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Attacco allo Stivale
Attacco allo Stivale
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Attacco allo Stivale

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About this ebook

Attacco allo stivale è un thriller d’azione ambientato in un futuro prossimo, in cui l’Occidente dovrà ancora fare i conti con il terrorismo di matrice islamica fondamentalista. Il Joa, acronimo di Justice of Allah, è l’organizzazione terroristica più potente del mondo. Per lanciare il suo attacco contro le nazioni amiche di Israele e alleate degli Stati Uniti, il gruppo sceglie come primo obiettivo l’Italia, arruolando tra le sue file Husam Ferreri, un giovane di origine marocchina, divenuto esperto di esplosivi nell’Esercito italiano, che dovrà compiere alcuni gravi attentati mentre, in parallelo, con un aereo stealth rubato ai russi, il Joa tenterà di distruggere il Governo italiano, in occasione della festa della Repubblica. Il compito di sventare i piani dell’organizzazione sarà affidato a Nicholas Caruso, che lavora per i servizi segreti, e al suo amico Ruben Monteleone, membro del G.I.S., le forze antiterrorismo dei Carabinieri.
Il romanzo, dal ritmo incalzante, molto ben congegnato e attentamente documentato, rappresenta il tentativo – riuscito – di scrivere un “page-turner” italiano, che non ha nulla da invidiare ad autori ben più famosi del mondo anglosassone.
Il blog dell'autore: alessandrocirillo.altervista.org
LanguageItaliano
Release dateJan 14, 2013
ISBN9788866901174
Attacco allo Stivale

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    Attacco allo Stivale - Alessandro Cirillo

    PROLOGO

    Torino, 6 luglio 2013

    Era stata una bella serata. La coppia uscì dal ristorante con aria soddisfatta dopo aver mangiato bene e a sazietà. Quel giorno era il quarto anniversario del loro matrimonio. Il maresciallo Husam Ferreri, 32° Reggimento Genio Guastatori dell'Esercito Italiano, ripiegò con cura lo scontrino e lo infilò in una tasca del pantalone. Un furgone transitò lungo la strada davanti al locale producendo un soffio d’aria che mosse appena i suoi capelli ricci e corti. Con entrambe le braccia cinse la vita di sua moglie Amina, stretta in un vestito bianco che arrivava fino alle ginocchia. La carnagione scura e i morbidi capelli neri, che ricadevano sulle spalle scoperte, lasciavano intuire le origini nordafricane della donna. Amina si sollevò sulla punta dei piedi e baciò sulla bocca il marito. Il contatto con le labbra carnose della moglie fece fremere Husam di desiderio.

    «Ti amo» le sussurrò.

    «Anche io» rispose Amina sorridendo. Si staccò da lui mantenendo la mano sul suo petto muscoloso. La fece scivolare con calma fino all'addome con fare provocatorio.

    «Che dici, andiamo a farci due passi?» propose al marito.

    «E se andassimo direttamente a casa per buttarci sul letto?» rilanciò Husam.

    «Pazienza. Ogni cosa a suo tempo.» Amina sapeva come fare crescere il desiderio del suo uomo. Avvicinò al naso una rosa rossa che lui le aveva acquistato da un ragazzo indiano all’interno del locale. Ne percepì il profumo ancora intenso.

    «Era tanto che non mi regalavi una rosa.»

    «Aspettavo l'occasione giusta» ribatté divertito Husam.

    Amina finse di essere indispettita. Infilò il fiore nella sua borsetta nera e prese la mano al suo uomo per invitarlo a camminare.

    Husam si lasciò trascinare lontano dal ristorante, pensando già alla conclusione della serata. Avvertì che la temperatura era finalmente diventata più gradevole, dopo che il sole aveva picchiato su Torino tutto il giorno. Continuava a fare caldo, ma almeno si poteva passeggiare senza correre il rischio di trovarsi in un bagno di sudore dopo un centinaio di metri.

    In giro c’erano tante altre persone impegnate nella tipica passeggiata in centro. Via Garibaldi, piazza Castello, via Roma. Tutti i ristoranti erano pieni e nelle gelaterie decine di persone si accalcavano in attesa di concedersi un dolce refrigerio.

