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Il libro del Se divino
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Il libro del Se divino

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Il Libro del Sé (divino), è il secondo trattato del grande sûfî andaluso Muhyî 'l-Dîn ibn 'Arabî (m. 1240) che vede la luce nella collana I Gioielli. Per quanto breve, l'opera è di notevole interesse poiché evoca il tema metafisico per eccellenza: l'unicità, l'esclusività, l'assolutezza e l'onnipervasione del Sé divino, radice ultima e profonda di ogni esistente. La traduzione dall'arabo è preceduta da un'ampia introduzione della curatrice che, attraverso la Scienza delle Lettere, ci fa accostare alla Scienza alchemica, a quella dei Nomi e a quella dei numeri, nonché da una saggio di Paolo Urizzi in cui la dottrina di Ibn 'Arabî sul Sé divino viene messa a confronto con gli unanimi insegnamenti dell'advaita Shankariano.
LanguageItaliano
Release dateFeb 29, 2012
ISBN9788896720448
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    Il libro del Se divino - Ibn 'Arabi

    I GIOIELLI

    testi esoterici del Sufismo

    collana diretta da

    Paolo Urizzi

    5

    Ibn ‘Arabî

    Il libro del Sé divino

    (Kitâb al-Yâ’ wa huwa kitâb al-Huwa)

    a cura di

    Chiara Casseler

    Saggio introduttivo

    I fattori della Sintesi trascendente

    di Paolo Urizzi

    In copertina: Coppa i ceramica, Egitto, XII sec.

    ISBN: 978-88-96720-44-8

    © Copyright 2004

    Edizioni Il leone verde

    Via della Consolata 7, Torino

    Tel/fax 011 52.11.790

    e-mail: leoneverde@leoneverde.it

    http://www.leoneverde.it

    Indice

    "I fattori della Sintesi trascendente" :

    saggio introduttivo di Paolo Urizzi

    Introduzione

    Il Kitâb al-yâ’ e le altre opere akbariane

    La Scienza delle Lettere: lineamenti e princìpi

    Huwa e huwiyya: il Sé e l’Ipseità

    L’Ipseità e l’Identità Suprema

    Il nome Huwa

    La declinazione universale

    Le nozze e la triplicità

    Il sillogismo

    Il rapporto Huwa – yâ’

    I pronomi della Persona divina

    Giona e la teofania del Tu

    La lettera nûn

    Conclusione

    Il Libro del Sé divino

    Completamento ed integrazione: Hâ’, Huwa e Hiya

    Un briciolo dell’intimo colloquio (munâjât) di Huwa

    Dall’intimo colloquio di Anâ

    Dall’intimo colloquio di inna

    Dall’intimo colloquio di Anta

    Glossario dei termini arabi principali

    Indice dei versetti coranici citati

    Bibliografia essenziale

    Chiara Casseler (Trieste, 1973), è dottore di ricerca in Civiltà Islamica presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Da anni approfondisce i temi di spiritualità islamica e si è specializzata nello studio dell’opera ibnarabiana. Per Il leone verde ha tradotto e curato Il mistero dei Custodi del mondo, di Ibn ‘Arabî.

