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Gemini
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Ebook366 pages5 hours

Gemini

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About this ebook

Immagina una Germania diversa da quella che conosci. Dopo la caduta del muro, il Paese è diventato una potenzia mondiale grazie al Cancelliere Seiffarth; non ci sono dissenso né crimini e tutti vivono una vita serena. Ma se fosse una menzogna?

Jacob e Rudolf Reinhardt vivono a Berlino. Ventitré anni e una certa popolarità, i due hanno alcuni inspiegabili poteri, ma non hanno ricordi prima dei dieci anni.

Tutto comincia da un sogno ricorrente comune ai fratelli. Jacob si ritrova rincorso in una foresta; Rudolf osserva la stessa bruciare. Come se non bastasse, ogni notte il sogno s’arricchisce di dettagli, finché capiscono che quelle non sono solo visioni, ma una pista da seguire.

Gli eventi conducono i fratelli nella foresta, dove incontrano una ricercatrice, Arianna. Jacob sente che la ragazza nasconde qualcosa di assai pericoloso: un segreto che ha portato alla morte i suoi genitori e che minaccia la sua vita ancora oggi.

Una tragedia unisce i destini di Jacob e Arianna, che divide con i gemelli la verità che cela dentro sé: il Paese è controllato dagli Echi, letali ibridi umanoidi al servizio del Cancelliere. E questa sconcertante scoperta fa riaffiorare un altro segreto: il passato dimenticato di Jacob e Rudolf che, emerso, cambierà per sempre le loro vite e minaccerà le loro stesse esistenze.

E sarà lotta per la sopravvivenza.
LanguageItaliano
Release dateJan 10, 2013
ISBN9788898326006
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    Gemini - Jacopo D. Molfese

    GEMINI

    Di Jacopo Daniele Molfese

    Tutti i diritti riservati

    Gemini, The Gemini Saga, Kramer Industries sono marchi registrati. Ogni utilizzo improprio sarà perseguito a norma di legge.

    Impaginazione a cura di Matteo Poropat (eBookAndBook.it)

    Copertina a cura di Federico Rebusso (federico.rebusso@gmail.com)

    Seconda edizione digitale: Giugno 2014

    Pagina ufficiale: www.thegeminisaga.com

    Segui la Saga anche su Facebook al link: www.facebook.com/TheGeminiSaga

    J. D. Molfese

    GEMINI

    A mamma, Matteo e Filippo

    Ma se invece, io penso, acquistate delle conoscenze prima di nascere, noi le perdiamo nascendo […];

    ebbene, questo che noi diciamo apprendere, non sarà un recuperare conoscenze che già prima ci appartenevano?

    Platone.

    Marzo

    Due occhi blu puntati sullo schermo.

    Il piccolo portatile con firewall fisico incorporato era ora agganciato alla rete wireless pubblica e scaricava fiumi di dati. Il tutto ovviamente con un indirizzo IP fasullo per non farsi individuare.

    Nascosta nel cappuccio della sua giacchetta di pelle, nel pomeriggio di quella giornata primaverile, la ragazza muoveva freneticamente le sue dita eleganti sulla tastiera oramai consumata, alla ricerca di qualcosa, con i minuti contati.

    Bingo, si disse d’un tratto.

    Sullo schermo del suo computer, il software sperimentale per la clonazione di tutti i numeri di cellulare registrati in città restituì qualcosa come sei milioni di voci. La ragazza attivò quindi una ricerca automatica, tarando il programma sul nome del suo target, il gemello dell’artista.

    Pochi secondi dopo, il programma evidenziò cinque numeri di telefono, tutti contratti chiusi nell’arco di pochi mesi, e un sesto ancora attivo, tutti che si rifacevano alla stessa persona.

    Nessuna omonimia, si rassicurò la ragazza, che lanciò allora un altro programma da lei stessa sviluppato per tracciare le chiamate effettuate con l’ultimo numero attivo del suo target. Digitò ancora qualcosa sulla tastiera, gettò uno sguardo intorno a sé con aria furtiva e infine premette invio.

    Qualche secondo dopo, sulla mappa della città apparve una ragnatela di righe gialle: gli spostamenti del telefono cellulare del target nelle ultime 48 ore. C’erano una manciata di percorsi, che portavano più o meno tutti in due o tre luoghi: l’università, la biblioteca, il supermercato…

    Anche tu ti nutri di cibo umano allora, si disse abbozzando un sorriso.

