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Anime Smarrite
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Anime Smarrite

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Chi sono le "anime smarrite" e perché cerchiamo di tenerle il più possibile lontane da noi invece che tentare di aiutarle?

Caterina è una giovane infermiera che presta servizio presso Villa Ebe, una casa di riposo per anziani che sorge solitaria su una collina come un eremo. Il rapporto che ha instaurato con i suoi pazienti è qualcosa che va oltre l’ordinario, tanto da indurla a vedere il mondo con i loro stessi occhi. Sono loro le "anime smarrite", che hanno messo da parte la propria vita passata senza avere la possibilità di costruirne una futura. Il loro tempo è scandito diversamente da quello del mondo di cui Caterina fa parte, sempre di corsa e pieno di incertezze. Se tutti coloro che entrano in contatto con Villa Ebe rifuggono quella realtà, fatta di malattia e solitudine, Caterina non solo l’accetta, ma l’accoglie fino a penetrarla e farla sua, riuscendo addirittura a percepirne la bellezza.

Anime Smarrite sono tutti quelli che hanno smarrito la strada e cercano un punto di partenza per ricostruire la propria vita. Sono gli altri che teniamo distanti, ma che poi alla fine siamo ancora noi.
LanguageItaliano
Release dateOct 10, 2015
ISBN9788892505117
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    Anime Smarrite - Marzia Cortese

    MARZIA CORTESE

    ANIME SMARRITE

    Immagine in copertina: Pozzo di San Patrizio, fotografia di Giovanni Marco Rozzoni.

    UUID: a027a4c0-c3a9-11e6-81d0-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

    Gabriel García Márquez

    A mia sorella Alessia

    e a chiunque sia in grado di percepire 

    la travolgente bellezza di un fiore 

    che sta appassendo. 

    CAPITOLO I

    Villa Ebe

    - Allora, Fiona, come andiamo? 

    - Mi sento stanca.

    - Hai dormito?

    - Sì, ma sono stanca lo stesso.

    - Saranno i tranquillanti.

    - Non ci voglio stare qui. Voglio tornare a casa mia.

    - Perché? Ti trovi male qui da noi?

    - No, ma voglio tornare a casa mia.

    - Mi hanno detto che a pranzo non hai mangiato.

    - Non ho soldi con me e non mangio quel che non posso pagare.

    - Non hai di che preoccuparti. E’ già tutto pagato.

    - E chi ha pagato?

    - Tuo figlio.

    - Mio figlio?

    - Proprio lui.

    - Ah!

    - Mi prometti che domani mangerai?

    - Sì – rispose di getto, senza esserne troppo convinta.

    - Bene.

    - Se me ne ricordo – si affrettò poi a precisare, come se fosse consapevole del fatto che lo avrebbe quasi certamente dimenticato.

    Caterina era abituata a quel tipo di risposte, perciò non vi diede troppa importanza.

    - Allora, se non c’è altro, io andrei. Ci vediamo domani, Fiona.

    - Domani … sì certo – l’anziana donna ebbe un attimo di esitazione, come se cercasse qualcosa nella mente che le sfuggiva. Dopo di che, riprese con il suo mantra:

    - Poi, però, torno a casa mia.

    L’infermiera abbozzò un sorriso, di quelli involontari dettati dalla tenerezza che sfiora l’anima senza toccarla, restando in bilico tra bellezza e amarezza. Le affermazioni di certi pazienti riuscivano a sorprenderla ogni volta, lasciandola senza parole, perché certe emozioni non hanno voce, ma si limitano a vibrare come un soffio, così leggero eppure così presente.

    Il turno era terminato. Caterina si avviava con passo svelto verso la sua Dyane 2cv celestina, di seconda o terza mano, che aveva parcheggiato un po’ di traverso la sera prima nel cortile antistante l’imponente struttura in stile liberty dalla quale si apprestava ad uscire.

