a comportarsi come se il loro vero sovrano fosse al di là del Tevere[11].

    Alla fine, insomma, in un dibattito condotto a colpi di articoli, libri, pamphlet, cui si sono aggiunti interventi e interviste di esponenti della classe dirigente politica – cui i media offrono sempre maggiore spazio – l’immagine di quel periodo, dei suoi protagonisti, e il valore dei suoi ideali ne sono usciti fortemente ridimensionati.

    A molti, ancora, tali polemiche sono apparse contenere un ulteriore elemento di novità. Di Risorgimento, è noto, si iniziò a riflettere addirittura prima dell’Unità, ed è sufficiente ricordare le opere, tutte dominate da una forte passione politica, di Carlo Cattaneo, di Filippo Antonio Gualterio, di Giuseppe La Farina, di Carlo Pisacane. Un dibattito lungo oltre un secolo dal quale le culture politiche del Novecento – fascismo, comunismo, socialismo, azionismo, cattolicesimo liberale – avevano attinto per ricavarne infine una visione problematica e critica circa le origini del nostro Paese. Eppure questi filoni e queste diverse interpretazioni partivano sempre da un elemento comune: l’unità della penisola era stata un bene, un fatto positivo, e le pur aspre e anche fondate critiche si dovevano rivolgere al dopo, alle debolezze dello Stato unitario e non all’unità in quanto tale[12]. Era la prosa del dopo Risorgimento in discussione, non la poesia che aveva vinto la battaglia dell’unificazione.

    Negli ultimi anni invece, come è stato osservato, è emerso qualcosa di più profondo e di nuovo. Con sempre maggiore frequenza lo Stato nazionale è stato infatti posto in discussione da un fronte antirisorgimentale e antiunitario che parte da altri presupposti, come ben esemplifica il titolo de «la Padania» dell’agosto 2009: Unità d’Italia, che c’è da festeggiare?[13].

    È, cioè, la stessa unità politica della penisola a essere oggi scossa, e le tesi di ispirazione settentrionalista non sono le uniche a comporre tale fronte. Grande richiamo appaiono riscuotere infatti anche posizioni che si potrebbero forse definire nazional-meridionaliste le quali, alle rivalutazioni postume dei Borboni – che pure non mancano – si appoggiano in particolare al vero o presunto sfruttamento del Mezzogiorno da parte dei Savoia e del Nord in generale: "Abbasso i nazi-piemontesi! L’odio borbonico per il Nord[14], titolava ad esempio un articolo de «il Riformista» del luglio del 2010.

    Vi è, ancora, un ultimo segmento assai critico con il processo di unità nazionale, che si rifà alle tensioni e alle rotture anche drammatiche tra Stato e Chiesa. Si parla apertamente – per non fare qui che un solo esempio – del peccato originale dell’Unità d’Italia[15], per cui la morale del Risorgimento consisterebbe nella persecuzione della Chiesa, nell’esproprio di tutti i suoi beni, nell’imporre (nel tentativo di imporre) alla popolazione italiana, tutta cattolica, un diverso modo di pensare, di vivere, di credere; una persecuzione condotta da "una élite di ispirazione protestante e massonica, élite che si dichiara liberale ma che, nei fatti, è totalitaria, ha fatto tabula rasa del nostro passato e ha posto le premesse per quel dramma collettivo che è stata l’emigrazione di massa"[16].

    Questi tre segmenti, pur così diversi tra loro e pur partendo da premesse assai distanti, giungono alla medesima conclusione e negano all’Unità politica della penisola e allo Stato-nazione quel carattere positivo che invece le culture politiche novecentesche non ponevano neanche in discussione, sebbene tutte sottolineassero come il Risorgimento fosse stato un fenomeno complesso e a volte anche contraddittorio, e la nascita dello Stato-nazione non avesse corrisposto alle speranze e alle aspettative di molti.

    Comunque sia, non vi sono dubbi che tali teorie abbiano oggi una straordinaria visibilità sui mezzi di costruzione dell’opinione pubblica e sulla stampa in particolare, sovente – ma sarebbe il caso di dire quasi sempre – a scapito di riflessioni e interpretazioni più articolate e profonde.

    Del resto, la strumentalizzazione del Risorgimento, o meglio dei suoi ritardi e delle sue lacune, è un tema che torna sempre nei momenti di crisi della storia d’Italia. Così fu nel primo dopoguerra; così accadde a cavallo della fine del secondo conflitto mondiale – quando si parlava, non per caso, di compiere il Secondo Risorgimento – e così è avvenuto anche durante la crisi della Prima Repubblica.

    Da sempre, cioè, il passato risorgimentale viene posto al centro del dibattito politico contemporaneo, come se l’attualità fosse imputabile al Risorgimento, secondo l’ormai cronica abitudine di mettere l’unità sotto processo, sia per deplorarne la cronica incompiutezza che per contestare, con un secolo di ritardo, il valore delle sue realizzazioni[17]: ancora nel 1991 – per non fare che un esempio – «la Repubblica», lanciando una serie di fascicoli su Come è nata l’Italia?, scriveva: Perché l’Italia va male? Chiediamolo al Risorgimento.

    L’indiscutibile impatto di queste posizioni – per quanto si basino anche su mistificazioni o approcci metodologici assai discutibili – in quella che potrebbe definirsi una vera opera di demolizione del Risorgimento, si fonda sui modelli interpretativi presi in prestito dall’attualità, e su una sapiente conoscenza delle necessità e delle esigenze dei mezzi di comunicazione, a cominciare dal linguaggio e dai richiami terminologici non per caso quasi sovrapponibili al dibattito politico: l’eccessiva personalizzazione della politica ha portato così a un’eccessiva personalizzazione della storia, e i processi storici, i problemi della modernità, le stesse contraddizioni e i ritardi del Risorgimento e infine la stessa ricostruzione storica sono finiti e finiscono ancora sacrificati – quando non eliminati del tutto – sul banco di un improbabile "gossip storico, di una visione della storia da buco della serratura, su misteri" ancora da risolvere di questo o quel personaggio, su impossibili paragoni storici relativi a statisti dongiovanni, eroi malfattori, tangentisti preunitari.