    «Scommetto che ti sei pentito di non aver preso quel tiramisù. Te lo stavi mangiando con gli occhi» disse.

    Al ristorante, Husam avrebbe voluto prendere il suo dolce preferito, ma Amina aveva proposto di andare a prendere un gelato.

    «In effetti, l’avrei preso. Però, per questa volta mi accontenterò del gelato.»

    «E va bene» ribatté Amina con studiata voce sensuale, «vorrà dire che quando arriviamo a casa, per farmi perdonare, ti offrirò un dolce tutto speciale: produzione propria».

    Husam sorrise pregustando il momento piccante. «Non vedo l’ora di assaggiarlo.»

    Arrivarono a un incrocio e constatarono che il semaforo pedonale era verde. Mentre si trovavano al centro dell’incrocio, il telefono di Husam cominciò a squillare. Il maresciallo lasciò la mano della moglie per prendere il cellulare. Guardò sul display e scoprì che la chiamata proveniva dalla caserma.

    «Pronto?» rispose allegro.

    «Salve, Ferreri. Sono il tenente Gobetti.»

    «Buonasera, tenente.»

    La mente di Husam, anche se impegnata nella conversazione, registrò che sua moglie stava tornando indietro.

    «Oh, mi è caduta la rosa» la sentì dire.

    Da quel momento il tempo sembrò rallentare, come una sorta di slow motion. Lui si girò e scoprì che sua moglie si trovava proprio in mezzo all’incrocio. Poi, quel suono, forte, nitido, raggelante. Ebbe la sensazione di vedere se stesso da una prospettiva diversa, lontana. Un’automobile sfrecciò a folle velocità proprio dove c’era la sua Amina. L’autista non tentò neanche di frenare. Solo dopo aver colpito la donna schiacciò il pedale del freno e arrestò la sua BMW. Troppo tardi. Il corpo di Amina rimbalzò sul parabrezza e rovinò a terra. La donna sbatté la testa con violenza sull’asfalto. Husam lasciò scivolare il telefono dalle mani. L’apparecchio cadde e si aprì in due parti facendo schizzare fuori la batteria. Si avvicinò al corpo di sua moglie sentendo le gambe pesanti, come immerse in una melma appiccicosa. Gli sembrò di metterci un’eternità per coprire la distanza che li separava. Quando la raggiunse si chinò su di lei e la prese tra le braccia, avvertendo ancora il suo profumo.

    «Amina! Amina!»

    Una vistosa macchia rossa era apparsa sull’asfalto nel punto in cui era appoggiata la testa della donna. Una delle scarpe si era sfilata finendo lontana dal corpo. Sul vestito bianco erano comparsi degli spruzzi di sangue fuoriusciti dalla bocca.

    «Amina! Svegliati, amore mio!» chiamò invano il maresciallo.

    Nessuna risposta. Nessuna reazione. Amina era morta sul colpo dopo aver sbattuto la testa.

    Husam si soffermò a osservare il volto della sua amata. Sul mento colava un grumo di sangue scuro mentre gli occhi erano rimasti aperti in uno sguardo sorpreso. Le prime persone cominciarono ad accorrere sul luogo dell’incidente, qualcuno chiamò i soccorsi.

    L’uomo al volante della BMW uscì barcollando dall’abitacolo. Sembrava del tutto ubriaco. Riacquistando di colpo un barlume di lucidità, prese il telefono e digitò con le mani tremanti il tasto chiamata rapida. La voce dall’altra parte rispose al sesto squillo.

    «Pronto Flavio, che succede?»

    «Papà, ho combinato un casino. Ho ammazzato una donna con la macchina.» La voce era impastata dall’alcol e dalla paura.

    L’uomo dall’altra parte della cornetta, Ambrogio Rossi, facoltoso imprenditore e prossimo all’entrata in politica, fece sfoggio di una calma e una freddezza sconcertante.

    «Dimmi dove sei che ti raggiungo. Non dire una parola fino a quando non arrivo con l’avvocato. Stai tranquillo, penso a tutto io.»

