Le “malattie” del nostro mondo
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Le “malattie” del nostro mondo - Miriam Spizzichino
Miriam
La farfalla che spiccò il volo
La perfezione che regnava nella mia camera faceva da contrasto al disordine che dominava sovrano, all'interno del mio corpo.
Un letto matrimoniale, forse troppo grande per una come me, decorato da coperte in puro cashmere e seta. Una scrivania sempre in ordine e poco vissuta che assomigliava molto a quella delle cliniche che tanto odiavo, ma che cosa potevo aspettarmi? Ci ho vissuto dentro per mesi e non sono neanche guarita del tutto. Mi credono malata. Io però mi sento spenta.
La forte illuminazione della camera mi infastidiva. Riusciva a far luce ovunque, tranne che nel mio animo. Ogni giorno, si presentava ai miei occhi una camera spoglia della mia personalità, quell'identità che ancora stavo ricercando in me. Chissà se sarei riuscita a trovare me stessa, nonostante le pressioni di mia madre e la forte assenza di mio padre.
«Adele, sei in camera tua?»
Che tempismo perfetto. Eccola lì, sul ciglio della porta, mia madre Emma.
La donna che mi ha messo al mondo diciotto anni fa e che continua a tenermi solo per lei. Sarei stata la sua ombra, per sempre.
«Ricordi che sto preparando la nuova collezione per la sfilata? Vorrei che tu sfilassi con l'ultimo abito, quindi, come ogni modella che si rispetti, cerca di entrare almeno in una taglia 38!», continuò a dire, facendomi l'occhiolino, per poi richiudere la porta.
Io portavo la taglia 38, perché non se n'era accorta? Corsi verso la mia grande debolezza, lo specchio, ed è lì che i miei occhi erano puntati: il mio corpo.
Un corpo assetato di un'eccessiva magrezza, un corpo che non trovava pace, un corpo che odiava guardarsi, un corpo che voleva annientarsi.
«Sono grassa..», ripetevo dentro di me.
Troppo grassa per farmi notare da una donna che aveva avuto tutto dalla vita. Una carriera ben avviata nel mondo della moda, la teatralizzazione di un matrimonio perfetto e una figlia che non riusciva a staccare quel maledetto cordone.
Lei si era autoconvinta che tutto andasse per il verso giusto, ma non si rendeva conto dei forti problemi che si erano creati all'interno della nostra famiglia e l'unica a pagarne le conseguenze era proprio la sottoscritta.
Come un flashback, la mia mente tornò indietro di un anno.
Eravamo nella mia scuola, nello studio dello psicologo ed i miei genitori erano entrambi lì.
«Signori Giordano, vi ho mandato a chiamare perché si è venuta a creare una situazione da non sottovalutare. Vostra figlia Adele soffre di stati d'ansia e i professori mi hanno pregato di chiamarvi urgentemente a colloquio. Volevamo approfondire questo problema poiché è un vero peccato per una ragazza come lei, iniziare a smettere di vivere. Ha solo 17 anni e penso che qualsiasi problema abbia, sia possibile risolverlo con l'aiuto di tutti.», disse con fare serio e professionale, alternando lo sguardo tra mia madre e mio padre.
Bastarono quelle poche parole per scatenare una vera guerra ed è proprio lì che sentii, per la prima volta, la parola Anoressia
.
«Mia figlia ha questo forte rapporto di amore e odio con la madre e non vorrei che, per assomigliare alle modelle che tanto venera, si sia buttata in qualcosa di più grande. Io sono un medico, lo so che mia figlia ha bisogno di aiuto.», sbottò mio padre, infine, dopo aver parlato per una ventina di minuti su quali potrebbero essere i problemi da cui derivavano i miei attacchi di panico.
«Se tua figlia ha un disturbo alimentare non è di certo colpa mia, ma tua! Un padre sempre assente! Se la trovi anoressica, invece di pensare ai pazienti, dedica il tuo tempo a lei! Curala, se sei tanto bravo!», iniziò ad urlare mia madre, facendomi vergognare. Era andata completamente fuori di senno ed entrambi giocavano a fare da scarica barile
quando in realtà la colpa era soltanto mia. Io che mi sentivo sbagliata. Io che non volevo essere lì in quel momento. Io che sarei voluta scappare via.
«Calmi. Vi prego di mantenere la calma. Per oggi è abbastanza. Ho avuto la conferma che mi serviva: vi serve aiuto. Nessuno escluso», esclamò lo psicologo, cercando di calmare gli animi. Infine, rivolse il suo sguardo a me.
«Non preoccuparti, guarirai e starai meglio.. Fidati di me.»
Io mi sono fidata, ma quando si ha vicino una madre che cerca di sotterrare i problemi è tutto difficile. Ho fatto terapia fino al compimento dei 18 anni. Sono stata sbattuta in cliniche diverse, sempre per lo stesso problema. Pensavo di esserne uscita completamente, ma una volta tornata a casa il male inesorabilmente tornava.
Non osavo pensare che la fonte di tanta sofferenza fosse mia madre.
Che poi, forse, in tutti quei pensieri non c'era un filo di bugia, ma mai lo avrei ammesso.
Arrivò l'ora di cena ed io mi diressi al patibolo: un lungo tavolo in legno, apparecchiato con una maniacale perfezione.
«Tuo padre stasera non viene a cena, ha una riunione importante», mi precedette mia madre.
Annuii silenziosamente e mi accomodai. Una misera insalata con qualche pomodorino nel contorno. A quanto pare, mia madre aveva preso seriamente l'idea di mettermi a dieta per indossare l'abito più importante della serata. Ormai ero abituata a vivere situazioni simili, non era la prima volta che mi capitavano. L'80% delle volte era lei a non volermi far mangiare e il restante 20% mi era passato l'appetito.
In fondo era comprensibile, lei mi considerava come un trofeo
da mostrare alle sfilate ed io mi sentivo morire. Non ero più la sua bambina, ma un manichino vivente. Una volta calato il sipario e tolto il vestito, come per magia, tornavo la figlia grassa e impacciata di sempre. Chi poteva mai desiderare un tale impiastro? Non le sarebbe mai passato per la mente di lasciarmi, un giorno, il suo Atelier, piuttosto l'avrebbe venduto.
Mangiai controvoglia quello che era nel piatto, ma non riuscì a finirlo per il nervoso che avevo accumulato. Lei se ne accorse. Del nervoso? No, del piatto e a quanto pare ne fu contenta.
«Oh, non hai finito di cenare? Bhè, sei entrata nell'ottica della dieta! Potresti fare la modella, sai? Se fossi solo... meno... Niente, niente.», le sue parole si