    Si spiegano così titoli di sicuro effetto come Per poter divorziare Garibaldi ottenne la legge ad personam[18]; Garibaldi entra a Napoli con una «scorta»: sono tutti camorristi[19], Il conflitto di interessi di Cavour[20]; Mameli, il primo ladro della storia d’Italia[21]; Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di un’Italia disonesta[22].

    Partendo da questi presupposti molti opinion makers, giornalisti ed esponenti della classe politica hanno denunciato – forse anche strumentalmente – come il Risorgimento venga tuttora trattato in modo retorico, enfatico e antistorico nei libri di testo delle scuole[23] e sia stato sempre raccontato attraverso agiografie stucchevoli e ideologiche, con i pennacchi e il popolo che non vedeva l’ora di unirsi al Piemonte. E, naturalmente, che scuola italiana da 150° anni non ci insegna la verità, ma una menzogna[24].

    Il Risorgimento è quindi un caso ancora aperto ma, nonostante quanto affermino questi critici, come accennato la penisola non era ancora giunta all’unità politica che già molti denunciavano i numerosi errori che si andavano compiendo e si interrogavano sugli esiti futuri del processo risorgimentale stesso.

    Sin dalla rivoluzione del 1848 e dal «decennio di preparazione» il Risorgimento infatti era già materia di studi e appassionate analisi che offrivano contrastanti interpretazioni politiche. Carlo Cattaneo, ad esempio, pochi mesi dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, scrisse di getto e pubblicò Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, un volume in cui denunciò la politica di conquista di Carlo Alberto e il partito dei ciambellani, il ceto dirigente lombardo a suo dire servile con il Piemonte come lo era stato con l’Austria. Pochi anni dopo Carlo Pisacane, ricostruendo La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849 (1851), rimproverò invece al governo piemontese non solo la scarsa attenzione e la diffidenza nei confronti delle masse, ma anche di aver voluto in pratica sostituire una dominazione straniera con un’altra. Pisacane andò in realtà ben oltre e attaccò tanto le velleità dittatoriali di Garibaldi quanto il formalismo di Giuseppe Mazzini e degli altri rivoluzionari, poco sensibili alle questioni sociali e interessati solo a un cambiamento, appunto, formale del governo, che non avrebbe modificato le basi della società.

    In quegli stessi anni – e in quelli successivi, come ovvio – si andò anche affermando una corrente liberal-moderata che tese effettivamente a offrire un’immagine oleografica, quando non mitica e ideologica del Risorgimento. Notevoli, sotto questi aspetto, furono i quattro volumi di Filippo Antonio Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, pubblicati dal 1850; la Storia d’Italia dal 1815 al 1850 di Giuseppe La Farina (1851-1852) e, dopo il compimento dell’unità, gli studi di Nicomede Bianchi e la sua Storia documentata della Diplomazia in Italia dall’anno 1814 all’anno 1861 (1865-1872). Tali opere consacrarono il ruolo e la tattica lungimirante del partito moderato e della dinastia Savoia, investita sin dal XVII di una missione nazionale e dunque autonoma rispetto al portato della Rivoluzione francese, protagonista di un Risorgimento ormai pienamente compiuto.

    Tra autori di scuola moderata, quali Luigi Carlo Farini, Luigi Chiala e Giuseppe Massari, e all’opposto quelli di scuola democratica come Giuseppe Gabussi, Carlo Rusconi e Luigi Anelli – la cui opera è tutta un amaro rimpianto che l’Italia non sia stata fatta solo da ‘magnanimi cospiratori’ e di forze di popolo, ma anche dal Piemonte sabaudo coll’aiuto dell’armi straniere[25] – con il tempo si affermò la tesi definita del blocco risorgimentale, un’idea destinata ad avere grande fortuna.

    Dal 1888 al 1897 uscirono infatti i nove volumi della Storia critica del Risorgimento italiano dell’ex mazziniano e garibaldino Carlo Tivaroni, dai quali emergeva una visione unitaria e conciliatorista del Risorgimento: sfumavano le aspre polemiche tra le diverse anime politiche e se ai democratici veniva riconosciuto un ruolo pedagogico nell’educazione del popolo ai valori di indipendenza e libertà, alla casa regnante andava il merito del successo finale. I ritratti di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi potevano dunque comparire insieme e senza alcun imbarazzo, poiché la nascita dello Stato-nazione e l’unificazione della penisola erano il risultato di un’unità di intenti e di una collaborazione reale di tutti i protagonisti.

    Nonostante queste interpretazioni conciliatoriste, sin dalla fine dell’Ottocento ampia risonanza ebbero anche e soprattutto opere scritte – sovente in polemica con i governi del periodo – da storici non professionisti. Grande successo riscosse ad esempio la ristampa, nel 1913, de La lotta politica in Italia di Alfredo Oriani, pubblicato originariamente nel 1892. Il filo conduttore del volume era la fortunata formula della conquista regia, locuzione che tornava continuamente a sottolineare sia la nascita di un Regno dovuta esclusivamente a una vecchia monarchia militare sia la piemontesizzazione della penisola quale risultato della insufficienza rivoluzionaria della nazione. L’opera della monarchia – a parere di Oriani – era stata più necessaria che benefica, la sua abilità più egoistica che feconda e i suoi guadagni più grossi che legittimi. Nessuna grandezza epica consacrava i suoi trionfi, nessuna superbia di pensiero o di carattere poteva dare alle sue prime parole in Europa quell’accento baldo dei popoli che si affacciano alla storia[26]. Il Risorgimento insomma non era stato una rivoluzione, ma piuttosto una insurrezione contro gli stranieri, e nessuna idea originale aveva cangiato col proprio trionfo la fisionomia storica della nazione. E la conseguenza era stata la formazione di uno Stato inadeguato, debole, senza slanci ideali, la cui esistenza era ridotta a una meschina prassi amministrativa. I mali del Paese nascevano quindi dal fragile connubio creato dall’impotenza della monarchia e dall’incapacità dei repubblicani di condurre una rivoluzione popolare.

