Cucina mediterranea. la storia nel piatto
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Info su questo ebook
Questo non è soltanto un libro di cucina ma un libro da leggere anche se non avete intenzione di mettervi ai fornelli. Un modo per entrare nello spirito del Mediterraneo e della sua millenaria cucina apprezzandone poco per volta gli aspetti conviviali e culturali, essere in grado di riconoscerne i benefici e la semplicità.
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Anteprima del libro
Cucina mediterranea. la storia nel piatto - Renata Baruffi
Cucina Mediterranea
LA STORIA NEL PIATTO
Renata Baruffi
Titolo originale: Cucina Mediterranea - La Storia Nel Piatto
(Terminato il 1 Gennaio 2013)
ISBN: 9788867556762
Editore: Narcissus Self Publishing
Protezione: DRM Free (Watermark)
Data di pubblicazione: lunedì 18 marzo 2013
Autore: Renata Baruffi
tutti i diritti sono riservati.
2013 - Renata Baruffi
Mail: renatabaruffi@gmail.com
Sito: http://storiedicibodivino.blogspot.it/
Ad Annalaura
CONTENUTI
CONTENUTI
Informazioni e Copywright
Premessa
Alla TAVOLA DEGLI ANTICHI
Le Radici Antiche della Cucina del Mediterraneo
Il GARUM
La Conservazione dei Cibi
Le Stoviglie ed i Tegami
Le Bevande: la Birra ed il Vino
La BIRRA
Il VINO
Le RICETTE
I Principi della Cucina Mediterranea
Antipasti, Spuntini e Spezzafame
Minestre e Zuppe
Riso e Couscous
Paste e Gnocchi
Verdure: Ortaggi, Erbaggi e Fiori
Pesci di mare, di fiume e di lago
Le Carni e i Ripieni
Animali da Penna e Caccia
Interiora
Salse
Pane, Focacce e Polente
Formaggio e Uova
Frutti e Fiori
Dolci
Il Nettare degli Dei: il VINO
Glossario
INDICE delle RICETTE
INDICE ALFABETICO
Immagini del Libro
Premessa
La genesi di questo libro non è stata semplice né veloce se si considera che per raggiungere il risultato odierno ho scritto come minimo 10 volte tanto e creato materiale per altri libri ancora.
Allo sviluppo di questa mia passione per la tavola, la cucina e le usanze anche ancestrali di preparazione molto ha contribuito la mia famiglia e molto alcune donne a cominciare dalla nonna Agar, la vera cuoca di famiglia, cuoca per talento naturale ma anche per mestiere dato che nella osteria che apparteneva a lei ed al nonno ha cucinato per gli avventori quasi ogni mezzodì ed a volte anche ogni sera della sua lunga vita. Preparava per lo più piatti popolari lombardi, naturalmente, ma sempre raffinati e squisiti.
Molto devo anche a mia madre che quando andò sposa non sapeva nemmeno friggere un uovo ma che negli anni diventò invece una cuoca appassionata ed eccellente. Ricordo ancora le sue meravigliose marmellate di pesche e di albicocche ed i deliziosi risotti. Certamente ora le sono grata anche per avermi così spesso messa al lavoro sui fornelli ad una età in cui le mie amiche passavano il tempo libero dalla scuola giocando ed anche per alcune ricette che nei primi tempi del suo matrimonio aveva annotato su un quadernino giallo insieme a metodi per fare il bucato o per togliere le macchie di gelato.
La mia prima collezione di ricette, scritte a mano ed in parte anche disegnate l'ho cominciata a 15 anni e comprendeva soprattutto le preparazioni interessanti di una cuoca di casa, ricette diverse da quelle che già conoscevo e che avevano suscitato il mio interesse anche perché erano legate a tradizioni che allora mi erano estranee. Quell'album oggi non lo trovo più, ma qualche tempo dopo avviai un'altra raccolta che invece conservo ancora e nella quale insieme a spunti, preparazioni e ricette molto più internazionali cominciai ad inserire anche annotazioni storiche, nutrizionali ed a volte addirittura curative: era già l'avvio di un progetto che allora non mi era del tutto chiaro ma che non si è più interrotto.