    In ginocchio in mezzo della strada, Husam continuava a tenere sua moglie tra le braccia. Pianse come quando da bambino aveva saputo che non avrebbe mai più rivisto suo padre. In sottofondo si udiva il vociare di diverse persone, il rumore del campanello di un tram, un colpo di clacson, il suono lontano di una sirena. Ma lui non sentiva tutto questo, anzi, non sentiva più nulla. La sua Amina se ne era andata e con lei la sua vita.

    CAPITOLO 1

    Noli, 22 novembre 2013

    Il furgone stava procedendo lungo la strada che costeggiava il mare, resa scivolosa dalla pioggia caduta fino a qualche minuto prima. Erano le ventitré e venticinque, in giro c’erano poche automobili, considerando che era un venerdì sera. L’acquazzone e il freddo intenso avevano scoraggiato molta gente a uscire di casa. E questo a Osman andava bene.

    Il mezzo era un Fiat Ducato vecchio di dieci anni, di colore bianco, ma con la carrozzeria ancora in ottimo stato; l’autista l’aveva preso a noleggio quello stesso pomeriggio per portare a termine il suo compito. L’avrebbe riconsegnato l’indomani, salvo imprevisti, ovviamente.

    Anche se quasi tutto stava andando secondo i piani, si sentiva molto nervoso. Dopo aver noleggiato il furgone, aveva atteso che facesse sera e si era diretto al porto di Alassio, piccolo paese della Liguria ricordato soprattutto perché sede di un famoso concorso di bellezza. Lì c’era un’imbarcazione da pesca che lo stava aspettando. Alcuni uomini avevano scaricato quattro casse di legno e le avevano poi sistemate sul furgone: toccava a lui consegnarle in un piccolo paese in provincia di Torino. Era partito verso le ventitré e aveva guidato con attenzione, rispettando il codice della strada alla lettera. Arrivando all’entrata dell’autostrada c’era subito stato un cambiamento del suo piano: la A10 era chiusa in più punti per lavori di manutenzione, quindi avrebbe dovuto raggiungere l’accesso di Spotorno passando per i centri abitati. Un intoppo proprio all’inizio della missione non era di buon augurio.

    Osman sfilò una sigaretta dal pacchetto che si trovava appoggiato sul sedile a fianco e l’accese senza staccare gli occhi dalla strada. Aspirò nervoso la prima boccata.

    «Stai calmo. Stai calmo» mormorò a bassa voce per tranquillizzarsi.

    Il Ducato entrò nell’abitato di Noli. Osman si fermò a un semaforo rosso, l’ennesimo. Non c’era nessuno in giro e fu tentato a passare comunque. Si trattenne dal farlo: non poteva permettersi di essere fermato dalla Polizia.

    Pazienza Osman, pazienza.

    L’assistente capo Sabatino Ricci sbadigliò rumorosamente e senza mettersi la mano davanti alla bocca, ricordando un leone ruggente. Era un omaccione alto un metro e ottantacinque, spalle larghe e pancia prominente. All’interno della Fiat Bravo di pattuglia, l’agente scelto Mauro Rivolta scosse la testa disapprovando la mancanza di buone maniere da parte del collega.

    Si trovavano a Noli, sulla via Aurelia. Nessuno dei due poliziotti avrebbe voluto essere lì in quel momento, ma era venerdì sera e qualcuno doveva pur controllare che qualche ubriaco al volante non facesse dei danni. Indossavano tutti e due una lunga mantellina per non bagnarsi la divisa. Ricci era sul ciglio della strada e quella sera si stava proprio annoiando. Anche se la pioggia aveva concesso un attimo di tregua, faceva freddo e c’era poco movimento in giro. Avrebbe di gran lunga preferito restare a casa con sua moglie e con i suoi due figli.

    Rivolta di anni ne aveva venticinque e faceva il poliziotto da due. Quella sera avrebbe dovuto presenziare al compleanno di un amico. Invece, un collega si era dato malato e per sostituirlo era stato scelto lui, l’ultimo arrivato.

    Il giovane agente guardò l’orologio digitale della vettura: era il momento di dare il cambio al suo collega per permettergli di scaldarsi un po’.