    Un Risorgimento incompiuto quindi, o peggio ancora tradito. Un Risorgimento senza eroi (1926), secondo le riflessioni brillanti e anche queste assai polemiche di Piero Gobetti del primo dopoguerra: una rivoluzione fallita, opera di aristocrazie poco consapevoli del proprio ruolo, prive di forti ideali, subalterne al cattolicesimo, che non riuscirono a laicizzare e modernizzare veramente il mondo mentale della masse, di portarle come soggetto attivo della storia[27], di unificare in altri termini Stato e popolo.

    Gli sconvolgimenti del primo dopoguerra portarono, come ovvio, a nuove interpretazioni del Risorgimento. Certamente anche la storiografia fascista sottolineò le debolezze della classe dirigente moderata, e tale critica era funzionale all’immagine che il fascismo intendeva dare di sé, come vero erede del Risorgimento e delle sue componenti spirituali. A parte i reclutamenti forzati e improponibili di figure come quella di Carlo Cattaneo condotta ad esempio da Antonio Monti nel 1937[28], la storia d’Italia fu riletta in quegli anni anche da diversi tra i più noti intellettuali de periodo. Giovanni Gentile si occupò in particolare di Vincenzo Gioberti e soprattutto di Giuseppe Mazzini. La figura chiave del Risorgimento – movimento che precorreva il fascismo – a suo parere non era certo Cavour, interprete di un liberalismo individualista assai distante dal fascismo, ma Mazzini e il suo portato spirituale e religioso: Mazzini profeta del nostro Risorgimento [è] per molteplici aspetti della sua dottrina, maestro dell’odierno fascismo, scriveva nel 1923 ne I profeti del Risorgimento.

    Ma senza dubbio la meditazione più profonda sul Risorgimento fu quella condotta da Gioacchino Volpe, che nel suo L’Italia in cammino (1927) vide nel processo di unificazione un fatto di potenza più che di libertà, ma soprattutto attribuì al movimento di Mussolini la conclusione di quella rivoluzione popolare che il Risorgimento aveva lasciato incompiuta. Il Risorgimento era stato opera di una minoranza eterogenea politicamente e socialmente, ma questo aspetto non era necessariamente negativo, anzi si trattava di quella aristocrazia morale della nazione, smarritasi nell’Italia liberale e rinata con l’avvento del fascismo.

    Durante il ventennio il ruolo della borghesia liberale fu invece rivalutato da Benedetto Croce. Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) infatti, il Risorgimento appariva come il capolavoro dei movimenti nazionali ottocenteschi, risultato della contemperanza tra il rispetto all’antico e l’innovare profondamente, la prudenza sagace degli uomini di Stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine. Il Risorgimento rappresentava quindi l’affermazione delle idee di libertà e di nazione, e l’idea guida del ceto dirigente borghese ottocentesco era stata la religione della libertà.

    Lo storicismo idealistico di Croce, è noto, influenzò numerosissimi studi successivi, e in particolare le analisi di Adolfo Omodeo, che – è stato sottolineato – fece della storia del Risorgimento un’arma contro il fascismo[29]. In La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia e ne L’opera politica del conte di Cavour, Omodeo ridimensionò da una parte la precedente dimensione agiografica del sovrano sabaudo e dall’altra ricostruì in un’ottica liberale la fondamentale funzione dello statista piemontese, inquadrando i profeti di Gentile in un più ampio movimento spirituale che aveva al centro un’idea liberale della sovranità[30].

    Nel frattempo, sulla scia degli studi di Salvemini e di Gobetti, si affermavano nell’area liberalsocialista di Giustizia e Libertà e del partito d’Azione nuove interpretazioni critiche sul processo di Unità della penisola. Il punto centrale era ancora una volta l’assenza del sostegno popolare nel moto risorgimentale, che era stato egemonizzato dai cavouriani per lo più interessati alla continuità dello Stato elitario e monarchico. Erano proprio le tare della nascita della nazione – i limiti dei partiti risorgimentali, le insufficienti basi di sostegno, le decisioni di non intraprendere misure radicali in favore degli strati più deboli della popolazione – ad aver permesso così l’avvento del fascismo.

    Il Risorgimento fu un tema ampiamente trattato dagli azionisti, e non solo nelle opere ad esempio di Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin (1938), o di Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione nel Risorgimento (1943), in cui si accentuava il momento etico su quello politico. Sugli stessi «Quaderni di Giustizia e Libertà» non per caso si svolse nel 1935 un acceso dibattito circa l’opportunità o meno di indicare il Risorgimento come modello adatto a ispirare la lotta al fascismo e, in altri termini, quale nesso avrebbe dovuto legare il processo di unificazione e la futura Italia. Per fare solo due esempi, se Andrea Caffi affermava non si potesse pensare niente di veramente chiaro e profondo riguardo all’Italia di domani se non si è spietati col mito alquanto ufficiale e scolastico del Risorgimento[31], Franco Venturi ribatteva invece non si trattasse di presentarci come eredi del Risorgimento, [...] né di considerare il Risorgimento come un tutto che si deve accettare per intero, ma di vedere ciò che negli ideali e negli uomini del Risorgimento può ancora essere animatore per noi.