    Qualcosa catturò la sua attenzione: ciascun percorso sembrava non avere un’origine ben precisa, o per meglio dire, al centro della ragnatela non c’era una sola origine, ma molte disposte in maniera circolare. Come se il suo target procedesse sempre da un punto d’origine sconosciuto con il telefono cellulare spento e poi lo accendesse superata una certa distanza e ogni volta seguendo un percorso differente dal precedente.

    E poi, all’improvviso, la ragazza rimase folgorata da un’intuizione.

    Afferrò la borsa e cominciò a frugarla finché trovò il suo preziosissimo diario rosso. Era un libricino stracolmo degli appunti del padre e, anche se era incompleto – la seconda metà non c’era più – era l’unico oggetto che la legava ancora al suo passato.

    Si alzò in piedi di getto, scoprendosi il capo e volgendo gli occhi a sud. Poi, cercando una conferma al suo lampo, aprì il piccolo volume:

    Con il Duomo alle spalle e lo sguardo rivolto a Ovest, oltre il fiume, la dimora del Creatore è a Sud, oltre il Ministero degli Affari Esteri.

    Non c’era dubbio. Il palazzo con l’attico di vetro che si intravvedeva in lontananza era il centro della circonferenza da cui originava la ragnatela di righe gialle sulla mappa.

    Adesso so dove abiti, si disse, prima di sparire in mezzo alla folla.

    1

    Attorno a me macchie di bianco.

    Mi trovavo in uno spazio immenso, leggermente in salita, ricoperto da un sottile strato di neve ghiacciata. Da quel cielo avvolto nella fitta coltre di nubi grigie, i raggi del sole filtravano pallidi e colpivano il mio viso. Il freddo era insopportabile.

    Non avevo idea di come fossi finito in quel luogo, ma il suono lontano e ovattato della neve che cadeva dai larici mi evocava una sola cosa. Ero vicino alla foresta e mi trovavo là, in quel luogo dimenticato da Dio, chissà per quale ragione.

    Mi voltai e gettai uno sguardo su ciò che mi circondava, come se stessi cercando qualcosa. O qualcosa stesse cercando me.

    Indossavo una giacca grigia e, con tutta quella neve e la foschia, ero sicuro che difficilmente qualcuno mi avrebbe visto. Già, non volevo essere individuato.

    Avanzai per qualche passo seguendo il suono della neve che precipitava dolcemente al suolo, dapprima cautamente, poi quasi correndo. La foresta era sempre più vicina e, benché la salita si facesse più aspra, non provavo alcuna fatica. Quasi non respiravo e il mio cuore batteva lentamente, sereno e senza sforzo, contraddicendo le mie emozioni: mi sentivo inseguito, braccato, senza capirne il motivo.

    Mi addentrai nel labirinto di alberi, spiando ogni cosa attorno a me. Scostai i rami, affondando i piedi in un terreno sempre più fangoso e difficile, fino a quando giunsi a una radura.

    Di fronte ai miei occhi si materializzò la dissonante figura dello scheletro di un bunker. Un insieme di arti smembrati di cemento innalzati al cielo e erosi dalle intemperie, che mostravano la loro ossatura d’acciaio, e un maestoso portone di ferro con uno stemma rosso erano tutto ciò che rimaneva di quell’antico edificio.

    In quell’istante il sole cominciò a farsi strada con più forza tra le nubi. Ora il cielo si tingeva d’azzurro, nella trama delle fronde delle piante, e i miei occhi furono penetrati da un bagliore accecante. Ebbi la sensazione di vedere il mondo attorno a me con colori diversi, falsi, come un’immagine in negativo. Ma presto tutto tornò come prima.

    Davanti a me apparve dal nulla una figura femminile. Prese forma a poche decine di metri da me, di spalle, proprio di fronte al bunker. Sussurrava qualcosa che non riuscivo a capire. La sua voce era soave, angelica. Il vento gelido le scompigliava i capelli castani e la veste, un mantello purpureo, che si gonfiava e attorcigliava intorno al corpo, in un movimento unisono con quello della sua chioma.