    I FATTORI DELLA SINTESI TRASCENDENTE

    di Paolo Urizzi

    Il presente opuscolo, pur nella sua brevità, è notevole sotto molti riguardi e lo stesso Shaykh al-Akbar ci avverte: «Studia attentamente questo libro, poiché per suo tramite ti appaiono brillanti numerosi segreti elevati che gli Uomini di questa Via hanno [sempre] celato»¹. È questo il motivo che, alla fine, ci ha fatto decidere per la sua pubblicazione, nonostante le evidenti difficoltà con cui il lettore dovrà cimentarsi. Infatti, al di là delle previste oscurità cui è avvezzo chiunque abbia una seppur minima frequentazione delle opere akbariane, il trattato è complicato da un ulteriore ostacolo per quei lettori che non hanno alcun rudimento della lingua araba, per quanto l’eccellente lavoro di Chiara Casseler non manchi di fornire le delucidazioni indispensabili a chiarirne il senso. Una scelta, dunque, non facile, ma tuttavia dettata dall’essenzialità dell’argomento poiché, come il titolo lascia chiaramente intendere, il testo affronta direttamente la questione del Sé divino e la sua relazione con l’essere individuale, simboleggiati nel linguaggio rispettivamente dal pronome personale di terza persona, huwa (egli), e da quello di prima persona, anâ (io), che in arabo è all’occorrenza rappresentato dalla lettera yâ’². Oltre a questi due, vi è naturalmente il pronome di seconda persona, anta (tu), ossia tutto ciò che è altro da me e s’identifica all’oggetto che entra in relazione col soggetto. Il Sé, infatti, non potendo mai essere considerato come un oggetto e non potendo neppure identificarsi con l’io empirico, viene designato col pronome della persona assente (al-ghâ’ib, alla lettera colui che non è oggetto di visione diretta), il Huwa appunto. Si tratta, insomma, dei principali parametri di riferimento di ogni logica del linguaggio, ma soprattutto di quelli del linguaggio della metafisica, quand’anche della Persona assente non rimanga in fondo espressione più adeguata che il silenzio.

    Come si può facilmente vedere, quelli implicati sono anche gli elementi fondanti di ogni epistemologia: la coscienza individuale e la sua relazione con il mondo, nonché la sua reale identità, fine ultimo di ogni dottrina metafisica e di ogni indagine gnoseologica. Il concetto di io corrisponde alla coscienza e al dominio mentale, il microcosmo; quello del tu al mondo fisico e al dominio cosmologico, il macrocosmo; l’egli, infine, a ciò che trascende entrambi i domìni³. Questi sono gli ambiti in cui si esercita la ricerca della conoscenza, e quindi della Realtà ultima, sia in ambito sacro e tradizionale sia in quello dell’indagine filosofica, con la sola fondamentale differenza che, mentre nel primo caso il criterio d’indagine rimane ancorato alla Rivelazione (ar. wahy), intesa come un’ispirazione di origine non-umana (cfr. sanscr. apaurusheya), nel secondo esso si affida unicamente agli strumenti inerenti all’essere individuale⁴; quest’ultima ricerca, pertanto, non può che ridursi, vuoi alle capacità d’indagine interiore (diánoia), ossia all’intelletto razionale, vuoi agli strumenti di conoscenza del mondo esteriore, essenzialmente costituiti dalle nostre facoltà di percezione (aísthesis, sanscr. indriya).

    I fautori della conoscenza a priori (ar. badîhî), di tipo logico e razionale, sono considerati gli idealisti; quelli che considerano solo la conoscenza a posteriori (ar. kasbî)⁵, riducendola al dominio della percezione sensibile, sono i materialisti; quelli che, invece, considerano la possibilità di accedere alla sfera dell’Assoluto sono i trascendentalisti⁶. Ovviamente, quando si applicano questi schemi, essenzialmente profani e moderni, alle suddivisioni del pensiero tradizionale, bisogna fare dei debiti distinguo, specialmente quando si tratta di dottrina metafisica. La loro menzione è intesa solo a mostrare certi parallelismi del pensiero umano nel suo insieme e le analoghe posizioni concettuali che si sono sviluppate nel corso della storia; ma quelle che separano il mondo sacrale della Philosophia Perennis dal pensiero della filosofia tout-court possono essere tanto distanti quanto lo sono le motivazioni che animavano le rilevazioni astronomiche dei costruttori di Stonehenge da quelle degli scienziati dell’osservatorio di Mount Palomar in California. Nondimeno, analogie si possono riscontrare in ogni tempo e sotto ogni latitudine, poiché non c’è nulla di nuovo sotto il sole e gli argomenti, ad esempio, della critica tradizionale al pensiero materialista, o almeno a quello che più sembra corrispondergli, si applicano altrettanto bene in entrambi i contesti.