Il desiderio andava ben oltre il condividere la mia parmiggiana di melanzane e mi spingeva a trasmettere le tracce di usi ed abitudini antiche e popolari che oggi sono per lo più scomparse e dimenticate o in via di estinzione ma che hanno permesso all'uomo di vivere bene fino ai giorni nostri.
Le ricette di questo libro, piccola e limitata scelta tra le tantissime possibili, sono solo una parte del contenuto di queste pagine e non me ne si voglia se come in un tegame sul fuoco mi permetto di mischiare ingredienti semplici ad altri più nobili che alcuni potrebbero voler relegare solo ai ripiani di una libreria.
Il territorio da esplorare è molto vasto e continuamente spuntano nuove informazioni e scoperte a volte strabilianti.
ALLA TAVOLA DEGLI ANTICHI
Sostenetemi con focacce d'uva passa,
rinfrancatemi con pomi,
perché io sono malata d'amore.
Cantico dei Cantici - Capitolo 2
Le Radici Antiche della Cucina del Mediterraneo
Come si mangiava nell'antichità?
I racconti dell'Odissea, dove la carne era imbandita a profusione sulla tavola dei Proci ed agnelli teneri erano macellati ogni giorno allo scopo, più che un uso comune stanno a significare il grande spreco e il disprezzo che i contendenti alla mano di Penelope mostravano verso la casa del re insieme alla loro pretesa di esserne già i padroni. Altra cosa sono i pasti dei guerrieri dell'Iliade che impegnati in battaglie estenuanti e pericolose preparavano da sé il pasto a fine battaglia.
Ai tempi della Odissea, per il popolo la base della alimentazione era piuttosto costituita da carboidrati, verdure, pesce, vino e forse anche olio d'oliva ma probabilmente poca carne. Cioè nessuna vera differenza con il primo novecento.
Platone (IV sec. a C) dice che la gente comune si cibava soprattutto di formaggio, latte, cipolle, verdure, fichi, ceci e fave abbrustolite.
Spesso il pasto era costituito da insalate, agli o cipolle e vino accompagnati dalla Màza (μάζα), focaccia d'orzo simile alla attuale Pìta (πίτα) o forse più alle Azzime ebraiche che ne condividono il nome o al Pane Carasau sardo.
Il primo cereale ad imporsi veramente al consumo sulle coste mediterranee fu l'orzo, pianta piuttosto rustica che si adatta facilmente a condizioni climatiche diverse e si presta ad essere coltivato in terreni non preparati. Molto anticamente l'orzo e gli altri cereali non venivano nemmeno cotti ma solo macerati nell'acqua finché non germogliavano e non si ammorbidivano formando una specie di pasta commestibile, prima molto prima che si diffondesse la tecnologia del fuoco e dei recipienti a prova di fuoco e si cominciasse a farne minestre ed un pane non lievitato da cuocere su piastre di terracotta arroventata come ai testi della Val di Magra o in piccoli forni d'argilla come quelli che ancor oggi usano i nomadi berberi del deserto (forni Tabouna) e gli abitanti del Trans Caucaso meridionale in Georgia, Armenia ed Azerbaijan (forni Tonir) certamente imparentati con il forno Tandour indiano. Più tardi si diffusero anche il farro, il frumento ed il grano saraceno.
La lievitazione naturale cominciò ad essere praticata, si pensa, in Egitto circa 3500 anni prima di Cristo e fu in seguito notevolmente migliorata dai Greci che divennero esperti e famosi nell'arte del fare il pane e producevano una grande quantità di pani diversi per forma, ingredienti e guarnizioni: panini dalle più svariate forme, sfilatini, grossi pani a forma di cestino, pani in cassetta a forma di cubo e focacce e focaccine anche ripiene, pizze, pite semplici o unte e calde.
Quando si mangiava carne era frequentemente di capra o di pecora, animali frugali anch'essi che riuscivano a vivere nei territori poveri della Grecia meridionale o delle aride coste medio orientali. Il consumo di carne bovina si diffuse probabilmente in Anatolia, in Boetia ed a Creta ed anche nella penisola italica, la terra dei vitelli (come riportato da Dionisio d'Alicarnasso, Varrone, Gellio, Festo, Apollodoro ma anche da Giovanni Tzetzes, filologo bizantino medioevale), dove questi animali erano presenti per una spontanea migrazione preistorica dagli altopiani e dalle pianure dell'Asia centrale oltre che per l'importazione ed l'allevamento sia ad opera dei Minoici che degli Etruschi, tutti popoli originari dei territori lidici.