    Questa presenza, dolce e fragile, strideva con l’ambiente circostante, aspro e lugubre. Avrei voluto portarla via, allontanarla da quel luogo così spaventoso, così provai a chiamarla, ma lei non mi sentì. Poi, lentamente, cominciò a voltarsi, porgendomi la mano sinistra. Era bellissima e all’anulare portava un piccolo anello d’oro bianco.

    Non desideravo altro che sfiorare quella delicata creatura, ma temevo di poterla ferire. Un grammo di pressione in eccesso delle mie dita sulla sua pelle e le sue ossa si sarebbero frantumate come cristallo. Lei percepì il mio disagio e voltò leggermente il capo verso di me, fino a mostrarmi il suo profilo. Sorrideva, dolcissima.

    Mi avvicinai ancora, tanto lentamente da sembrare fermo ai suoi occhi, quando, ad un tratto, mi sentii sprofondare. Il terreno sotto i miei piedi franò, ed io precipitai nel baratro.

    Spalancai gli occhi sobbalzando; era stato solo un sogno.

    «Signor Reinhardt? Reinhardt è ancora tra noi?».

    All’improvviso mi resi conto di dove mi trovassi. Banchi, persone, studenti, libri, una cattedra, due lavagne scorrevoli. Ero a lezione in università e, come un idiota, mi ero assopito facendomi beccare in pieno e ora, ancora peggio, avvampavo per l’imbarazzo.

    «Signor Reinhardt?», incalzò il professore.

    «Mi scusi professor Himmel», mormorai, rimettendo insieme le pagine del mio raccoglitore per darmi un contegno. Le risatine in aula non bastarono a staccarmi dalle emozioni del sogno: mi ero visto morire, santo cielo che ansia. E poi lei, la ragazza misteriosa… chi diavolo era?

    Una volta sistemate le mie carte, il professore increspò le labbra e tornò a scrivere la sua formula, affascinante e complessa, sulla lavagna.

    «Fatto bei sogni?», mi domandò la mia amica Sara.

    «Non stavo dormendo», mentii facendo una smorfia.

    Lei ridacchiò.

    «Suvvia, lasciatelo stare!», prese le mie difese una voce maschile alle mie spalle.

    Era Simon Stern. Lui era un vero genio dell’algebra ed amava considerarsi mio amico, benché avessimo avuto solo una manciata di scambi nei quattro anni precedenti. Era il classico bravo ragazzo sempre disposto ad aiutare tutti con lo studio. Indirizzai un sorriso a Simon e tornai a immergermi nella lezione del professor Himmel.

    La formula sulla lavagna richiese un’interminabile spiegazione. Tradii la mia impazienza portando una sigaretta spenta alla bocca, pronto a scattare fuori dall’aula. Non vedevo l’ora di uscire per accenderla e farmi una bella dose di nicotina, l’ideale per rilassarsi dopo la figuraccia e quell’inspiegabile sogno. Non riuscivo a pensare ad altro e mi stavo convincendo che non si trattasse di una semplice coincidenza.

    «Ehi ragazzo dove te ne vai così di fretta?», disse Sara, assieme a un’amica decisamente appariscente.

    «Io… ecco… Comunque, a scanso di equivoci, te l’ho già detto: non stavo dormendo!», dissi divertito.

    «Sì, sì, vallo a dire a qualcun altro» – rispose lei punzecchiandomi la pancia con l’indice – «Senti, vieni a pranzo con noi?».

    «Mmm… Grazie, ma preferisco andare a ripassare. Sai, Himmel è… soporifero!».

    Sara ridacchiò. «In effetti! E poi non è nemmeno così simpatico. Ma tu… Dai, addormentarti in classe!» – disse – «Non è da te, secchione mio! Ma mi fa piacere vedere che stai meglio… un paio di mesi fa avevi una faccia… L’hai più sentita quella?».

    Scossi il capo. «No, è scomparsa. Meglio così. Comunque, quello che è successo oggi in aula non è niente, a volte faccio di peggio!», replicai.

    «Non ti ci vedo».

    «Non hai immaginazione allora» – risposi accennando un sorriso, poi guardai l’orologio – «Scappo Sara, ci vediamo domani».

    Lei rispose mimando un bacio, poi mi voltai, sentendo le ragazze bisbigliare.