    Tale storia del pensiero umano si può dunque descrivere come il graduale passaggio dalla realizzazione di ciò che è per sua natura senza limite alla mera investigazione del limite, un limite sempre più definito e circoscritto, come precisamente è il campo della moderna mentalità scientifica e filosofica. Non si tratta, in ultima analisi, che della riproduzione sul piano epistemologico del principio di differenziazione o, se si preferisce, di frammentazione, proprio dell’aspetto quantitativo della manifestazione e, poiché quest’ultimo è quello che più caratterizza l’ambiente e l’epoca nei quali viviamo, all’uomo moderno giunge difficile concepire la realtà come forma significante di un Principio di ordine superiore che ne è ad un tempo la causa efficiente e l’essenza trascendente; un principio che, proprio per la sua assolutezza, non ammette alcunché di esteriore alla sua natura indivisa⁷. Questo modo particolaristico di vedere le cose, per sua stessa natura, si situa palesemente agli antipodi di quello sintetico che presuppone la capacità di coglierne l’essenza uscendo dai limiti del sistema di riferimento⁸. È come se i contemporanei si peritassero di analizzare in modo sistematico le relazioni che connettono tra loro i punti di una circonferenza, per loro natura indefiniti e quindi non analiticamente esauribili, senza riuscire invece a cogliere il tutto nella sintesi del centro⁹ da cui la circonferenza ha origine e in cui tutti i punti che la costituiscono alla fine si risolvono¹⁰.

    Restando dunque nell’ambito della circonferenza si sarà sempre e in ogni caso vincolati ad una qualche forma di relativismo. Tale conoscenza, infatti, è giocoforza solo di ordine empirico o psicologico dal momento che la conoscenza che procede dalla circonferenza, e di conseguenza anche la rappresentazione della Realtà che ne deriva, non può, per sua natura, oltrepassare i limiti della relazione soggetto-oggetto. In un certo senso si potrebbe arrivare a dire che perfino la conoscenza derivante dalla percezione sensibile, pur non essendo una semplice astrazione – è pur sempre considerata un valido strumento di conoscenza (sanscr. pramâna) anche nella scienza tradizionale¹¹ –, risulta essere, in fin dei conti, una rappresentazione della mente. La mente, infatti, rimane comunque un filtro per tutti i contenuti di questa esperienza la quale, pertanto, non potrà mai risultare totalmente oggettivabile. Una ben nota sentenza buddhista ci ricorda che «gli elementi della realtà (dhammâ, ossia i fenomeni dell’esperienza empirica) hanno la mente come principio (manopubbangamâ), hanno la mente come elemento essenziale (manosetthâ) e sono costituiti di mente (manomayâ)» (Dhammapâda, I.1).

    Da qui l’impasse dei sistemi filosofici che, presupponendo come criteri dell’epistéme (la conoscenza scientifica), unicamente le categorie razionali del pensiero discorsivo (gr. dianóesis), non possono non cadere nell’aporia di postulare un Assoluto – quando lo fanno – a partire dal relativo, o di affermare l’Unità divina a partire dalla dualità. Non diverso però, quanto alla Realtà ultima (al-haqîqa), sarebbe il caso delle stazioni della Via iniziatica; la Meta rimane pur sempre al di là e al di fuori di quanto può essere raggiunto dalla nostra visione interiore (basîra) o dallo svelamento di ordine soprasensibile (kashf), dal momento che, inesorabilmente, ogni raggiungimento (idrâk) si situa nel dominio del contingente e del relativo, mentre la Realtà ultima trascende ogni ordine creato, nonché la sua stessa trascendenza che, una volta postulata, costituisce essa stessa una relazione limitativa¹². Non si afferma forse in una tradizione profetica che Allâh è nascosto da settantamila veli di luce e di tenebra? Per quanto ci si elevi nei gradi della realizzazione spirituale, ciascuno di questi gradi – in quanto gradi, beninteso – rimane comunque un velo che ci separa ancora dalla possibilità di conoscere veramente la Realtà Suprema, la cui infinità (kibriyâ’) permane inviolata al di là di tutti questi veli¹³. È per questo che ‘Abd Allâh al-Ansârî (m. 1089) concludeva le sue Dimore degli itineranti con dei drastici versi sull’unico vero tawhîd, l’affermazione dell’Unità:

    "L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma:

    chiunque l’affermi la nega.

    L’affermazione dell’Unità,

    in chi parla di tale Sua qualità,

    è vano discorso che l’Unico annienta.

    L’affermazione della Sua Unità a Se stesso

    È l’affermazione vera della Sua Unità"¹⁴.

