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Storie Napoletane di Cucina, di Vizi e di Virtù
Storie Napoletane di Cucina, di Vizi e di Virtù
Storie Napoletane di Cucina, di Vizi e di Virtù
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Storie Napoletane di Cucina, di Vizi e di Virtù

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Un’ idea, che fu di Paolo Mattia Doria, viene ripresa e sviluppata alla luce delle riflessioni di intellettuali italiani e stranieri: a Napoli virtù e vizi sono diversi che altrove, e ciò dipende dalla storia della città, dalla forma urbana, e secondo alcuni, anche dal clima. Abbiamo esaminato le interpretazioni che i napoletani danno di due vizi, la lussuria e la gola, e delle virtù antitetiche, la castità e la temperanza: ci siamo serviti, per l’esame, dei documenti della letteratura, dell’arte, e delle canzoni e delle massime della saggezza popolare. E poiché i piatti tipici della cucina napoletana sono fatti, diceva Mario Stefanile, non solo di ingredienti, ma anche di sentimenti e di simboli, abbiamo abbinato a ogni vizio e a ogni virtù un menù, e abbiamo cercato di spiegare le ragioni delle nostre scelte. L’identità dei Napoletani si può scoprire anche attraverso queste strade. Il libro tenta di avere, come tutti i libri seri, un ritmo giocoso: non so se ci riesce. Almeno, ci ha provato.
LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2013
ISBN9788867556458
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    Storie Napoletane di Cucina, di Vizi e di Virtù - Carmine Cimmino

    ...

    I quartieri di vicoli rassomigliano a un intricato apparato intestinale.

    E’ una città che si deve conoscere a memoria, priva com’è di ogni logica edilizia.

    Ma il napoletano vi sta dentro come in se stesso,

    e la sua anima deve rassomigliare a codesto intrico plastico,

    che si traduce in intrico d’istinti e di sentimenti.

    Domenico Rea

    Premessa

    Gli stereotipi sono irritanti, ha ragione Amalia Signorelli: quelli su Napoli in modo particolare. Ma ancora più irritanti sono coloro che combattono contro gli stereotipi servendosi di altri stereotipi, coloro che proclamano, in partenza, che Napoli è l’ultima città greca, che Napoli è unica, ma poi si rifiutano di trarre tutte le conseguenze dal loro proclama. Questi intellettuali da camera li zittì Giuseppe Marotta decretando  che la napoletanità esiste perché a Napoli tutto accade come se esistesse, e dunque percorrendo, nel suo ragionamento, una delle vie che San Tommaso segue per dimostrare l’esistenza di Dio. Gli stereotipi producono realtà perché possiedono efficacia simbolica, dice dottamente la Signorelli, e aggiunge, con mirabile sottigliezza, che i ceti popolari di Napoli sono a tal punto soddisfatti dei luoghi comuni ricamati sui loro modi e sulla loro cultura che vi si adeguano, in una specie di estetismo plebeo, di dannunzianesimo demotico: quando tifano per  Careca, per Maradona e per Cavani, quando cantano le canzoni, classiche e neomelodiche, quando fanno i guappi sentimentali e  ‘e carte ‘e tre , i plebei di Napoli parlano, si muovono e  si comportano proprio come si aspettano i viaggiatori, i giornalisti   popolari , le televisioni commerciali. Oggi, ieri, e l’altro ieri. In questo senso, Napoli è un teatro. La storia della Napoli popolare è scritta nei luoghi dove gli stereotipi esibiscono tutta la loro vitalità: nella canzone,  nella cucina e nella luce, che ora combatte con le tenebre, ora, vinte le tenebre, dispiega senza ostacoli tutta la sua chiarità, ma non riesce a nascondere  il timore e il presentimento del buio.