    Di fronte all’ingresso c’era un gruppetto di quattro o cinque persone che distribuivano volantini di carattere politico, capeggiati da un individuo che con voce squillante parlava di un complotto del Governo o qualcosa del genere. Non diedi troppo peso alla cosa e mi allontanai, ma dentro di me trovavo abbastanza fastidiosa la presenza di quella gente e di una folla di una dozzina di studenti che ascoltavano e inveivano contro il nostro Paese. Che accidenti avevano da lamentarsi?

    «…Loro vi chiudono gli occhi! Pensate di vivere in una democrazia, ma vi sbagliate, il loro potere arriva a plagiare le vostre vite!», disse il leader degli attivisti.

    I soliti esibizionisti, pensai, rifiutando di prendere l’opuscolo.

    Il sole era alto nel cielo di settembre e, leggermente velato da qualche nuvola, allungava le ombre sull’asfalto del marciapiede. Indossavo una camicia azzurra arrotolata sui polsi e mi nascondevo dietro a un paio di occhiali da sole squadrati. Oramai ero diventato bravissimo a mimetizzarmi tra i miei coetanei e quasi nessuno si accorgeva di me. Almeno finché mio fratello non si trovava nei paraggi, allora le cose cambiavano parecchio.

    Non avevamo mai avuto una famiglia normale, per così dire. Nostra madre era morta quando io e Rudolf, il mio gemello, eravamo molto piccoli, tanto che nemmeno ne avevo ricordi. Fu nostro padre a crescerci, anche se, tutto sommato, non fu mai così presente. La sua severità però e le sue regole, accidenti, quelle pesavano come macigni.

    Non correte in pubblico, non maneggiate oggetti di vetro, siate sempre delicati ad afferrare le cose, non giocate a palla, state attenti a non toccare le persone, evitate di fissare le luci direttamente quando siete al buio…

    Erano regole strane, ma in effetti non si poteva dargli torto.

    In ogni caso, a sedici anni, nostro padre riuscì a procurarci un provino per una serie televisiva. Ci teneva moltissimo e sperava che forse avremmo potuto avere un futuro nel mondo dello spettacolo. Non andò bene, anzi, fu un vero disastro. Ma almeno io e mio fratello capimmo che avremmo preso strade ben diverse. Lui scoprì un grandissimo talento per la pittura, un talento così sbaragliante che in soli due anni divenne famoso in tutto il mondo. Addirittura arrivò ad esporre al Tate Modern di Londra, diventando il più giovane artista della storia a esporre in quel museo. Quanto a me le cose furono un po’ diverse. Per qualche mese tentai di restare nel mondo dello spettacolo, ma tutto ciò che riuscii a concludere furono un paio di pubblicità in cui in totale, forse, la mia faccia compariva per meno di dieci secondi. Un po’ deluso – o forse nemmeno così tanto – la superai abbastanza in fretta e capii una cosa, cioè che non ero il tipo da stare al centro dell’attenzione. Essere il protagonista di qualcosa, una posizione dove tutti ti guardano e fanno affidamento su di te… no, non era la vita che volevo. Così per un po’ aiutai mio fratello a organizzare la logistica delle sue mostre. Spostare le opere e cose del genere. Ovunque lui andava, io ero con lui. Insieme eravamo una forza; eravamo i fratelli Reinhardt: chi diavolo mai avrebbe potuto fermarci?

    Ma piano piano quella celebrità e tutto quel clima di euforia rivelò il suo lato nascosto. In più essere figli di nostro padre, il premio Nobel Karl Reinhardt, non aiutava affatto.

    Il fatto che Rudolf fosse diventato così noto e così in breve tempo e, di riflesso anche io, e contemporaneamente essere figli di un grande scienziato famoso in tutto il mondo cominciava a diventare una sofferenza, più che un onore. Io e Rudolf avevamo solo diciotto anni e benché molto fortunati, in fondo volevamo anche divertirci come dei ragazzi della nostra età. E invece non potevamo uscire da soli, non potevamo frequentare liberamente i nostri amici, non potevamo andare al cinema senza che tutta la città lo sapesse, per non parlare poi di quelle volte in cui rischiammo di mettere nostro padre in cattiva luce. Bastava una festa oppure una sbronza con gli amici in un pub per sollevare un gran polverone con nostro padre. Così, a diciannove anni e sull’orlo di crisi depressiva, Rudolf si ritirò dal mondo delle mostre e io, poco dopo, mi rintanai in me stesso.