Salvo nell'epoca più antica o per i guerrieri in battaglia, dopo che si cominciò a scaldare l'acqua, la carne veniva frequentemente sottoposta a lunghe bolliture e talvolta, come si trova indicato nei libri di Apicio, subiva addirittura una doppia cottura. In Italia ne troviamo traccia in alcune ricette tradizionali della Basilicata, degli Abruzzi e della Sardegna, dove la pastorizia è ancora praticata. La carne, soprattutto quando si trattava di carne bovina, spesso proveniva da animali sfruttati per il lavoro e per il latte e quindi doveva essere piuttosto dura e quando si trattava di carne di pecora o capra forse aveva anche un deciso gusto selvatico.
Inoltre dobbiamo tener conto che i metodi nella preparazione del cibo sono sempre stati strettamente legati agli utensili a disposizione ed alla disponibilità più o meno ampia di combustibile.
Già nel primo millennio prima di Cristo i boschi che ricoprivano originariamente le coste del mar Egeo erano diminuiti in modo impressionante a causa dell'intenso sfruttamento del legname per ogni attività umana, dalle costruzione di case, alle navi, alla fusione dei metalli. La cosa era sotto gli occhi di tutti e oltre ad essere una delle cause che spinsero le genti a migrare in altre terre, portò allo sviluppo di abitudini poi entrate nella tradizione più mediterranea come i forni comuni o la cottura in utensili particolari come i forni a campana (peca) della tradizione istriana ed i forni portatili di terracotta cui ho già accennato. Questi ultimi sono ancora in uso in Tunisia, in tutta l'area di influenza berbera, in Georgia ed Armenia ed anche in India. Sono costituiti da un orcio o un vaso cilindrico, mai più alto di 80 cm. e largo circa 50, la cui imboccatura superiore è ristretta soprattutto per trattenere il calore. Vengono scaldati bruciando all'interno legna, sterpi, pezzi di fascine o altro combustibile come lo sterco secco degli animali. Una antica statuetta punica conservata nel museo di Cartagine mostra una donna intenta a cuocere alimenti in un forno Tabouna.
La necessità di risparmiare il combustibile stimolò anche il nascere della tecnica della frittura che è più veloce e meno dispendiosa. Nella cucina cinese fu proprio la mancanza di materiale da bruciare che spinse ad utilizzare in modo predominante tecniche di frittura.
Era naturalmente ampiamente praticata fin dalle epoche più antiche la caccia soprattutto in Grecia. Ad essa ed alla natura selvaggia era preposta una divinità fra le più antiche e venerate dell'Olimpo, Artemide, la etrusca Artume, una dea il cui culto aveva probabilmente una origine precedente forse collegata alle popolazioni pelasgiche o ad etnie del sud est del Mediterraneo.
La tradizione della carne alla brace, tipica dell'epoca più antica è comunque sempre stata praticata.
Una attività da uomini, oggi come allora, forse a ricordo degli antichi eroi guerrieri.
Su l'ignee vampe
concavo bronzo di gran seno ei pose,
e dentro vi tuffò di pecorella
e di scelta capretta i lombi opimi
con esso il pingue saporoso tergo
di saginato porco. Intenerite
così le carni, Automedonte in alto
le sollevava; e con forbito acciaro
acconciamente le incidea lo stesso
divino Achille, e le infiggea ne' spiedi.