    Nel secondo dopoguerra, mentre andavano esaurendosi i filoni nazionalistici e filosabaudi e iniziava a essere condivisa la connessione tra il portato della rivoluzione francese e le origini del Risorgimento, venivano pubblicate nuove analisi di ispirazione marxista, cattolica o radicale miranti in sostanza – ha scritto Giuseppe Talamo – a sottolineare alcuni elementi negativi di quel processo storico, cioè le insufficienze liberali o la scarsa sensibilità per i problemi sociali o religiosi[32].

    Una nuova occasione di aspre polemiche fu offerta dalla pubblicazione, nel 1949, dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Scritte durante la prigionia, le sue riflessioni individuavano agli albori della storia unitaria una rivoluzione agraria mancata di cui era responsabile il movimento democratico risorgimentale, incapace di trasformare il suo programma in senso sociale. Il Risorgimento si configurava così come una rivoluzione passiva, vinta dai moderati in quanto gruppo sociale omogeneo ma fondata sulla sostanziale estraneità degli strati inferiori della società proprio perché i democratici italiani, a differenza di quelli francesi, non avevano imboccato la via giacobina della riforma agraria, della rivoluzione contadina. I molti spunti presenti nelle riflessioni di Gramsci influenzarono numerose ricostruzioni successive, e non solo di area marxista[33].

    In aperta polemica con le tesi di Gramsci, e sulle orme di Benedetto Croce, invece, Rosario Romeo, con una monumentale opera su Cavour e il suo tempo (1969-1977), non solo rivalutò il capolavoro della classe dirigente liberale, ma in due saggi raccolti nel volume Risorgimento e capitalismo (1959) contestò che il Risorgimento fosse stato incompiuto a causa della mancata riforma agraria. Anzi: l’aumento della produzione agricola resa possibile dalla compressione dei consumi, dal drenaggio delle risorse, dalla pressione fiscale – il prezzo fatto pagare in particolare al Mezzogiorno – aveva a suo parere reso possibile una accumulazione originaria del capitale, dalla quale era scaturita la costruzione delle infrastrutture essenziali per lo sviluppo industriale italiano della fine del XIX secolo. Il decollo industriale italiano e la modernizzazione dell’Italia, quindi, non si sarebbero verificati se nel Risorgimento fosse stata varata una riforma agraria che, con la distribuzione delle terre, avrebbe aumentato i consumi contraendo i risparmi.

    Nel secondo dopoguerra non pochi studi hanno sottolineato quanto la classe dirigente liberale fosse stata insensibile alle esigenze religiose delle masse e al contempo hanno analizzato la frattura tra Stato e Chiesa, ben mostrata da Fausto Fonzi, ad esempio, ne I cattolici e la società italiana dopo l’unità, o da Arturo Carlo Jemolo nella sua fondamentale opera Chiesa e Stato negli ultimi cento anni (1948). Ancora, tra gli altri, Ettore Passerin d’Entrèves ha messo in evidenza l’esistenza politica e al contempo religiosa che non poteva manifestarsi apertamente durante la Restaurazione, e infine assai significative si sono rivelate le riflessioni sul neoguelfismo di Giorgio Rumi.

    Come insomma emerge da questa breve e certamente incompleta rassegna, le polemiche pro o contro il Risorgimento e sul successivo sviluppo dell’Italia post-unitaria iniziarono se possibile prima ancora che si compisse l’unità italiana e, anzi, negli ultimi decenni della Prima Repubblica la storiografia ha compiuto ulteriori passi avanti anche attraverso l’apertura a metodi e temi delle scienze sociali.

    Proprio nel momento in cui l’identità nazionale è stata messa violentemente in discussione, infatti, grazie all’apporto sempre più interessato anche di storici anglosassoni e francesi, il dibattito storiografico si è allora spostato dai limiti di un Risorgimento tutto politico a una profonda riflessione sull’idea di nazione, come è noto affrontata in realtà da Federico Chabod sin dalla fine della II guerra mondiale. Nuovi e interessanti studi hanno spostato la prospettiva storiografica dalla politica ai mutamenti sociali, alla cultura, alle istituzioni educative e soprattutto alla formazione del sentimento di identità nazionale, o meglio alla debolezza dell’identità nazionale e alla separazione dello stato italiano dalla società civile[34]. E diverse sono state le risposte della storiografia su come siano stati fatti gli italiani e sul perché ebbe luogo l’unificazione italiana se, ad esempio, Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa, è il titolo di uno degli ultimi volumi pubblicati e se Alfonso Scirocco, sin dal 1998, scrisse il suo In difesa del Risorgimento[35].

    Le difficoltà del sistema repubblicano, e naturalmente l’approssimarsi delle celebrazioni per l’anniversario della proclamazione del Regno, hanno dunque stimolato ulteriormente una produzione storiografica che era già vastissima.

    Tuttavia, in questo dibattito gli sforzi degli storici e gli indiscutibili risultati raggiunti sono forse ancora una volta rimasti ai margini. I rilevamenti di Nielsen Book Scan, infatti, hanno dimostrato che solo 1,3% di tutti i libri venduti in Italia tra il 2007 e il 2009 ha avuto come oggetto il Risorgimento, tema surclassato da altri generi quali Roma antica (11,6%), il fascismo (7,3%) e anche il medioevo (3,8%): le vicende di Cavour, Garibaldi e Mazzini sembrano appassionare poco più di quelle dell’Impero Ottomano (1%)[36].

    Dati certamente destinati a crescere esponenzialmente con l’anniversario dell’unità, ma intanto negli ultimi due anni il Risorgimento e l’identità nazionale si sono già imposti prepotentemente sotto altra veste, nel dibattito politico e sui grandi mezzi di comunicazione di massa.

    Il dibattito sul Risorgimento, cioè, si è spostato sulla stampa e in televisione, con tutti i rischi legati a una eccessiva semplificazione di problemi complessi, alla riduzione dei passaggi della modernità a luoghi comuni, a una esasperante demagogia. Ma soprattutto, in un Paese dove la storia è stata sovente usata come una clava per colpire l’avversario politico di turno, le analogie – spesso forzate – del processo di unificazione con le questioni del presente hanno rischiato di diventare un facile strumento di strumentalizzazione politica.