    «Sabatino, è ora. Vieni dentro a scaldarti qualche minuto» propose Rivolta uscendo dalla vettura.

    Il poliziotto più anziano, che stava osservando la strada, vide in lontananza i fari di un veicolo.

    «Sta arrivando qualcuno. Diamogli una controllata, che mi sto annoiando a morte» rispose al collega.

    «Ok, va bene.» Entrambi si misero in posizione sul bordo della strada. Sabatino Ricci avanzò di qualche passo e mostrò la paletta d’ordinanza al veicolo in avvicinamento.

    Osman procedeva a meno di cinquanta km/h. Si guardò veloce intorno: a sinistra c’erano degli edifici con poche finestre illuminate, a destra il mare, scuro e minaccioso.

    L’autoradio di bordo era accesa e sintonizzata su una trasmissione di attualità. Il conduttore stava intervistando un esperto di terrorismo. L’argomento era il JOA, acronimo di Justice of Allah. Si trattava di un’organizzazione terroristica che operava da una decina di anni e che stava dando parecchi grattacapi alle potenze occidentali. Il JOA era stato fondato da Omar Abdallah Hassan, ex membro dei servizi segreti del regime di Saddam Hussein, dopo che il rais era stato deposto dalle forze della coalizione. Hassan aveva accesso a una quantità indefinita di denaro che il regime aveva accumulato in conti segretissimi all’estero. Si era circondato di ex soldati delle forze speciali irachene ed ex operatori dei servizi segreti, creando il primo nucleo del JOA. Il gruppo aveva mantenuto un profilo basso per diversi anni, occupandosi di rafforzare l’organizzazione. Hassan aveva investito molto denaro in attività lecite allo scopo di avere una continua fonte di finanziamento ma, allo stesso tempo, si occupava anche di attività illecite come il traffico di droga e il rapimento di occidentali. All’improvviso aveva iniziato a colpire. Ogni attentato veniva rivendicato sul web con comunicati in inglese, firmati sempre Justice of Allah. Da allora, i media occidentali avevano cominciato a riferirsi all’organizzazione con il nome di JOA.

    Osman alzò il volume per poter sentire meglio le parole dell’esperto.

    «Il JOA è cresciuto parecchio in questi anni, reclutando nuovi proseliti in tutta l’Africa e il Medio Oriente. Nel corso di pochi anni, è passato da piccole operazioni contro militari americani e inglesi ai grandi attentati contro installazioni civili. Ricordiamo tutti l’attacco all’hotel di Londra, con i suoi trentacinque morti. Poi, c’è stato il museo a Tel Aviv e purtroppo molti altri. Ormai, il JOA conta migliaia di membri sparsi in tutto il pianeta, ma tutto questo poteva essere evitato.»

    «In che senso poteva essere evitato?» chiese l’intervistatore.

    «La comunità internazionale è colpevole di aver sottovalutato la questione. I servizi d’intelligence occidentali sapevano di Omar Abdallah Hassan fin dall’inizio, però nulla è stato fatto per fermarlo. L’errore più grande è stato considerarlo alla stregua di un signorotto della guerra locale. Ed è risaputo che gli errori si pagano.»

    Osman arricciò le labbra sbuffando una nuvola di fumo. «Proprio così: gli errori si pagano» commentò.

    Originario della Tunisia, Osman viveva in Italia da una decina di anni e lavorava come muratore. Tanta fatica in cambio di pochi spiccioli che evaporavano ogni mese tra tasse e spese varie. Osman non si sentiva felice e su questo aveva fatto leva Jamal, uno dei reclutatori del JOA che operavano in Italia. Così l’estate precedente, Osman aveva approfittato delle ferie estive per volare in Libano, dove in un luogo segreto aveva partecipato a un addestramento intensivo sull’uso di armi da fuoco ed esplosivi. Al suo ritorno era entrato a far parte di una cellula dormiente comandata da proprio da Jamal. Conduceva una vita ordinaria, continuando a lavorare come muratore, in attesa che la cellula venisse attivata.

    Quella sera si trovava alla sua prima missione. Il suo compito consisteva nel trasportare un carico di armi in un luogo sicuro in Piemonte.