Destava intanto un grande foco il figlio
di Menèzio, e conversi in viva bragia
i crepitanti rami, e già del tutto
queta la fiamma, delle brage ei fece
ardente un letto, e gli schidion vi stese;
del sacro sal gli asperse, e tolte alfine
dagli alari le carni abbrustolate
sul desco le posò; prese di pani
un nitido canestro, e su la mensa
distribuilli...
libro IX - ILIADE di OMERO
(Traduzione di Vincenzo Monti)
Più tardi durante l'impero romano, negli sfarzosi ed interminabili banchetti patrizi furono preparate per gli ospiti ricette stravaganti con ogni tipo di carne e si diffuse anche a Roma l'abitudine di rimpinzare le scrofe e le oche con fichi secchi per ingrossarne il fegato che proprio dai fichi ha preso il nome: fygatum. Qualche cosa di simile al gavage ed ai metodi di ingrasso per ottenere il foie gras, un uso che i Romani avevano probabilmente appreso dagli Egizi e che troviamo dipinto nelle decorazioni tombali di quel territorio.
Spinti dallo sviluppo demografico i Greci, alla ricerca di legname e di materie prime di uso comune, esplorarono sempre più territori e ne presero possesso fondandovi nuove città. Dopo una prima migrazione verso le coste orientali dell'Egeo e del mar Nero, nel VII sec. aC essi raggiunsero le coste della Dalmazia, dell'Italia e poi della Sicilia in cerca di una natura più generosa di quella di casa. Alcune delle nuove colonie si guadagnarono notorietà per l'opulenza e la raffinatezza della tavola come avvenne per Sibari, antica città sul golfo di Taranto alle pendici orientali del massiccio della Sila, dove si svolgevano addirittura vere e proprie competizioni culinarie. Cominciò allora a delinearsi una tradizione gastronomica testimoniata anche dagli antichi autori, poeti, storici o semplici cronisti che del cibo e della tavola hanno scritto nei loro versi. La tradizione si consolidò, i cuochi greci divennero famosi e qualche secolo più tardi anche molto ricercati dai patrizi romani.
Proprio in quel periodo potrebbe essersi sviluppata, come un cibo spontaneo al pari del pane, la preparazione di pasta e gnocchi da cuocere in acqua o in qualche liquido, suppongo là dove l'acqua era abbondante.
Nella Tomba François a Vulci e nella Tomba dei Rilievi a Cerveteri, che risalgono al IV sec. aC, si trovano rilievi in stucco che rappresentano i classici utensili per fare la pasta: la spianatoia, il matterello e la rotella dentata ed è sempre etrusca la scodella ritrovata e conservata a Tarquinia dove è raffigurata l'immagine di un servo che offre al padrone grossi spaghetti straordinariamente simili ad alcune paste tradizionali che da Sud a Nord troviamo, con nomi diversi, lungo tutto l'arco appenninico della penisola italica: pici, strangulaprièvite, strozzapreti... E' la prima pasta asciutta conosciuta della gastronomia italiana.
Una ipotesi vuole che questi preparati siano il frutto di successive elaborazioni popolari dei gnocchetti cilindrici di semola d'orzo, probabilmente simili ai malloreddus sardi o ai cavatelli pugliesi che col nome dei macaria (da μακάριος, beato, si consumavano in Grecia durante i riti per i defunti. La stessa parola pasta deriva proprio dal greco ta pastà (impasto di orzo, dal verbo πασσέιν ).
Dalle parole macaria (beatitudine) ed eònia (eterna) deriverebbe anche il termine macarònia assai vicino alla parola macaròn usata per indicare medievali gnocchi di pane o di zucca conditi con il formaggio, caratteristici del Veneto e di Marostica, ed al termine greco μακάρονα (si legge makàrona, macaron in Francese e macaroun in Inglese) che distingue squisiti dolci a base di mandorle che per tradizione in Grecia si preparano tuttora in occasioni speciali come il Natale e che forse anticamente, sotto forma di pani intrisi di miele, erano distribuiti nelle commemorazioni sempre legate ai defunti.
A prima vista non faremmo nemmeno fatica a collegare la parola macarònia alla parola italiana maccheroni, un tempo termine generico per indicare la pasta soprattutto secca, se non fosse per quella doppia 'c' e la 'e' che rendono più probabile il collegamento con la parola greca μαχαίρω (si pronuncia machéro) che significa tagliare o con il termine già italiano ma molto più recente di maccare, cioè impastare.
