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Antiche memorie
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Antiche memorie

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Per chi come me è cresciuto ascoltando i racconti di mio nonno sulla guerra e sulla povertà può sembrare normale che un uomo dopo essere rimasto orfano all'età di 13 anni, dopo aver combattuto (più contro le cimici che contro i nemici) in Albania, dopo essere stato militare in Francia, dopo essere stato internato dai nazisti in Germania, dopo aver corso il rischio di essere tradotto in Siberia dai comunisti e dopo essere tornato a piedi da Berlino, a distanza di anni ricordi e senta l'esigenza di raccontare solo i suoi amori, le sue passioni e l'affetto della sua famiglia.
Ed invece non è normale. Ci vogliono una forza interiore incredibile per lasciare indietro il rancore, apprezzare le cose belle che la vita ci dona e continuare a vivere serenamente.

Da bambino ascoltavo quelle storie con un misto di curiosità e imbarazzo. Imbarazzo perché non era elegante raccontare degli antichi amori davanti alla nonna. Ci sono volute queste pagine, scritte con l'aiuto della sua adorata nipote Nuccia durante una lunga vacanza estiva nel suo paese di origine, Calopezzati, all'età di 80 anni e ritrovate quasi per caso oltre venti anni dopo per farmi riscoprire ed apprezzare a pieno il valore di mio nonno come uomo ed il messaggio che ci ha lasciato: la vita, l'amore e la Fede sono più forti di ogni tragedia.

In famiglia ci è sembrato naturale voler condividere questa storia con tutti coloro che avranno voglia di leggerla. Vi lascio alle parole di mio nonno, di cui con orgoglio porto il nome per secolare tradizione di famiglia: buona lettura!

In copertina uno dei tanti quadri che Michele Giacomo Pinto ha dipinto negli anni della pensione.
LanguageItaliano
Release dateFeb 23, 2014
ISBN9788868857264
Antiche memorie

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    Antiche memorie - Cav. Michele Giacomo Pinto

    Jr. 

    Antiche Memorie

    1914

    Mi chiamo Michele Giacomo Pinto, un cognome dì evidente origine spagnola o portoghese e a noi, a me, alle mie sorelle, piace credere che ci siano stati dei lontani ascendenti iberici, perché anche il soprannome, con cui mio padre era conosciuto nel suo paesello, è di lingua catalana: veniva chiamato Paccaritto, piccolo passero e come tale volò via, quasi rondine pascoliana, in un lontano giorno d'agosto del 1927. Ma di questo scriverò più avanti.

    Il mio paese, Calopezzati, poco più di 2.000 anime, è situato su una piccola e arida collina argillosa, da cui si domina un ampio tratto di mare, l'azzurro mare Jonio, il cui colore intenso, appena increspato da leggere onde schiumose, evoca nella sua luce abbagliante lontane immagini di una terra arcaica, la Grecia, più che un lembo dell'estrema Calabria. Quattro chilometri di strada, un tempo sassosa e piena di polvere, ora lucida e asfaltata, separano il mare dal piccolo gruppo di case, dalle tegole rosse e dai muri grigi di pietra - ora tutto è diverso da come la memoria ricorda - che sembrano aggrappati al castello come bimbi alla gonna della mamma. Il castello e la chiesa, gli edifici più importanti: questa, una costruzione senza particolare rilievo artistico, ma che tanto dice alle memorie degli abitanti che, nel ricordo dei vecchi, sembrano rivivere lontane immagini di un remoto passato, in cui tutti, donne, bambini, nonnini, poveri e meno poveri trasportano pietre, calcina, travi per edificare il santo luogo; l'altro una massiccia costruzione in pietra grigia, intorno alla quale si raccolgono leggende e tradizioni che arricchiscono il patrimonio di tutti e ora rendono più suggestive le lunghe serate dei turisti curiosi.

    1920 - 1926

    È da poco finita la 1^ guerra mondiale – anche il mio piccolo paese ha pagato il suo contributo di morte – e non c'è ancora né luce elettrica né acqua potabile.