    Mentre l’esperto di terrorismo esprimeva ancora le sue opinioni sul JOA, Osman si sforzava di concentrarsi sulla strada davanti a lui. A un tratto, il suo cuore iniziò a battere al ritmo di un martello pneumatico. Poco più avanti, una coppia di poliziotti gli stava intimando di fermare il veicolo mostrando la paletta d’ordinanza.

    Oh, merda!

    La mente di Osman cominciò a vagliare le varie opzioni disponibili. Avrebbe potuto fare inversione e tornare indietro, rischiando però di insospettire gli agenti. Non fermarsi era impossibile perché i poliziotti lo avrebbero di certo inseguito. Decise che la soluzione migliore fosse di fermarsi e restare tranquillo. Avrebbero controllato i suoi documenti e l’avrebbero lasciato andare. Sarebbe andato tutto bene se avesse evitato di farsi prendere dal panico. Azionò la freccia a destra e cominciò a rallentare.

    I due poliziotti osservarono il veicolo che accostava. La pioggia ricominciò in quel momento. In cielo comparve un lampo seguito qualche secondo dopo da un tuono.

    «Non vedo l’ora che finisca questo schifo di serata» commentò Ricci.

    «A chi lo dici! A quest’ora i miei amici si staranno divertendo un sacco» rispose il collega.

    «Dai che dopo questo ci infiliamo tutti e due in macchina. Non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo prendere freddo tutta la notte.»

    «Sì, sono d’accordo. Si gela, stasera.»

    Il furgone superò adagio i poliziotti e andò a fermarsi sul ciglio della strada, pochi metri dopo l’automobile di pattuglia.

    Osman spense il motore. Vide attraverso lo specchietto laterale che uno dei due agenti si stava avvicinando. Schiacciò la sigaretta nel posacenere e, con un movimento rapido, raccolse la pistola che teneva nella tasca portaoggetti della portiera sinistra. Era un revolver calibro 45 con tamburo da sei colpi. Un proiettile di quel genere sparato a bruciapelo poteva uccidere un uomo all’istante. Il terrorista armò il cane della pistola e la nascose in una capiente tasca del giaccone. Fatto questo, abbassò il finestrino.

    «Buonasera agente» salutò cercando di rimanere il più rilassato possibile.

    «Buonasera. Può favorire patente e libretto di circolazione?» rispose Ricci. Nel frattempo il giovane collega era rimasto vicino alla Bravo.

    «Sì, certo! Il furgone è a noleggio. Le mostro anche la ricevuta di pagamento.» Osman sfoderò un ampio sorriso, ma la mimica del suo corpo suggeriva a Ricci che c’era qualcosa che non andava. Sulla fronte di quel tizio erano comparse gocce di sudore, nonostante la serata fosse decisamente fredda.

    Il poliziotto prese in mano i documenti che aveva richiesto e osservò la patente. Zampilli d’acqua caddero sulla tessera plastificata. Senza dire una parola si voltò e portò i documenti al suo collega per effettuare dei controlli sull’identità del guidatore, che nel frattempo stava tamburellando nervosamente con le dita sul volante del furgone.

    Ricci tornò al mezzo e chiese: «Che cosa trasporta nel retro?»

    «Eh... Sto aiutando un amico per il trasloco. Gli sto portando alcune cose nella nuova casa.»

    «A quest’ora?»

    «Sì, perché in settimana lavoro.»

    «E dove abita questo amico?»

    «In un paese in Piemonte.»

    «Quale?»

    «Ehm... Cuneo. Sì, Cuneo.»

    L’agente Ricci era sempre più sospettoso riguardo a quell’individuo. Sembrava molto agitato, anche se era evidente che cercava di apparire normale. Il suo istinto gli diceva che aveva qualcosa da nascondere. Decise di approfondire la questione. Forse quella serata, così noiosa fino a quel momento, stava per diventare più movimentata. Magari stava per scoprire un carico di droga.

    «Mi farebbe la cortesia di aprire il retro del furgone?»

    A Osman quasi venne un infarto.

    «Perché vuole vedere il retro?» domandò dando evidenti segni di nervosismo.