    Non era colpa sua se non trovava mai posto in quel dannato cortile, dove avrebbe dovuto parcheggiare soltanto il personale sanitario e invece come al solito ci parcheggiavano tutti.

    Quando le toccava il turno della notte, Caterina era già stanca. Aveva una giornata di lavoro domestico sulle spalle, e perciò non aveva alcuna voglia di girare in lungo e in largo per andarsi a cercare un parcheggio. Così, appena trovava un piccolo buco, subito vi si infilava come un topo nella sua tana.

    Caterina era una donna a trecentosessanta gradi. Lavoratrice e madre di tre figli, tutti maschi, a volte si stupiva di se stessa e di come riuscisse a coniugare il tutto in maniera tanto egregia. Il suo era un andirivieni continuo; ogni minuto del giorno e della notte era estremamente prezioso, tanto da dover riuscire ad incastrare ogni cosa per far sì che a fine giornata ogni tassello del puzzle fosse stato debitamente inserito al suo posto.

    L’interno della sua auto era un vero campo di battaglia. Per accomodarsi ai sedili posteriori era necessario farsi spazio in mezzo ad ogni sorta di cianfrusaglia: incarti avanzati di caramelle, peluche, robot, dinosauri e macchinine da corsa. D’altra parte, con tre bambini piccoli da gestire, non è che si potessero fare miracoli. Fortuna che, fatta eccezione per qualche collega una tantum, non era solita trasportare altri passeggeri che non fossero i suoi figli; perciò la cosa riguardava soltanto lei e loro, oltre che la povera Dyane ovviamente. Quella era un’automobile che aveva sempre desiderato. Quando le era giunta notizia che un vecchio amico di suo padre voleva disfarsene, aveva subito colto l’occasione per acquistarla. A dire il vero, era un po’ vecchiotta, ma tutto sommato messa bene e svolgeva egregiamente i suoi compiti. Per Caterina non si trattava di una semplice automobile, ma di una vecchia compagna di viaggio; di quelle che non ti abbandonano neanche nei momenti più difficili, e che sanno fare fino in fondo il proprio dovere. I suoi grossi fanali sporgenti davano l’impressione di due occhi spalancati sul mondo e a volte sembravano perfino chiedere pietà per come la conciavano i bambini.

    Le giornate di Caterina erano tutte piene. Non c’era tempo per perdersi in inutili frivolezze; bisognava organizzarsi per non restare indietro. C’era sempre un gran da fare, ma era la sua vita e in qualche maniera l’aveva scelta lei, anche se non voleva riconoscerlo. Aveva sempre desiderato una famiglia numerosa; i suoi figli erano insieme la sua gioia e la sua disperazione, senza di loro non avrebbe mai potuto vivere perché li considerava il pilastro della sua esistenza.

    Era alta, Caterina, e snella come un fuscello. Aveva un portamento sinuoso e il suo passo leggero sembrava sfiorasse appena il terreno. La pelle del viso, già di per sé chiarissima, risaltava in maniera eccessiva a cospetto dei capelli corvini, che teneva raccolti sulla nuca lasciando la fronte scoperta. Il risultato era un’immagine di perfetto ordine che, abbinato al camice bianco che indossava per ragioni lavorative, trasmetteva un senso di igiene e purezza che andava a cozzare con quella che realmente era la sua personalità. Appariva infatti tanto impeccabile sul lavoro quanto disordinata in ambiente domestico, ma avrebbe stupito il contrario nelle sue condizioni. Tre piccole pesti erano qualcosa di non facile da gestire, e la cura personale in quel caso passava in secondo piano. Ad ogni modo, Caterina era una che badava all’essenziale, che quasi sempre non è visibile nell’immediato, ma elargisce grandi soddisfazioni nel lungo periodo.

    Suo marito, dopo averle fatto sfornare ben tre marmocchi, aveva pensato bene di darsi alla macchia.