    A sera, quando la luce del fuoco del camino non basta più per gli occhi stanchi delle donne che rammendano i poveri panni, si accendono le lucerne e l'odore dell'olio fritto – quello buono non è consentito per tale uso, sarebbe uno sciupio sacrilego – si diffonde per l'unica stanza dove tutta la famiglia vive le sue giornate, fuggendone fuori appena la stagione lo consente.

    All'acqua provvedono pazienti somarelli – anche noi ne abbiamo uno, Argentina, così chiamato perché mio padre l'ha comperato dopo uno dei tanti viaggi d'emigrante in quella lontana terra – che prima dell'agognato riposo nella stalla rendono ancora questo servizio ai padroni: il trasporto dell'acqua, dalle sorgenti poco distanti dal paese.

    È una vita misera, stentata, quella che vi si conduce: lavoro, quando c'è, e non per tutti, la semina e mietitura del grano, la raccolta delle ulive e della frutta, la vendemmia.

    Detto così potrebbe sembrare la ricchezza e invece... sono solo quattro o cinque le famiglie che vivono bene, le altre coltivano il loro fazzoletto di terra e sono grate a Dio quando riescono ad assicurarsi provviste per tutto l'anno, garanzia contro la fame, visto che i soldi da queste parti e in questi tempi sono privilegio di pochi.

    Certo per essere tranquilli e sicuri di farcela bisogna che lavorino tutti: madre, padre, figli. Anche noi non sfuggiamo a questa regola. Mio padre fa il contadino ma, spinto dal bisogno e non amando l'ozio. quando in campagna non c'è nulla da fare diventa potatore o, quando è la stagione, provvede a castrare i maiali.

    Ma anche facendo mille mestieri la vita è povera, difficile, soprattutto quando l'annata è misera e le bocche da sfamare crescono di anno in anno. È per questo che mio padre, come tanti, prende la via della Mura, come chiamano l'Argentina.

    Certo è triste la partenza, i più vecchi ricordano che a chi partiva un tempo si faceva un bel funerale, tanto per mettersi al sicuro nell'altro mondo; ora non è più così, ma l'approssimarsi dell'addio si legge negli occhi smarriti delle donne, nei loro gesti trepidanti.

    Le donne: spesso rimangono sole, per anni e anni, con uno, due, tre pargoletti... aumentano ad ogni rientro.

    Anche mia madre è sola e la povertà che da sempre accompagna la nostre giornate, ora si fa sentire di più.

    È la mamma che teme il futuro, non vuole attingere al magro gruzzoletto che dovrà garantire benessere alla famiglia con l'acquisto di una casa e di un piccolo podere.

    La sera, quando spenti i rumori delle viuzze, i bimbi cercano conforto e calore attorno alla mamma che scodella la magra cena, è lei che racconta e apre uno scenario di anni futuri in cui si mangerà a sazietà e si potranno avere scarpe nuove.

    I bimbi, ancora affamati ma paghi di queste promesse, fanno fatica a tenere gli occhi aperti e qualcuno già si addormenta in grembo.

    Le prime luci dell'alba portano voci e rumori nel piccolo borgo. Dimenticati la fame e i racconti della sera, sciamano per le stradine, rincorrendosi, spesso inseguiti da galline e maialetti i più piccoli, avviandosi verso la piccola scuola i più grandicelli.

    È una scuola d'altri tempi: il maestro, un prete severo ma benevolo quando occorre, insegna ai maschi: un po' di grammatica, le quattro operazioni, qualche nozione di storia e geografia, ma anche a riconoscere le piante, a coltivarle, a capire se è la stagione giusta per i lavori che si debbono fare.

    Il tutto è rallegrato, soprattutto in primavera, da passeggiate, durante le quali il maestro, di scuola e di vita, fa raccogliere le foglie di gelso per il suo allevamento di bachi. Si, perché in paese, da tempo immemorabile si alleva il baco da seta e per i ragazzi la fatica di raccogliere e trasportare ingombranti panieri di foglie sarà compensata dallo spettacolo inconsueto e affascinante del baco che si srotola e diventa seta. Qualcuno sfuggirà

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