    «Semplice controllo di routine. C’è qualche problema?»

    «No, no. Nessun problema. Scendo e le apro subito.» L’autista del furgone scese dal mezzo e si incamminò verso il retro. Stava sudando a litri ma la pioggia che scendeva faceva scivolare via tutto. Arrivò al portellone seguito da Ricci, mentre Rivolta osservava la scena con in mano i documenti del guidatore. «Saba, tutto a posto?»

    «Sì, faccio solo un controllo qui dietro» rispose il poliziotto.

    Osman aprì il portellone. Dentro c’erano le quattro casse posizionate una di fianco all’altra. Ricci avanzò verso quella più vicina al portello e fece a sollevare il coperchio. Dietro di lui, il terrorista, ebbe solo un secondo per decidere cosa fare. Estrasse la pistola dalla giacca, la puntò contro la testa del poliziotto e premette il grilletto. Il proiettile attraversò il cranio spappolandolo. L’assassino si girò di scatto e fece fuoco tre volte verso l’altro agente, che ebbe però la prontezza di ripararsi dietro l’automobile di servizio. Osman corse verso la cabina del furgone e vi entrò mentre Rivolta, sotto shock, cercò di impugnare la pistola Beretta 92 FS d’ordinanza. Gli sembrava di essere in uno di quei sogni dove va tutto al rallentatore. Aprì la fondina, prese la pistola nella mano destra e arretrò il carrello, caricando il colpo in canna. Quando finalmente prese la mira, il furgone era già in moto e si stava immettendo nella strada. Sparò due colpi che centrarono il portellone del mezzo in allontanamento. Si avvicinò al collega che giaceva in una pozza di sangue sull’asfalto bagnato Gli tastò con due dita il collo, alla ricerca del battito cardiaco. Niente. Ricci era morto sul colpo, la sua faccia era irriconoscibile a causa del foro di uscita del proiettile. Il giovane agente di Polizia si riscosse, deciso a inseguire l’assassino del suo collega. Corse alla macchina, l’accese e partì sgommando sull’asfalto reso scivoloso dalla pioggia. Armeggiò con la ricetrasmittente di bordo per mettersi in comunicazione con la Sala Operativa.

    «Qui volante quattro. L’assistente capo Ricci è stato ucciso! Sono all’inseguimento di un Fiat Ducato bianco» avvisò senza tutto d’un fiato.

    L’operatore dall’altro capo della radio sperò di aver capito male. «Calmati, figliolo» disse. «Fa’ un respiro e ripetimi quello che hai detto.»

    Il furgone sfrecciava a velocità elevata lungo la strada statale. A ogni curva rischiava di uscire fuori strada, tuttavia Osman doveva allontanarsi il più possibile dall’automobile della Polizia. Non sapeva se l’altro agente si era messo al suo inseguimento e non aveva intenzione di stare fermo per scoprirlo. Sperava che il poliziotto fosse troppo sotto shock a causa della morte del collega per iniziare a corrergli dietro. Il suo piano era di dirigersi in autostrada verso Savona. Alla prima uscita sarebbe di nuovo tornato a percorrere le strade statali e avrebbe cercato un posto per nascondere il furgone. Il carico poteva cercare di recuperarlo in seguito. Sperava in quel modo di depistare le ricerche, che di certo erano già iniziate. Sorpassò un’utilitaria invadendo la corsia opposta e arrivò a Spotorno. Sterzò a sinistra in direzione dell’autostrada. Era arrivato all’ultima curva prima di trovare il casello autostradale, quando sentì una sirena provenire dal basso. Gettò una rapida occhiata e vide la volante della Polizia che guadagnava terreno.

    «Stasera non ne va bene una» si lamentò l’assassino.

    Svoltò a destra e si trovò a cinquanta metri dal casello. Il suo piano ormai era andato in fumo. Tutto era perduto. Non aveva intenzione di impegnarsi in un lungo inseguimento, per poi venire arrestato.

    La prigione sarebbe una vergogna. Meglio una morte gloriosa.