    All’inizio non era stato affatto facile accettare di essere stata abbandonata e ritrovarsi a crescere tre bambini da sola. Quando era successo, Caterina era subito entrata in paranoia, ma poi se n’era fatta una ragione e si era rimboccata le maniche per uscirne. Detestava piangersi addosso ed il suo istinto di madre aveva finito per prevalere sul suo orgoglio ferito di donna e moglie abbandonata; anche se questo le aveva creato non pochi problemi nel suo modo di relazionarsi al genere maschile di cui non si fidava nella maniera più assoluta.

    Si era ripromessa che non avrebbe mai abbandonato i suoi figli come aveva fatto quel vigliacco del loro padre e, anzi, avrebbe fatto di tutto per non far loro sentire quella mancanza.

    Ogni tanto però quelle tre pesti non ne volevano proprio sapere di ubbidire e spesso litigavano fra loro sicché per lei era un delirio. Si potrebbe dire che il suo unico attimo di vera pace fosse proprio quando si prendeva cura delle sue anime smarrite, come lei stessa definiva la moltitudine di uomini e donne ricoverati presso la struttura dove prestava servizio come infermiera. Quelli per lei non erano dei semplici malati, ma frammenti di vita incapaci di ritrovarsi.

    - Oggi è successo un casino – le disse la sua collega Loredana, al cambio turno.

    - Cosa è successo? – chiese Caterina.

    - La vecchia Dora entrava in tutte le stanze chiedendo di sua madre. Diceva di essere venuta qui alla Villa appositamente per farle visita.

    - Ah sì?

    - Ho cercato di farle capire che sua madre non c’era più e che era lei quella ricoverata, ma è stato inutile.

    - Si vede che l’ultimo ricordo che ha di un posto del genere è quello dov’era ricoverata sua madre tanti anni fa.

    - Già, povera Dora. E’ una donna così dolce! Avresti dovuto vederla, era disorientata.

    - E Adriano? Ha tentato ancora la fuga?

    - Sarà difficile che ci riprovi, Caterina, con tutti i tranquillanti che gli somministrano. Ma vedrai che prima o poi tornerà alla carica.

    - L’ultima volta gli abbiamo dovuto mettere la camicia di forza. E chi lo reggeva un uomo di quella portata?

    - Un pezzo d’uomo davvero! E così giovane …

    - Non si è mai troppo giovani per queste cose, Loredana.

    - Chissà cosa credono di trovare lì fuori. Si sta così bene qui dentro. Villa Ebe è un paradiso!

    - Loredana, per favore …

    Non sempre Caterina e Loredana condividevano il modo di concepire la Villa. E se la prima ne aveva un’opinione altalenante, che oscillava tra accoglienza e repulsione, la seconda non aveva dubbi: per lei non c’era luogo migliore dove rifugiarsi per un anziano al tramonto della sua esistenza.

    Villa Ebe era una casa di riposo per anziani che sorgeva sul pizzo di una collina verdeggiante, attraversata da una cascata che scrosciava ripida, in picchiata verso la valle. La forza di quell’acqua era tale da essere udibile anche a parecchie centinaia di metri di distanza e dava proprio l’idea dello scorrere della vita, un’incessante clessidra che scandisce il tempo.

    L’edificio si ergeva solitario su un’altura e terminava in altezza con una torretta che consentiva una vista mozzafiato, meglio di un monastero. Sembrava un mondo a parte, quasi incantato, e in effetti la sua storia aveva del surreale. Pare che il suo primo proprietario avesse perso una tale meraviglia architettonica in una mano di poker. In seguito, la Villa era stata pignorata dalla banca per essere poi comprata all’asta da un medico che ne aveva poi fatto una casa di cura a lunga degenza.