    Ed è per lo stesso motivo che Abû Yazîd al-Bistâmî (m. 874), qualche secolo prima, dichiarava: «Gli uomini si pentono dei loro peccati. Quanto a me, io mi pento di dire: Non v’è divinità se non Dio¹⁵. Perché io lo dico con la voce e le lettere, mentre il Vero (al-Haqq) è al di là della voce e al di là delle lettere»¹⁶. Ecco allora riverberare tra gli apofatici del sufismo la frase del califfo Abû Bakr as-Siddîq: "L’impotenza a raggiungere la comprensione è comprensione (al-‘ajz ‘an dark al-idrâk idrâk)", considerata da molti come l’ultima parola in fatto di dottrina dell’Unità¹⁷.

    E allora, gnosi o agnosticismo? La domanda è ovviamente retorica, poiché la frase citata non è un’affermazione di agnosticismo; essa, al contrario, viene considerata come l’unico mezzo per accedere, per via apofatica, alla conoscenza (ar. ma‘rifa) che concerne la Realtà ultima¹⁸. Ma il solco che divide le due sponde dello scetticismo agnostico e della metafisica tradizionale è troppo profondo perché fra i partigiani dell’uno o dell’altro fronte vi siano dei canali di comunicazione. Quelli, tra i nuovi maîtres à penser, che non riescono a concepire una via trascendente per l’intuizione metafisica (gr. nóesis, sanscr. antarjñâna) dell’Essenza senza dualità sono costretti a rigor di logica a negarne la possibilità. Anche il semplice fatto di presupporla, infatti, richiederebbe di ammettere la presenza, nell’essere, d’un principio di natura trascendente capace, come tale, d’una conoscenza non-empirica. Ovviamente, non potendo essere verificabile dall’esterno in quanto non dimostrabile in termini di conoscenza empirica, un tale principio, quand’anche fosse ipoteticamente postulato, stando a questi parametri non potrebbe essere classificato che come un elemento del soggettivismo idealista e pertanto inconsistente quale strumento di validità epistemologica. Quanto all’argomento a priori, se limitato ad una concezione meramente mentale (cogitatione), neppur esso risulterebbe esente dalla critica di soggettivismo psicologico, e si arriverebbe di nuovo alla presunzione di non-validità. Tutto questo solo perché si continua a voler stabilire criteri di conoscenza assoluta a partire da fattori che per loro natura sono soltanto relativi, il che è una contraddizione in termini. È la storia del voler trarre la misura della circonferenza a partire dalla circonferenza, mentre è solo la presenza d’un elemento trascendente a permettere l’operazione di passaggio al limite.

    Qual è quindi l’argomento valido a giustificare la possibilità di superamento del limite e la presenza d’una realtà ultima immanente nel soggetto (ar. kunh dhâtihi)¹⁹ che permetta la sintesi tra la conoscenza soggettiva e quella oggettiva?

    L’insegnamento unanime e universale di ogni dottrina metafisica, quale che sia il procedimento dialettico o la téchne (metodo o arte) che ci permette di accedere alla conoscenza certa della verità²⁰, vede nell’unità indivisibile del Tutto e nella presenza immanente della sua essenza in ciascuna delle sue parti il fondamento dell’Identità suprema (ar. tawhîd), identità che non ha altro supporto che la stessa Realtà ultima²¹. È solo quest’Identità che consente di conoscere la Realtಲ, anche se questa suprema conoscenza rimarrà sempre ineffabile, apofatica e trascendente²³. Gli esseri insenzienti, però, partecipano di questa identità in una forma meramente passiva, e non possono attuare quella più alta forma d’identità che solo l’atto sintetico del conoscere e dell’essere consente di realizzare. Tale capacità presuppone la presenza dell’intelletto (gr. nous, sanscr. buddhi, ar. ‘aql, intelletto acquisito), organo della percezione conoscitiva dell’essere. Ogni essere dotato d’intelletto è pertanto, almeno virtualmente, capace per sé della Conoscenza suprema, quella che, proprio per questo motivo, deve preliminarmente passare attraverso la conoscenza di se stessi, la delfica gnothi sautón («conosci te stesso») espressa anche dalla sentenza profetica: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore (man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu)»²⁴.