    L’unica opzione possibile era distruggere il carico e uccidere più infedeli possibile per riscattarsi agli occhi di Allah. Accelerò fino al casello e lo passò investendo la barriera abbassata. Fece qualche decina di metri e si fermò girando il furgone di centottanta gradi, orientandolo verso il casello. Raccolse uno zainetto dal sedile del passeggero e scese di corsa dal mezzo portandosi sul retro. Aprì il portellone e scoperchiò la prima cassa. Tirò fuori un lanciarazzi RPG e un fucile automatico AK 47 corredato da qualche caricatore che aveva riempito prima di partire da Alassio. Infilò tre razzi di riserva e i caricatori del fucile nello zaino, sistemò a tracolla l’RPG, in ultimo impugnò l’AK 47. Si allontanò di corsa dal furgone per una trentina di metri e si fermò ansimando, già zuppo d’acqua. Non si curò della pioggia che continuava a colargli sul viso: tra poco tutto sarebbe finito e lui avrebbe raggiunto il paradiso.

    Rivolta stava risalendo la strada a tutta velocità mentre il suo corpo era attraversato da una furia incontrollabile. Avrebbe arrestato quell’uomo o se necessario l’avrebbe ucciso. Superò l’ennesimo tornante e sterzò a destra; vide il casello autostradale, oltre il quale si trovava il furgone, fermo e rivolto verso di lui con i fanali ancora accesi. Frenò di colpo e ripartì piano fino al gabbiotto. La barriera era a terra in mille pezzi. Per fortuna era vuoto, perché tutto era automatizzato da anni. L’assassino poteva avere abbandonato il veicolo ed essere scappato sulle montagne, ma l’istinto gli disse di fare attenzione. Si slacciò la cintura e procedette con la volante a passo d’uomo attraversando il casello. Scrutò in lontananza l’area davanti a sé e lo vide: aveva in mano un lungo tubo di metallo che subito riconobbe perché l’aveva visto in tanti film d’azione. Era un lanciarazzi ed era puntato verso di lui. Accelerò e nello stesso istante vide una fiammata levarsi dall’RPG. Scartò a destra, giusto in tempo per schivare il razzo diretto contro la sua Bravo. Subito dopo ci fu una forte esplosione dietro di lui: il razzo aveva mancato la volante di una decina di centimetri e aveva colpito il gabbiotto, disintegrandolo. Pezzi di lamiera e vetri caddero sull’asfalto insieme alla pioggia.

    Rivolta fece appena in tempo a riprendersi che il terrorista stava già ricaricando l’RPG. Il poliziotto non poteva permettersi di esitare: aprì lo sportello e si allontanò dalla vettura un attimo prima che venisse colpita. Il razzo penetrò la carrozzeria ed esplose all’interno dell’abitacolo spargendo migliaia di piccoli frammenti di metallo e vetro nel raggio di una decina di metri. Chi avesse visto quella scena avrebbe pensato di trovarsi in un teatro di guerra. Un incendio si scatenò all’istante facendo innalzare una sottile colonna di fumo. L’onda d’urto sbalzò l’agente scelto Rivolta in avanti. Atterrò a pancia in giù in mezzo a un mare di detriti, immobile, la schiena sfregiata a causa dell’esplosione e da vari pezzi di vetro conficcati nella carne.

    Finalmente ho ammazzato quel poliziotto!

    Osman guardò con soddisfazione l’agente steso sull’asfalto. Aveva fatto un buon lavoro, tuttavia sapeva che si trattava di una vittoria momentanea. Sarebbero arrivati altri poliziotti, poteva sentire già altre sirene in lontananza, e non avrebbe potuto ucciderli tutti. Decise che era meglio distruggere il furgone con tutte le armi a bordo. Si sistemò a distanza di sicurezza e caricò l’RPG con l’ultimo razzo a disposizione. Dopo aver preso la mira premette il grilletto. Il razzo impattò contro una cassa di munizioni. Il furgone saltò in aria con una fragorosa esplosione che ridusse il mezzo a un ammasso di ferraglia. Una colonna di denso fumo nero si levò verso il cielo.