    Tra gli addetti al personale si vociferava di una maledizione. Pare che la figlia del giocatore di poker si fosse impiccata proprio dove sorgeva la torretta, che al momento presente ospitava sette malati. Caterina, che si lasciava facilmente suggestionare, non poteva fare a meno di pensare a quella ragazza, morta suicida, ogni volta che saliva la tromba della scala che conduceva alla stanza sulla torretta. Aggrappata al passamano, ripercorreva gradino per gradino l’angoscia di quella sventurata, chiedendosi dove esattamente fosse avvenuto il terribile gesto. La stretta scala a chiocciola, che girava intorno alla torretta come se l’avvolgesse, portava con sé la sgradevole sensazione di incanalarsi in una spirale verso l’ignoto. Era inquietante.

    In compenso, la vista da lassù era davvero magnifica, di una bellezza da togliere il fiato e far perdere i sensi. Erano in pochi a poterne godere e Caterina era tra quelli.

    Al pian terreno, invece, non appena si faceva ingresso nella Villa, ci si trovava subito di fronte ad una gigantografia in bianco e nero di quella spettacolare costruzione in stile liberty, di com’era stata prima che il giocatore di poker la perdesse con una mano sfortunata.

    Chi entrava non poteva fare a meno di vederla poiché se la ritrovava davanti come uno schiaffo. L’intenzione doveva essere quella di rivendicarne le origini nobili e incutere una certa riverenza a chi si apprestava a varcarne la soglia.

    Sotto la gigantografia si poteva leggere la seguente scritta:

    Un uomo è vecchio solo quando i rimpianti, in lui, superano i sogni.

    Era una frase di Albert Einstein. Il fatto stesso che fosse stato lui a scriverla, la rendeva incolume da qualsiasi attacco perché nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione il pensiero di un genio. Sembrava quasi un invito a non lasciarsi andare al passato; un richiamo a guardare ancora al futuro nonostante gli anni, perché alla fine non c’è mai abbastanza tempo per realizzare i propri sogni, tanto vale continuare ad illudersi di poterlo fare. Questo, almeno, era ciò che pensò Caterina quando lesse quella frase per la prima volta.

    All’interno dell’edificio si trovavano molti reparti differenziati per diagnosi, anche se poteva capitare che persone affette da patologie diverse condividessero la stessa stanza per problemi di eccedenza nei ricoveri. I più erano anziani, rimasti soli e senza nessuno che se ne occupasse; uomini e donne che si sforzavano di mantenere una certa dignità in un luogo che non apparteneva a nessuno e dove non avrebbero certamente trovato quell’affetto che è l’unica cosa che importa alla fine della vita. Eppure per molti di loro era una valida alternativa alla solitudine.

    Si trovavano lì perché non avevano un altro posto dove andare, perché erano rimasti soli al mondo o avevano bisogno di cure che i familiari non erano in grado di dare. Ma si trattava pur sempre di cure corporali e Caterina spesso si domandava se si potesse vivere senza emozioni e senza amore.

    In realtà, da quando entravano a quando uscivano non trascorreva mai troppo tempo.

    Il vecchio Nevio era uno di quelli che era stato depositato lì dai figli come un bagaglio troppo pesante da poter sostenere. Ecco a cosa si riduceva quindi la vecchiaia, ad un peso che non vuole sorreggere nessuno.

    E’ così che ci si sente quando s’invecchia? si domandava Caterina, dopo una delle tante conversazioni avute con quell’uomo stanco e malandato, che però sembrava avere le idee ben chiare su cosa significasse invecchiare e cosa dovesse aspettarsi da chi diceva di amarlo.

    -La vecchiaia fa paura, nessuno la vuole vedere. Noi vecchi ormai siamo considerati inutili e i nostri figli ci vedono come un fastidioso ingombro di cui è meglio liberarsi. Ma un giorno anche loro saranno vecchi e allora si ricorderanno di come ci hanno trattato.

    - Nevio, non dire così. I tuoi figli ti vogliono bene – replicava Caterina.

    - Ah sì? E dove sono adesso? Tu li vedi per caso?

    - So che verranno presto a trovarti.

    - Sì, come no! Verranno quando sarò morto!

    Ma Villa Ebe non ospitava soltanto

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