    Figura 1: Angolo del granatello di Portici, fotografia di Marco D'Antonio

    Questo principio dialettico si esprime per litoti in una proposizione della Serao: Napoli non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Dal tema, logorato dall’uso, della luce di Napoli  J.P.Sartre trae, con abile rovesciamento retorico, un tema originale, l’elogio della polvere:

    "..Le loro strade, gli oggetti di cui si servono, il modo in cui gli oggetti vengono disposti, sono affascinanti e profondi. E’ a causa della sporcizia, che si è deposta sulle cose esattamente come il sole si è posato sulle case di Torino o gli anni sulle colonne romane del Foro…Tutti gli oggetti, a forza di essere usati, arrugginiti, sporcati, rotti, finiscono con l’assumere un senso che supera di gran lunga quello originario: non sono solo attrezzi, piatti, utensili; esistono per se stessi e sono assolutamente indefinibili, inumani. E’ anche la mollezza dei napoletani, il loro lasciar correre, che permette a tutte queste cose di stringere una quantità di relazioni che sono tutte belle e assolutamente involontarie.

    Sartre non nomina Epicuro, ma sapeva che Napoli era stata la prima città d’Italia a ospitare una scuola di epicurei.  Filodemo di Gadara e Sirone spiegarono ai napoletani che il vivere e il morire sono sotto il dominio del caso e che la felicità sta nel non desiderare : per cui non esistono i vizi e le virtù, ma solo virtuosi e viziosi, sia veri che finti, e bisogna imparare a  diffidare degli estremisti del vizio e dei catoni della virtù. Questi principi, entrati nel sangue della gente, alimentarono con i loro succhi i codici di una sapienza popolare che è stratificata in un equilibrio audace di sapori e di odori, come una parmigiana di melanzane. Solo questa convivenza paziente tra verità antiteche spiega perché trovarono a Napoli il loro domicilio perfetto il vate dei golosi, cioè Lucullo, e Virgilio, il poeta della frugalità verginale.  Cicerone difese Publio Silla, il nipote del dittatore, dall’accusa di aver partecipato all’ organizzazione della congiura di Catilina. Dice che in quei giorni Silla se ne stava quieto a Napoli, in una città la cui natura non è tanto fatta per accendere l’animo dei faziosi, quanto piuttosto per smorzare e acquietare ogni passione politica.. Che è la definizione del più antico stereotipo su Napoli.

    Figura 2: L. Alma - Tadema, Festa della vendemmia 1871

    Era fatale che Achille Campanile si divertisse a prendere in giro la polemica contro i luoghi comuni della napoletanità, diventata anche essa, la polemica, un luogo comune. Nel romanzo Se la luna mi porta fortuna egli rivolge un commosso saluto alla sventurata città, che sembra tanto allegra, e invece è la più triste del mondo, e ai suoi popolani, frugali e pazienti: un pomodoro crudo e un pane basta alla loro cena.. Rende omaggio, Campanile , alle  sorelle che aspettano alla finestra che i fratelli tornino dai loro amori alla povera casa.. Bisognerà scriverlo, il romanzo di questi giovanotti che bisbigliano all’orecchio del cameriere, in linea affatto confidenziale, il nome di una specialità, e si accorgono troppo tardi di essersi fatti vecchi, quando ancora in casa li chiamano ‘o piccirillo ".

    Città di sposi in viaggio di nozze, di corallari furbi e di cantori; città dai più strani mestieri dove i violinisti, con le occhiate a tradimento, fanno credere alle sposine ingenue che stan suonando per loro; dove un tipo di onesto mascalzone, nelle ore canicolari, se ne va a cantare una romanza, senza accompagnamento, sotto un grande albergo e, mentre tutti riposano, una brutta vecchia forestiera, nascosta dietro le persiane, lo ascolta col cuore in tumulto, convinta d'aver fatto una vittima, e poi lascia cader due soldi nella strada assolata, dove il cantore li raccoglie, con una mala parola a mezza voce.

    Cara e bella città, che sembri malinconica e sei la più allegra del mondo. Festosa, rumorosa, brulicante, insonne, appassionata e generosa; i tuoi figli vanno in giro per il mondo, e hanno il segreto di riuscir simpatici a tutti; dov'è un napoletano, ivi sono il buonumore e la bontà; e quando un napoletano canta, fosse pure in una casa della Cina, dalle finestre circostanti scoppiano gli applausi. Da tutto il mondo accorrono le genti, attratte  dalla fama del tuo cielo e del tuo mare,

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