    Quattro ragazzi viaggiavano in autostrada a bordo di una Golf. Tutti erano euforici all’idea di passare la serata in discoteca. Quando notarono l’esplosione del furgone, la curiosità gli fece decidere di prendere l’uscita di Spotorno. Una volta arrivato nei pressi della carcassa fumante, il conducente fermò la vettura a poca distanza dall’incendio.

    «Che cazzo è successo qui?» domandò uno dei ragazzi.

    «Non lo so, è esploso tutto» rispose un altro.

    «Dobbiamo chiamare subito la Polizia» decise il conducente. Proprio in quel momento vide un’ombra uscire dal fumo. «Chi ca…» Non fece in tempo a finire la frase che una raffica di fucile investì la Golf. Il proiettili calibro 7,62 penetrarono il parabrezza e lacerarono le carni del ragazzo. Anche il passeggero a fianco venne colpito. Il terzo ragazzo riuscì ad abbassarsi e provò a fuggire dall’automobile uscendo dalla portiera posteriore destra. Il quarto passeggero rimase pietrificato nell’abitacolo. Osman si avvicinò a quest’ultimo e lo uccise con un colpo in testa. Fatto questo, dedicò le sue attenzioni all’unico sopravvissuto che stava scappando, percorrendo a ritroso la rampa di uscita dell’autostrada. L’assassino posizionò il calcio del fucile sulla spalla e prese con calma la mira.

    Mauro Rivolta si svegliò a causa del rumore prodotto da una raffica di fucile. Per un attimo dovette fare mente locale di dove si trovava. Era sdraiato sull’asfalto a pancia in giù su un tappeto di vetri infranti e pezzi di lamiera. Vedeva molto sangue a terra, il suo. Si toccò il collo, gli faceva parecchio male. Aveva una brutta ferita causata da un pezzo di lamiera. Ritrasse con orrore la mano insanguinata. Provò a mettersi a sedere e si guardò intorno. Fiamme e denso fumo nero fuoriuscivano dalla sua volante e dal furgone bianco. Guardò in lontananza e notò l’assassino del suo collega che sparava con un fucile in direzione dell’autostrada. Aguzzando la vista vide qualcosa cadere a terra poco più avanti: con sgomento, si accorse che si trattava di una persona. Scorse anche un’automobile ferma con uno sportello aperto.

    Quel pazzo ha sicuramente ucciso qualcuno!

    L’agente Rivolta si rialzò a fatica. Aveva profondi tagli su tutto il corpo perdeva molto sangue, soprattutto alla ferita al collo. Si diresse verso l’assassino usando come copertura il fumo delle esplosioni. Estrasse la pistola d’ordinanza con l’obiettivo di uccidere quella bestia. Continuò ad avvicinarsi cercando di rimanere basso, mentre Osman si era fermato dopo l’ultimo omicidio. Aveva inserito un nuovo caricatore nel fucile e si era appoggiato sul cofano della Golf, in attesa. Le sirene si avvicinavano sempre di più, segno che i rinforzi erano in arrivo.

    «Allah è grande» urlò a squarciagola con un gran sorriso sulle labbra.

    Rivolta, nel frattempo, si avvicinò camminando con difficoltà. Sentiva le sirene, ma decise che non poteva aspettare i rinforzi perché avrebbero potuto esserci altri morti e lui non voleva che accadesse. Continuò ad avanzare, passo dopo passo, usando la manica della divisa per pulire il sangue che colava di continuo sugli occhi. Nonostante si sentisse molto debole e la vista iniziasse ad annebbiarsi, stimò di essere a venti metri circa dal bersaglio. Sollevò la pistola e la puntò verso l’obiettivo. Osman vide con la coda dell’occhio una sagoma che usciva dal fumo, troppo tardi per reagire.

    Il poliziotto svuotò su di lui tutto il caricatore della sua pistola. L’assassino si accasciò lentamente sul cofano della vettura e scivolò sull’asfalto faccia a terra, senza più vita. L’agente scelto Mauro Rivolta cadde in ginocchio e si stese sulla strada a pancia in su. Rimase a guardare il cielo nero mentre sentiva le sirene che erano ormai a pochi metri da lui. Il fumo che stava avvolgendo la zona

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