    Questo libro vuole dunque provare a ricostruire le vicende di quella storia affascinante, di eroismi e di intrighi, di personaggi nobili e rocamboleschi[37] che non fu certo una "soap opera che fece l’Italia"[38], bensì un sessantennio di elaborazione politica e culturale, un processo lungo e accidentato costellato da divergenze di opinioni e di prospettive, polemiche furibonde, aspri scontri giunti anche al limite di guerre fratricide fra moderati e progressisti, conservatori e rivoluzionari, laici e clericali, monarchici e repubblicani: un’affascinante storia di uomini e di idee che ha fatto del Risorgimento uno dei capitoli più intensi e vissuti della storia nazionale.

    Infine, pur senza pretese di completezza e senza proporre gratuite e inutili polemiche, questo studio vuole provare a inquadrare quelle vicende nel dibattito pubblico degli ultimi anni in particolare sulla stampa, strumento fondamentale per la costruzione dell’opinione pubblica.

    La storia, ha scritto un grande storico, è la sola disciplina intellettuale che possa darci responsabilità e profondità spazio-temporale, la sola risposta all’anomia contemporanea e alla perdita di identità[39]. Per questo il libro è dedicato ai miei nipoti Alfredo, Giulia e Alice, nella speranza che possa, nel suo piccolo, aiutarli nelle sfide che la vita riserverà loro.

    Licenziando il libro desidero ringraziare la Casa Editrice «Oltre» e il dottor Oliviero Arzuffi per il tempo, la comprensione e la stima che hanno dimostrato nei confronti del mio lavoro. Il supporto, l’aiuto, i consigli e i suggerimenti dell’amico e maestro professor Edoardo Bressan sono stati, come sempre, fondamentali nella stesura del testo. Questo volume a lui deve molto.

    [1] E. Galli della Loggia, Noi italiani senza memoria, «Corriere della Sera», 20 luglio 2009.

    [2] Ibidem.

    [3] V. Feltri, Cosa ci sarà mai da festeggiare se l’Italia è unita?, «Libero», 21 luglio 2009.

    [4] L. Negri, Unità d’Italia? È tutta da riscrivere, «Avvenire», 15 marzo 2000.

    [5]F. Agnoli, Abbasso il Risorgimento, «Il Foglio», 26 settembre 2009.

    [6]C. Pavone, Assalto al Risorgimento, «la Repubblica», 30 settembre 2009.

    [7] V. Feltri, Cosa ci sarà mai da festeggiare se l’Italia è unita?, cit.

    [8]A. Pellicciari, Il peccato originale dell’Unità d’Italia, «Il Tempo», 27 aprile 2010.

    [9]M. Palombi, Il Risorgimento fu ferito, «Liberal», 26 ottobre 2010.

    [10] F. Cardini, Risorgimento, i conti non tornano, «Quotidiano Nazionale», 9 novembre 2009.

    [11] S. Romano, Un nuovo risorgimento nel futuro del Meridione, «Corriere della Sera», 11 marzo 2009.

    [12] Cfr. E. Galli della Loggia, L’Unità d’Italia e i suoi nemici, «Corriere della Sera», 7 febbraio 2010.

    [13] S. B. Galli, Unità d’Italia, che c’è da festeggiare?, «la Padania», 9 agosto 2009.

    [14] A. Leogrande, «Abbasso i nazi-piemontesi». L’odio borbonico per il Nord, «il Riformista», 23 luglio 2010.

    [15] A. Pellicciari, Il peccato originale dell’Unità d’Italia, cit.

    [16] Ibidem.

    [17] G. Pécout, Il lungo Risorgimento, Milano, B. Mondadori, 1999, p. 24.

    [18] V. Terruzzi, Per poter divorziare Garibaldi ottenne la legge ad personam, «il Giornale», 25 ottobre 2010.

    [19] L. Del Boca, Garibaldi entra a Napoli con una scorta: sono tutti camorristi, «la Padania», 22 agosto 2010.

    [20] G. Oneto, Il conflitto di interessi di Cavour, «Libero», 15 dicembre 2010.

    [21] L. Del Boca, Mameli, il primo ladro della storia d’Italia, «la Padania», 15 settembre 2009.

    [22] L. Del Boca, Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di un’Italia disonesta, «la Padania», 24 ottobre 2009.

    [23] G. Bruno Guerri, Il Risorgimento? È zoppo, ora gli storici lo riscrivano, «il Giornale», 5 settembre 2009.

    [24] G. Reguzzoni, Risorgimento, breve storia di una parola (e di una bugia), «la Padania», 31 ottobre 2010.

    [25] Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962, p. 329.

    [26] Cfr. G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1999, p. 24.

    [27] Cfr. A. M. Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 61.

    [28] A. Monti, Carlo Cattaneo, Milano, Zucchi, 1937.

    [29] G. Pécout, Il lungo Risorgimento, cit., p. 17.

    [30] Cfr. M. P. Casalena, Il Risorgimento, Bologna, Archetipo, 2006, p. 54.

    [31] L’Unità d’Italia. Pro e contro il Risorgimento, a cura di A. Castelli, Roma, edizioni e/o, 1997, p. 23.

    [32] G. Talamo, La storiografia del Novecento, in «Mediterranea. Ricerche storiche», www.storiamediterranea.it, p. 112.

    [33] È sufficiente ricordare la vasta circolazione delle opere di Emilio Sereni, Giorgio Candeloro, Gastone Manacorda, Giampiero Carocci e Franco Della Peruta.

    [34] Cfr. L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1994.

    [35] M. Clark, Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa, Milano, Rizzoli, 2001; A. Scirocco, In difesa del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 1998.