    Abbandonato quel mondo fatto di salotti e sorrisi più o meno finti, furono mesi strani. Insomma, sei sotto ai riflettori negli anni più belli della tua vita e all’improvviso tutto finisce. E anche se ti senti meglio, ti senti libero, in fondo ti manca qualcosa, una passione nuova, uno stimolo. Fu allora che mi innamorai della matematica, una scienza così perfetta e affascinante, che mi riavvicinò a mio padre, fisico di grande successo.

    Impiegammo circa un anno per riprendere in mano la nostra vita, giungendo a un nuovo equilibrio. Rudolf prese a dipingere per sé stesso, lasciandosi alle spalle le mostre e io cominciai a studiare l’algebra, scoprendo un talento che non solo non conoscevo ma che addirittura divenne una ragione di vita. Tanto che, con l’ingenuità di un adolescente ma anche con la voglia di sognare, pensavo che presto sarei diventato un grande ricercatore come mio padre e che avrei fatto a mia volta qualcosa di veramente importante per il mio Paese.

    Ma proprio quando le nostre vite sembravano oramai serene, accadde la tragedia e tutto cambiò, gettandoci nel baratro. Nostro padre morì tragicamente in un incidente a bordo di un elicottero due giorni prima del nostro ventesimo compleanno. Il destino ha senza dubbio una crudele ironia.

    La notizia della sua scomparsa generò molto scalpore. Qualcuno parlò di un evento inscenato per scomparire e rifarsi una vita altrove, ipotesi avvalorata dal fatto che tra i rottami non c’erano resti umani riconducibili a nostro padre. Altri invece, che non credevano ad una messa in scena, parlarono di un complotto contro di lui.

    Io e Rudolf non sapevamo cosa pensare all’inizio. Eravamo soli al mondo. E alla fine accettammo il fatto che nostro padre era morto e non avremmo mai più potuto riabbracciarlo.

    Tra le chiacchiere della gente e i commenti dei suoi colleghi, ciò di cui nessuno si accorse fu la profonda solitudine che io e mio fratello ci ritrovammo a vivere. Ma come se questa tragedia non bastasse, poco dopo la vita cominciò a prendersi gioco di noi due. Di nuovo, infatti, eravamo tornati a far scalpore non tanto per il nostro passato, ma perché figli di un personaggio importante, noto in tutto il mondo per le sue ricerche, precipitato in un crepaccio a bordo di una stupida macchina volante.

    Io e Rudolf avevamo modi diversi di affrontare la cosa. Io tendevo a mimetizzarmi, perché detestavo con tutte le forze essere al centro dell’attenzione. Mio fratello, al contrario, in quella situazione ci sguazzava, si gongolava compiaciuto, facendo di tutto per attirare gli sguardi della gente, più per prendersene gioco che per altro.

    Così, sicuro di non essere notato tra i numerosi ragazzi che uscivano dalla facoltà di matematica, mi recai al solito bar per ripassare gli appunti e mangiare qualcosa.

    «Buongiorno Elsa», dissi, rivolgendomi alla signora dietro al bancone.

    «Ciao giovanotto, che brutta cera hai oggi», disse scuotendo il capo.

    «Sì, ecco… Lezione pesante», tagliai corto.

    «Avessi potuto studiare io alla tua età!» – sospirò malinconica – «Allora, il solito?».

    Annuii sorridendo. «Beh io mi siedo».

    «Sei a casa, tesoro».

    Sorrisi ancora e mi accomodai al solito tavolo all’angolo, estraendo gli appunti della lezione. Formule, qualche riga presa distrattamente. Che accidenti avevo scritto su quel foglio?

    Sbuffai e mi passai una mano tra i capelli, mentre Elsa mi portò il solito sandwich, dandomi una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. Quella donna aveva una bella empatia e probabilmente aveva colto la mia difficoltà a ripassare i miei appunti.

    Mangiai rapidamente e poi mi gettai a capofitto nello studio, ma dopo qualche minuto la mia mente cominciò a divagare, ritornando su quello che era successo in classe poco prima.