    Ciò riguarda in particolar modo l’uomo, creato secondo l’immagine (gr. eikón) e la somiglianza (homoiôsis)²⁵. Stando, infatti, al postulato degli antichi per cui solo «il simile conosce il simile»²⁶, egli non potrebbe conoscere la Realtà suprema se questa non gli fosse in qualche modo connaturata. Se è vero che ogni cosa, in quanto teofania, è un locus theologicus che rende manifesto il Tesoro nascosto dell’Essenza, l’uomo, in virtù della similitudine inerente alla sua natura intellettuale, è costituito però come essere a parte, un essere capace di assimilarsi al divino (homoiôsis theôi)²⁷ e quindi di conoscere Dio, poiché l’immagine che egli incarna è quella del Pensiero divino, Ragione eterna d’ogni cosa (gr. lógos, ar. haqîqat al-haqâ’iq), a modello del quale è stato formato e plasmato²⁸. Non va dimenticato che egli è l’unico essere, secondo il Corano, ad aver accettato il peso del Deposito di fiducia (amâna) rifiutato dai cieli e dalla terra²⁹, e ciò va posto in relazione con quanto viene detto in una tradizione santa (hadîth qudsî): «I cieli e la terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele»³⁰. Dal momento che «il fedele è lo specchio del Fedele» (al-mu’min mir’ât al-Mu’min)³¹, ossia di Dio, il servitore fedele di Dio (‘abd al-mu’min) non è altri che colui il cui cuore è divenuto specchio dell’Eterno e, assimilatosi a Lui, riflette l’Infinito.

    Quest’autologia dell’essere appare, dunque, come un riflesso dell’Autologia del Principio. Se il Principio non conoscesse Se stesso, nulla potrebbe conoscerLo, e l’essere non solo non potrebbe conoscere la sua origine essenziale, ma neppure potrebbe conoscere alcun’altra cosa, poiché verrebbe meno il fondamento stesso d’ogni epistéme: la sostanza inerte (gr. hýle)³² rimane tale e non sviluppa da sé la coscienza (con-sapevolezza, gr. syneídesis, sanscr. samjñâna)³³, senza la quale ogni altra conoscenza sarebbe impossibile³⁴. In altre parole la sostanza inerte è indescrivibile (sanscr. anirvacanîyam, cioè non-oggettivabile) senza un soggetto cosciente, e il vero e unico Soggetto della Realtà è, in fondo, solo il Sé divino, che, al tempo stesso e ad un livello diverso da quello dell’Unità pura e sopra-ontologica (ar. ahadiyya), è anche, per così dire, l’oggetto di Se stesso in Se stesso. L’infinito (sanscr. ananta, ar. al-lâ ta‘ayyun, che comporta al-wujûd al-mutlaq, l’Essere assoluto)³⁵, pur complicando omnes distinctiones (sanscr. bheda, viéesha, ar. ta‘ayyunât)³⁶ – rimane in se stesso senza dualità: un’Identità suprema e trascendente che Kharrâz (m. 890) aveva sintetizzato affermando che, «al di fuori di Dio, a nessuno è consentito di dire Io (anâ)»³⁷.

    Ciò premesso, dobbiamo però indagare la relazione che unisce tra loro i differenti elementi della dialettica epistemologica. La metafisica indù del puro non-dualismo (kevalâdvaitavâda) parte dal presupposto che l’ignoranza³⁸ al riguardo della Realtà suprema è la sola causa dell’illusoria alterità che fa apparire la molteplicità dell’esistenza. Per ßankara (VIII-IX sec.) tale alterità, prodotta dall’ignoranza, è dovuta alla falsa sovrapposizione (adhyâsa), che consiste nell’imputare erroneamente le qualità essenziali dell’oggetto (vishaya) – identificabile con il concetto tu (yushmad), ossia tutto ciò che è altro che me – a quelle del soggetto (vishayin) – identificabile con il concetto io (asmad). Infatti, pur essendo gli attributi dei loro rispettivi campi d’azione mutualmente opposti come la luce e la tenebra, nell’esperienza ordinaria (vyavahârah) di questo mondo constatiamo che il soggetto s’identifica con

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