    [36] A. Romano, Il Risorgimento non basta più, «Il Sole 24 Ore», 21 febbraio 2010.

    [37] A. Cazzullo, Risorgimento tradito, «Corriere della Sera - Magazine», 15 ottobre 2009.

    [38] A. Petacco, Risorgimento. La soap opera che fece l’Italia, «Panorama», 19 novembre 2011.

    [39] G. Rumi, Perché la storia. Itinerari di ricerca (1963-2006), a cura di E. Bressan e D. Saresella, Milano, Led, 2009, 2 voll., p. 920.

    PREFAZIONE

    Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità, ormai avviato al termine, ha offerto certamente la possibilità di riflettere sul senso di una comune appartenenza nazionale che oggi più che mai richiede di essere condivisa. Per un vasto pubblico è stata anche l’occasione di riprendere contatto con il nostro Risorgimento che spesso era stato confinato in un cono d’ombra sia nel dibattito pubblico sia nei programmi scolastici di storia ma che ha portato, anche se fra inevitabili contraddizioni, prima all’unificazione politica e poi alla costruzione di una cittadinanza sempre più larga e condivisa.

    Negli studi più recenti si è giustamente insistito sugli aspetti culturali e sociali del processo unitario, che da una parte ha visto una significativa partecipazione popolare destinata a non poche delusioni e che dall’altra, come i grandi movimenti nazionali nell’Europa dell’Ottocento, ha conosciuto progetti generosi e al tempo stesso chiusure identitarie. Forse meno sottolineato è stato il problema etico-politico che fin dal Triennio giacobino si è imposto alla coscienza di molti, quello di dare concretamente risposta a un’istanza nazionale non più eludibile e legata a una tradizione plurisecolare. Intorno a questo disegno, che coincide appunto con il Risorgimento della patria in una prospettiva di indipendenza e di libertà politica, si ritrovano in molti, dai primi liberali ai cattolici neoguelfi, dai mazziniani ai federalisti democratici, uniti dal comune rifiuto dell’ordine politico imposto dal Congresso di Vienna.

    Si schiudono i momenti, drammatici ed eroici, del 1820-1821, del 1830-1831 e soprattutto del 1848, anno dei miracoli e primavera dei popoli, quando il sogno sembra vicino alla realizzazione. Non va però dimenticato che con il 1849 il risveglio è molto brusco e segue una seconda e non meno dura restaurazione: ancora alla metà degli anni Cinquanta la «questione italiana» è tutt’altro che risolta ed è solo l’azione politico-diplomatica di Cavour a creare le condizioni, interne e internazionali, perché il 17 marzo 1861 possa nascere il Regno d’Italia.

    Il titolo di questo bel volume di Antonio Maria Orecchia, La difficile unità, vuole appunto ricordarci che nulla era scontato e che tutto, ancora alla vigilia, era da fare. Il sottotitolo, Storia di ieri, cronaca di oggi, aggiunge che i problemi sono tuttora aperti proprio perché allora, in un arco di tempo inevitabilmente breve, si sono imposte scelte che hanno portato a dolorose lacerazioni, spesso aggravate da atteggiamenti di chiusura sociale. Eppure il quadro saldamente acquisito nel 1861, aperto al contributo di ciascuno, di una casa comune e di salde istituzioni liberali appare subito irrinunciabile ed è quello che avrebbe permesso all’Italia di crescere e di superare altre difficili prove.

    Il libro invita a considerare i processi storici nel loro svolgimento, rifuggendo da facili semplificazioni, e per questo mette a disposizione del lettore le testimonianze dei protagonisti, nel vivo prima di una battaglia segnata fino all’ultimo dall’incertezza sul risultato e poi di una prosa quotidiana fatta di mille problemi ma anche della volontà di non tradire l’ideale di diverse generazioni di patrioti, un ideale che aveva generosamente legato le aspirazioni nazionali alla libertà e alla democrazia. Questa collana di storia inizia volutamente affidandosi a una lettura attenta e documentata che non solo riprende il percorso risorgimentale e unitario, ma ne interpreta le ragioni profonde.

    Edoardo Bressan

    I. «QUALE DEI GOVERNI LIBERI MEGLIO CONVENGA ALLA FELICITÀ DELL'ITALIA»

    1. «L’Uomo dei destini»

    I disordini delle repubbliche indipendenti, la lentezza e la gelosia delle repubbliche confederate invitano l’Italia ad unirsi in una sola repubblica indivisibile. Difatti [...] l’unione che può dare alle masse italiane quella solidità onde renderle lo scoglio eterno de’ conquistatori, l’esperienza del passato che ricorda all’Italia che divisa fu conquistata e tiranneggiata dalle estere nazioni; lo stato di depressione in cui giace al presente la nostra marina, che diverrebbe il riparo della libertà se fosse sostenuta dall’unione; [...] l’intelletto che si estende a misura che si estende il campo della sua attività; la grandezza degli oggetti politici che, togliendo di mezzo le piccole passioni, tiene gli uomini in una distanza che annienta gl’interessi, e le particolari gelosie madri di discordie e di sedizioni; la religione che unisce tutta l’Italia sotto d’uno stendardo comune; gli stessi costumi che danno alla pubblica opinione la direzione stessa e ne costituiscon la forza; la stessa lingua che facilita la comunicazione de’ sentimenti e ci ricorda la stessa origine; lo stesso gusto per le arti, per le manifatture, per le scienze; gli stessi mali, le stesse speranze, gli stessi timori in una parola, il fisico, il morale, il politico, tutto c’invita ad unirci colla massima possibile strettezza nel seno d’una sola repubblica indivisibile[1].