    Non era la prima volta che sognavo quella foresta, né quella ragazza. Avevo fatto lo stesso sogno per almeno altre dieci volte prima di quel pomeriggio e in ciascuna avevo vissuto la medesima scena, ogni volta arricchita di nuovi dettagli. All’inizio era cominciato con una corsa in una foresta innevata, poi si era trasformato in un inseguimento, e poi ancora la radura, il bunker e quella figura angelica. Un susseguirsi di attimi e di scene che trascendevano ogni logica.

    Un sogno ricorrente. Tzé, psicologia spicciola, mi dicevo. Eppure… mi sta capitando.

    E poi quella figura femminile. Chi diavolo poteva essere, chi mi ricordava?

    Ero certo di non aver visto – o sognato – nulla di più aggraziato. Probabilmente era una sorta di bellezza femminile idealizzata o qualcosa di simile.

    All’improvviso il flusso dei miei pensieri fu interrotto dalla vibrazione del cellulare.

    «Rudolf!».

    «Ciao fratello!» – rispose – «Allora, come va? È un po’ che non usciamo io e te».

    «Già, lo sai, tra poco è periodo di esami e sono parecchio indietro».

    «Beh, ma hai tempo per me ora, vero?», domandò.

    «S-sì, ma dove sei?», replicai.

    «Affacciati».

    Uscito dal locale, Rudolf mi aspettava a bordo della sua moto. Eravamo pressoché identici, ma Rudolf, con qualche ruga in più, sembrava inspiegabilmente più vecchio di me. Non che io sembrassi un ragazzino, al contrario: spesso mi scambiavano per uno più vicino ai trenta che ai venti. Ma lui i trent’anni, almeno in viso, li superava eccome. Forse era colpa delle troppe lampade abbronzanti o forse perché non aveva buone abitudini alimentari e si riempiva di schifezze. Ma a parte questo, il nostro carattere era profondamente differente. Lui era più aperto e socievole, ma proprio come me talvolta era sopraffatto dall’ansia. Era un tipo alla mano e qualche volta dal carattere esplosivo, mentre io ero più sulle mie.

    «Ciao bestiaccia», disse sorridendomi.

    «Che ci fai qui?», domandai.

    «Ho fatto un salto al centro commerciale. E poi avevo voglia di vederti… e ovviamente eri da queste parti…» – rispose – «Ehi va tutto bene? Hai l’aria di uno che ha visto la morte in faccia».

    Esitai un momento. «Sì beh, prima… prima ho avuto una specie di visione».

    Rudolf fece un mezzo sorrisetto nervoso. «Quindi è periodo di esami», tagliò corto.

    «Sì, tra qualche settimana», continuai.

    «Ma stasera esci con me, vero?».

    «Mi piacerebbe, ma davvero, non posso permettermi di perdere tem…», venni interrotto.

    «Dai, esci di casa una buona volta! Ci sono anche la mia ragazza e una sua amica. Molto carina. E single, molto single».

    Aggrottai la fronte e sorrisi, non sapendo come contraddirlo. «Beh, se la metti così…».

    «Ti farà bene. Da quant’è che non esci? Un mese? Due? Coraggio, hai solo ventitré anni, sei un po’ giovane per fare l’eremita. Ti aspetto al Sushi Izu per le otto stasera».

    Annuii. «D’accordo».

    Rudolf ridacchiò e sgommò via, e un attimo più tardi i miei pensieri tornarono a concentrarsi al sogno ricorrente. In un mare di dubbi, mi accesi una sigaretta e mi avviai verso casa.

    Aprile

    La ragazza dagli occhi blu abitava in uno dei quartieri peggiori della città. Viveva in un appartamento di trenta metri quadri con un arredamento estremamente essenziale, ma con un bel soggiorno con le pareti rivestite di legno che trasmettevano un po’ di calore e un’aria di famigliarità.

    Vestita con una canottiera stracciata e shorts neri, la ragazza si scaldò una tazza di caffè e si sedette a terra, di fronte al suo computer portatile perennemente acceso, ora collegato a uno schermo più grande.

    Digitò qualcosa e sullo sfondo grigio apparvero i movimenti e il saldo del suo conto corrente. Aveva di che vivere per due generazioni, ma da qualche tempo, muovere il denaro che aveva ereditato da una banca all’altra era diventato più difficile. I controlli cominciavano a essere serrati, segno che forse era tempo di cambiare identità o andare via dal Paese per qualche tempo.