La strada tra lo sviluppo di paste da cuocere in acqua o di fogli di farina sempre più sottili da seccare rapidamente su piastre ardenti o sotto la brace in forni di campagna è stata probabilmente dettata dalla maggiore o minore disponibilità d'acqua. Sta di fatto che lungo le coste meridionali del Mediterraneo, in tutta la Grecia antica e le coste più orientali della Cappadocia dove l'acqua non è sempre a portata di mano, abbiamo un fiorire di elaborazioni in cui sottilissime foglie di pasta Phyllo (Φύλλο in Grecia, Yufka on Turchia) tagliate, imbottite di formaggio e verdure e poi ripiegate, sono cotte sul fuoco o fritte, mentre nelle regioni della penisola italiana, oltre alla cottura a secco, per le stesse sottilissime sfoglie modellate o imbottite come ravioli e paste ripiene si diffonde il fortunato uso della cottura in acqua o in brodo.
Queste sfoglie sottilissime sono state adottate con successo anche dalle popolazioni nomadi. Nel mondo nord africano alla pasta sottile Phyllo si aggiungono i Brik che sono però preparati in modo differente ed hanno la caratteristica di essere quasi trasparenti. Il fatto che molti paesi si contendano l'origine di queste preparazioni, lontano dal creare confusione, chiarisce sia la naturale ed antica spontaneità della preparazione tra popoli con scarse risorse e simili materie prime sia anche l'esistenza di numerosi contatti tra le diverse genti.
Le tavole antiche erano anche ricche di vegetali che, nominati raramente, dovevano invece essere il pezzo forte nella alimentazione popolare. Nel I millennio aC erano già coltivate in orti come quello recintato da una linda siepe che Laerte, padre di Ulisse, curava con le proprie mani. Da Aristofane (IV sec. aC) capiamo quanto dovevano essere popolari le zuppe d'orzo, di fave o quella di lenticchie, la più ghiotta delle pietanze. Già Esaù sul versante meridionale di quello stesso mare, per una zuppa di lenticchie 1500 anni prima si era giocato addirittura il suo il diritto di primogenitura.
Certo, la fame è bruta ma certamente la zuppa di lenticchie doveva essere davvero buona! Alcuni autori antichi hanno tramandato i loro consigli su quando mangiarne e quali potevano essere gli effetti non graditi.
La pesca era praticata ovunque e pesci di ogni tipo, sia di mare che di acqua dolce venivano messi in tavola. Soprattutto pesce azzurro, come lo chiamano in Italia, ma anche anguille, crostacei, molluschi e frutti di mare tra cui varietà oggi sconosciute o estinte. Ritroviamo bellissime immagini del mondo marino nelle decorazioni dei vasi e dei palazzi della civiltà minoica anche se questi dipinti forse fanno riferimento soprattutto aspetti simbolici legati ad un mondo extra terreno.
Il pescato era anche oggetto di esportazione lungo le coste. Le anguille e i capitoni si mangiavano cotti nella bietola bianca, mentre la nannata (cioè i pesciolini neonati a volte chiamati bianchetti o rosa marina), detta afia in latino, veniva fritta in polpettine di farina, fiori di verdure aromatiche ed anemoni di mare tritati insieme proprio come durante l'ultima guerra facevano ancora le donne di Favignana. Molte di queste notizie oltre alle indicazioni sui periodi dell'anno e sui luoghi più rinomati per la pesca di questo o quel pesce e le ricette diffuse nelle diverse località, le dobbiamo non solo ad Archestrato di Gela (IV sec. aC) e ad Ateneo di Naucrati, che nel II sec. dC ne ha trasmesso fino a noi parte dei versi, ma anche ad altri autori precedenti.
Si pescava soprattutto vicinanza delle coste, nei delta dei fiumi e nelle paludi o nelle lagune litoranee ed anche, molto frequentemente, nei laghi interni. Le qualità di pesce di mare furono comunque sempre le più ricercate e le più costose sui mercati. Sia presso gli Etruschi che presso i Romani il pesce di mare di grossa taglia, grandi tonni o pesce spada, cernie ed altro, erano merce rara e pregiatissima e perciò un privilegio delle classi più agiate ed un simbolo di distinzione sociale. Durante l'Impero Romano i controllori delle attività di pesca percorrevano le coste svolgendo opera di persuasione verso i pescatori che avessero salpato grosse prede per spingerli a farne dono 'spontaneo' all'imperatore.