    Aveva solo ventinove anni il piacentino Melchiorre Gioia quando nel 1796 vinse, con questa dissertazione, il concorso bandito dall’Amministrazione generale della Lombardia rivolto a tutti i buoni cittadini amanti della libertà per la soluzione del quesito Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia. A suo parere l’Italia doveva unirsi in una repubblica unitaria, con una legislazione uniforme, con pesi e misure unificate e imposte uguali per tutta la penisola.

    Il concorso era stato organizzato nel settembre, e cinquantasette intellettuali di tutta Italia avevano risposto: dai piemontesi Carlo Botta e Giovanni Antonio Ranza al fiorentino Giovanni Ristori, dal romano Giuseppe Lattanzi al napoletano Matteo Galdi. Diverse erano state le proposte, ma tutte influenzate dal nuovo clima di speranza e di fiducia che si respirava lungo la penisola a seguito dell’arrivo di un altro giovane, il ventisettenne Napoleone Bonaparte. Alcuni, una minoranza in verità, avevano proposto una soluzione federativa invece della repubblica unitaria. Secondo Giovanni Antonio Ranza, ad esempio, la confederazione avrebbe dovuto contare undici Stati raccolti in un Congresso generale a Pisa:

    L’Italia, tutto al contrario della Francia, è divisa in molti Stati da parecchi secoli; stati diversi di costumi, di massime, di dialetto, d’interessi; stati che nutrono (mi rincresce dirlo!) vicendevolmente un’avversione gli uni degli altri. Ora il voler unire questi stati ad un tratto con una rigenerazione politica in un solo governo, in un solo stato, con una sola costituzione, è lo stesso che cercare il moto perpetuo e la pietra filosofale. Non si può distruggere in pochi giorni, e modificar subito diversamente, l’opera di molti secoli avvalorata dall’abitudine di tante generazioni [...]. Andiamo per grado [...]. Desidero anch’io ardentemente al pari d’ogni altro Italiano, unità di governo e di massime, un tutt’insieme repubblicano democratico. Ma torno a dire che questo non può per ora né così subito ottenersi. Questo bel giorno lo vedranno i nostri figli e nipoti. Intanto a noi tocca prepararne la strada, spianarne il cammino, agevolarne la marcia. Ogni Stato libero d’Italia formi le sue legioni rivoluzionarie; ogni Stato le faccia marciare alla rigenerazione universale. In tal modo dispariranno senz’avvedersene le antiche antipatie tra stato e stato[2].

    Bonaparte era entrato trionfalmente a Milano il 15 maggio 1796, accolto come il liberatore dell’Italia. Circa due mesi prima, a Parigi, il Direttorio della Repubblica, in difficoltà economiche e finanziarie, gli aveva affidato un’armata con il compito di impegnare i piemontesi e gli austriaci sul fronte italiano; un fronte considerato di importanza secondaria rispetto alla grande offensiva contro gli Asburgo che avrebbe dovuto puntare direttamente su Vienna.

    Sotto la sua guida quell’armata di circa trentasettemila uomini male equipaggiati e insofferenti alla disciplina aveva cambiato volto, e in dieci giorni, tra il 12 e il 21 aprile, aveva sconfitto il re di Sardegna Vittorio Amedeo III – dal 1793 membro della prima coalizione antifrancese – a Montenotte, Millesimo, Dego e Mondovì, costringendolo a firmare l’armistizio a Cherasco il 28 aprile. Il 15 maggio, con la pace di Parigi, il Piemonte rimaneva Stato autonomo, ma veniva obbligato a cedere la Savoia e Nizza alla Francia.

    Sistemato il Piemonte, Bonaparte volse lo sguardo verso la Lombardia e, sconfitti gli austriaci a Lodi il 10 maggio, si aprì la strada per Milano, dove fece il suo ingresso lo stesso giorno della pace di Parigi, una domenica di Pentecoste. Le sue vittorie provocarono un terremoto nella cartina geopolitica della penisola: con gli austriaci rinchiusi a Mantova e senza possibilità di difesa, i piccoli Stati settentrionali della penisola – i Ducati di Parma e di Modena, le repubbliche di Genova e Lucca – stipularono immediatamente trattati di armistizio o di neutralità e furono costretti a pesanti contribuzioni in denaro per rimpinguare le finanze statali francesi, oltreché a cedere opere d’arte e illustri manoscritti, subito inviati da Bonaparte a Parigi a testimonianza dei successi ottenuti.

    L’offensiva dei francesi sembrò non conoscere ostacoli. Nel giugno entrarono nel territorio della Repubblica di Venezia, poi occuparono Bologna, Ferrara e le Legazioni, territori dello Stato Pontificio. Il 23 dello stesso mese anche il pontefice fu costretto all’armistizio e successivamente alla pace di Tolentino (19 febbraio 1797), con cui i francesi posero un pesante presidio nel porto di Ancona. A fine giugno, sull’altro versante della penisola, l’armata francese conquistò Massa, Carrara e Livorno, nonostante il Granducato di Toscana fosse rimasto neutrale.

    Dalla seconda metà del 1796 gli austriaci, ritiratisi a Mantova, tentarono diverse controffensive ma i francesi, con Napoleone personalmente in campo, riportarono una serie fulminante di vittorie a Bassano, ad Arcole Veronese il 17 novembre e, quella decisiva, a Rivoli 14 gennaio 1797. La guerra era passata anche dal territorio della Repubblica Veneta, e Bonaparte il 23 marzo era già a Trieste e il 31 a Klagenfurt. I fatti sono noti: i preliminari di Leoben nell’aprile spianarono la strada per la pace di Campoformio, firmato il 17 ottobre 1797, che avrebbe chiuso, seppur temporaneamente, le ostilità tra Francia e Austria. Di lì a breve Bonaparte avrebbe lasciato il comando dell’Armata per partire alla volta dell’Egitto.

    Campoformio consegnò il Belgio e la Lombardia alla Francia, mentre l’Austria occupò l’Istria, la Dalmazia e la parte orientale dei territori della Repubblica, compresa Venezia. Era la fine della Serenissima, che cadde così, impotente, e perse la sua secolare indipendenza.