    Sul tavolino al suo fianco c’era l’anello di sua madre e, subito accanto, giaceva una pigna di documenti fasulli: patenti di guida, carte d’identità, passaporti. Oramai cambiare identità era per lei una semplice routine, oltre che un modo per sopravvivere. Cambiava nome così spesso che il suo vero nome nessuno lo sapeva tranne lei stessa, custodito come un segreto in fondo al cuore.

    Chiusa la pagina della banca, la ragazza aprì di nuovo il browser di Internet e cominciò a sfogliare nella rete tutte le informazioni che aveva sul suo target. Cliccò su un link e si aprì Youtube. Qualche secondo di caricamento e si trovò di fronte la pubblicità di uno scooter elettrico guidato nientemeno che dal suo target.

    Come presenza scenica non sei granché.

    Sorrise e aprì un altro link, che la rimandò a un video girato con uno smartphone durante la presentazione di un quadro in cui si vedeva il suo target tra le prime file della platea.

    Ma almeno sei carino.

    Di video del genere ne trovò una decina e se li guardò tutti. Roba da pochi minuti ciascuno, alcuni in cui il suo target appariva per frazioni di tempo talmente piccole da essere misurabili in fotogrammi. Ma mentre lo fissava, su quello schermo led, dentro di lei prendevano forma i dubbi. Come avrebbe fatto a entrare in contatto con loro, con lui? Era veramente lui il predestinato, quello che avrebbe dovuto garantirle la salvezza, indicato nel diario del padre? E che dire del suo gemello? Anche lui sarebbe stato dalla sua parte?

    La ragazza sbuffò e si prese il capo tra le mani, gettando lo sguardo a terra. Poi alzò gli occhi e fissò le immagini del suo target che scorrevano in movimento nel video. I suoi occhi grigi erano così… strani. Tutta la sua perfezione era strana in effetti. Con il corpo così proporzionato e statuario e quel viso di una bellezza quasi d’altri tempi, il suo target sembrava più un disegno al computer che una persona in carne ed ossa.

    A dire il vero, lei conosceva bene l’origine di tanta perfezione.

    2

    Bruno Kramer si risvegliò nel centro del suo ufficio, con le mani legate dietro allo schienale della sua sedia a rotelle. Aveva la gola secca e gli bruciavano gli occhi e Dio sa da quanto tempo fosse in quella stanza.

    La sera era calata e l’unica luce proveniva da uno spiraglio della tenda. Un lieve bagliore azzurrognolo illuminava i quadri alle pareti. Tutto gli era così famigliare, eppure così angosciante.

    Era l’amministratore delegato della Kramer Industries, un insieme di società altamente specializzate in diverse aree, tra le quali spiccavano per rilevanza i settori delle biotecnologie, quello della ricerca applicata sulla fisica delle particelle e quello dei conduttori. Nell’insieme, il gruppo di aziende formava una delle società più ricche e influenti contemporanee, capace di condizionare anche le scelte politiche del paese ottenendone vantaggi e privilegi.

    Il governo tedesco e la Kramer Industries collaboravano da tempo in un progetto segreto, un segreto capace di uccidere. Questo era capitato a chiunque aveva provato a svelare la verità. E presto, Bruno sapeva che sarebbe giunto il suo tempo.

    Chiuse gli occhi un istante, pregando che la sua anima venisse salvata. Nel suo cuore bruciava un senso di colpa. Sapeva perché si trovava là, in quell’ufficio, con i minuti contati. Era la pena da pagare per aver sempre trattato con indifferenza il suo figlio adottivo, Zoltan, uno dei sopravvissuti della prima generazione che circolavano liberi per la città.

    Zoltan entrò nella stanza interrompendo le sue preghiere.

    «Padre», lo salutò.

    «Zoltan… Liberami, ti prego», sussurrò.

    Il giovane, non molto alto, fisico massiccio, girò intorno alla sedia a rotelle del padre, sfiorandogli le spalle.

    «Perché?», domandò con la sua voce flautata.

    «Per favore, non fare sciocchezze, liberami e parliamo da padre a figlio».

    Il ragazzo ridacchiò. «E da quando mi consideri un figlio, padre?» – cominciò – «Non mi hai sempre definito scherzo della natura o errore di produzione?».

    Bruno scosse il capo. «Ho fatto tanti errori con te, Zoltan. Ho spesso avuto paura

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