Sulle mense comuni era invece diffuso il pesce piccolo, spesso seccato e salato. Nelle zone lagunari e paludose, dove il pesce locale era l'elemento principale sulla tavola, le attività di pesca per semplice economia furono affiancate dalla salatura del pescato non consumato e col tempo diedero origine ad un commercio di prodotti ittici, in questa forma resi disponibili anche agli abitanti dell'entroterra. Dai prodotti e dalle elaborazioni del pesce sotto sale e dai residui di lavorazione, nelle comunità greche nacque uno dei più celebri preparati dei tempi antichi, il Garon destinato a diventare diffusissimo in epoca romana.
Roma regolamentò sia la pesca che l'allevamento del pesce con leggi che furono applicate fino alla caduta dell'impero romano ed anche oltre, raccolte sia dall'impero Bizantino ad est che dalla Chiesa che per quasi 1000 anni e forse più sostituì di fatto l'Impero Romano ad occidente. Queste normative, regolarmente collegate a gabelle e tassazioni, benché limitassero i tipi di pesca possibile ed entrassero in complesse distinzioni sulla provenienza del pesce, furono un sostegno ed uno stimolo per lo sviluppo delle attività ittiche sulle quali, in questo modo, anche lo stato guadagnava. Quando l'Impero Romano d'Oriente capitolò, nei territori caduti in mano ottomana la pesca divenne libera e quindi non essendo più 'sostenuta' dallo Stato subì un tracollo.
In tutti i territori mediterranei soprattutto occidentali molte usanze alimentari furono fortemente influenzate dalla volontà di rendere visibile anche nelle normali attività quotidiane e non solo in quelle legate al culto la differenza tra le comunità di diversa religione e la Chiesa, forse per contrapporsi alle usanze del Ramadan islamico, creò per i cristiani un insieme di norme alimentari che non avevano nulla da invidiare alle regole islamiche ed ebraiche benché nei Vangeli non esista alcuna indicazione in proposito. Queste norme prevedevano un numero di giornate di magro e digiuno pari a più di un terzo dell'anno e generarono lavoro per le popolazioni costiere e guadagni ingenti per lo Stato Pontificio che riscuoteva le tasse sul pescato dei territori su cui aveva la potestà.
Il pasto antico si chiudeva con fichi, datteri, mandorle e nocciole, mirto o ghiande arrostite proprio come fino a pochi anni fa nel meridione d'Italia era usanza terminare la cena sgranocchiando mandorle e noccioline americane.
La coltivazione della frutta, soprattutto fichi, pere, melograni, cotogne, mele, mandorle e noci fu praticata anche anticamente ed è riportata nell'Odissea dove si dice che il giardino di Alcinoo, re dei Feaci alla cui isola approdò Ulisse, era così ben irrigato e talmente fertile che sullo stesso albero si avevano contemporaneamente frutta e fiori.
Tuttavia il consumo di frutta fresca ebbe anche numerosi detrattori e nel Medioevo si arrivò a consigliare di mangiare la frutta soltanto cotta o secca, in parte senza dubbio per ragioni igieniche.
La pera, ad esempio è stata spesso penalizzata.
Après la poire, prètre ou boire, dicevano i Francesi: dopo la pera, chiama un prete o bevi vino...
Così anche i meloni e le angurie. Si imputavano alla frutta fresca effetti sgradevoli e per evitarli un saggio arabo di epoca pre-medievale consigliava di mangiarla sempre con un formaggio cremoso o con carne salata: ecco subito spiegato come sono nati prosciutto e melone, fichi col salame o anguria con la feta ed anche formaggio con le pere. In un trattato, per rendere le pere più digeribili si consigliava di cucinarle con cannella, chiodi di garofano e vino rosso e di servirle con burro, formaggio fresco e un po' di zucchero.
Dalle mandorle, nocciole e noci si ricavava anche una farina, si estraeva un olio e si preparavano numerosi dolci. Nel Museo Archeologico di Reggio Calabria sono conservati antichi stampi che furono usati per la pasta di mandorle. Si preparavano frittelle condite con miele o mosto cotto, dolcetti assai simili ai nostri mostaccioli ed in