    La delusione fra i patrioti fu enorme: il diciannovenne Ugo Foscolo, che nel maggio 1797 aveva composto un’ode A Napoleone liberatore firmandola liber’uomo Niccolò Ugo Foscolo, Italia, anno primo dell’Italica libertà, alla notizia della pace, sconvolto per il tradimento del generale, giurò di ucciderlo e di trafiggergli il cuore. Probabilmente non ci provò mai, ma è fuor di dubbio che le prime parole de Le ultime lettere di Jacopo Ortis si rifacessero proprio a quel 17 ottobre: il sacrificio della patria nostra è consumato. Tutto è perduto.

    Ma se l’Ortis era destinato a diventare uno dei testi fondamentali dei patrioti nei decenni successivi, al momento, come accennato, la delusione era cocente. Nell’anno e mezzo precedente infatti Napoleone aveva stravolto la cartina geopolitica dell’Italia e sin dal 27 dicembre 1796 a Reggio nell’Emilia un Congresso composto dai rappresentanti della città insieme a quelli di Bologna, Ferrara e Modena aveva proclamato la nascita della Repubblica Cispadana, cui presto si sarebbero unite anche Massa, Carrara e Imola: le popolazioni avrebbero formato un Popolo solo, una sola famiglia per tutti gli effetti tanto passati quanto futuri. Il 17 gennaio 1797, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, il Congresso aveva poi adottato il tricolore verde, bianco e rosso – a strisce orizzontali – come bandiera dello Stato.

    Non era che l’inizio, poiché tutto andò cambiando tumultuosamente. Il 19 maggio Napoleone decise di aggregare alla Lombardia i territori di Massa, Carrara, della Garfagnana, di Reggio e di Modena, e il 26 maggio venne istituita la Repubblica Cisalpina cui, dopo la pace di Campoformio, furono uniti anche i territori di Brescia, Crema e Bergamo, e successivamente anche Pesaro, la Lomellina e, ancora, i territori del Montefeltro. Sembrò, a molti, il nucleo di un futuro Stato nazionale italiano, sebbene al momento l’antica Repubblica di Genova rimanesse autonoma, come Repubblica Ligure.

    Con la pace l’illusione di una guerra per la liberazione dei popoli rivelò il suo vero volto di guerra di conquista, ma intanto anche il centro della penisola veniva investito dai francesi: nel dicembre 1797 l’assassinio del consigliere dell’Ambasciata di Francia a Roma Duphot offrì l’occasione a Napoleone di invadere lo Stato Pontificio. Ai primi di febbraio del 1798 la sua armata era già in vista di Roma, e il 15 un’insurrezione popolare guidata probabilmente dal Circolo costituzionale capitolino proclamò la Repubblica Romana, riconosciuta – e controllata, naturalmente – dalla Francia. Pio VI, dopo aver rifiutato come ovvio di perdere il potere temporale, venne bandito dai suoi territori e si rifugiò prima in Toscana e poi in Francia, a Valence, dove morì un anno dopo, nel 1799.

    Nel novembre, dopo pochi mesi dalla promulgazione della costituzione, la Repubblica Romana venne attaccata dall’esercito di Napoli, e lo stesso re Ferdinando IV riuscì a entrare a Roma e richiamare il papa. Ma in un paio di settimane i francesi, guidati dal generale Championnet, si ripresero la città e inseguirono l’esercito borbonico in rotta oltre i confini. Il 23 dicembre 1798 Ferdinando IV e la moglie Maria Carolina fuggirono da Napoli e, sotto la protezione dell’ammiraglio Nelson, si rifugiarono in Sicilia. Napoli fu difesa dai lazzaroni, ma i francesi e i patrioti riuscirono a occuparla dopo tre giorni di combattimenti, il 24 gennaio 1799. Due giorni dopo i patrioti napoletani proclamarono la nascita della Repubblica.

    In quei giorni, intanto, il cerchio si era chiuso: i francesi avevano costretto Carlo Emanuele IV – re del Piemonte succeduto a Vittorio Amedeo III – a cedere il controllo del Piemonte e a trasferirsi in Sardegna; tra gennaio e marzo anche la Repubblica di Lucca e il Granducato di Toscana furono occupati.

    Nel 1799 la penisola aveva quindi subito uno stravolgimento impensabile solo tre anni prima: il nord-est fino a Verona era passato sotto l’Austria; ai Borbone rimaneva solo la Sicilia, e ai Savoia solo la Sardegna. Piemonte e Toscana erano controllate direttamente dalla Francia e, sebbene sotto Bonaparte, il rappresentante della rivoluzione, vi erano cinque repubbliche sorelle formalmente autonome (Cisalpina, Ligure, di Lucca, Romana e Partenopea).

    Ma la nuova cartina politica dell’Italia era solo una delle novità: se è vero che tale sistemazione era funzionale al progetto egemonico di Parigi nel contesto europeo – progetto che non a caso faceva della guerra all’Austria il suo epicentro – è altrettanto innegabile che, al di là delle ruberie, dei saccheggi e delle pesanti contribuzioni cui furono sottoposti i territori italiani, la campagna d’Italia aveva scatenato una tempesta, acceso energie rivoluzionarie e nuove speranze. L’impresa del giovane generale corso aveva inevitabilmente risvegliato e alimentato aspirazioni di rinnovamento, poiché egli appariva ai giacobini o patrioti – come si definivano – come il liberatore, il messaggero dei più alti ideali della rivoluzione: non per caso i manifesti che le armate francesi pubblicavano recavano il motto Liberté-Egalité. L’onda della rivoluzione era giunta anche in Italia, e a nord come a sud si sentiva gridare Viva la Francia, si fondavano club politici e si innalzavano alberi della libertà.

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