L’ombra dei ricordi
By Giusy Sorci
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L’ombra dei ricordi - Giusy Sorci
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Capitolo 1
Cuore ferito
Ottobre si era ormai insediato, con il suo perfido fresco e il suo continuo vento gelido. Fuori dalla finestra la brezza delle prime luci dell’alba scivolava rapida sulle foglie ingiallite, portando con sé polvere e pietrisco. Il cielo era ancora d’inchiostro, ma all’orizzonte, nello spiraglio tra i monti, si levava già uno spruzzo di rosa, e la luna impallidiva al cospetto di un sole che cominciava già ad infuocarsi.
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Adesso era fredda, forte, distante…
Non piangeva più, non ne parlava nemmeno. Dafne non era mai esistita, la sua assenza però bruciava come fuoco rovente e il suo orgoglio si piegava, ma non si sarebbe mai spezzato, non più…
Gli alberi più forti non sono quelli possenti, dalle radici immense, dalle chiome folte e il tronco robusto, sono quelli dal ramo sottile e fragile, che si piegano sotto la furia del vento e le intemperie del clima, ma pur inginocchiandosi di fronte a qualcosa più forte di loro, non si spezzano mai.
E adesso, dopo che Jamie si era presentato alla nostra porta, esausto e assonnato, con in mano un pezzo di carta sgualcito e la nostra pergamena, nuova luce aveva acceso quegli occhi di ghiaccio. Una luce che non ero sicuro di voler assecondare, una scintilla di coraggio e pazzia che mi terrorizzava.
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La leggenda narra di tempi lontani in cui una donna, pazza e pericolosa, fu allontanata dal centro della cittadina di Crin. La donna, dichiarata sola, aveva invece un figlio. Il figlio fu scoperto solo dopo la morte della donna e i cittadini decisero di processarlo di fronte all ’intero popolo. Molti giuravano di aver parlato di persona con la pazza
e che la malattia
fosse scattata dopo la morte del compagno di cui prima di allora si ignorava l ’esistenza.
La realtà era evidente: nessuno sapeva e il dubbio avrebbe portato a ricerche. Serval, governatore della città diede ai cittadini notizie false sui fatti accaduti realmente solo per evitare di far addentrare il popolo in ricerche pericolose da cui era meglio stare alla larga. Il bambino morì e le voci, dopo decine di anni si spensero e di tutto quello che era successo non ne rimase che un lontano ricordo.
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Aveva vinto. Tra cuore e testa, sceglievo il cuore, sempre. E sapevo che me ne sarei pentito, sentivo che avrebbe sofferto e che io non avrei avuto la forza di sorreggerla nemmeno stavolta, e sarebbe caduta, e il cuore le si sarebbe infranto sotto la debole presa delle mie mani, e io avrei solo potuto guardare impotente le lacrime che le avrebbero bruciato il viso quando sarebbe stata investita dai fantasmi del suo passato.
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Deglutii il nodo che mi si era stretto in gola e annuii distante, senza provare più a ribattere, puntando lo sguardo sulla finestra buia.
Guardai con disperazione il cielo pallido, lo trafissi con la mia tristezza e lui sembrò volermi rincuorare con le deboli luci dell’aurora che rischiaravano l’oscurità della notte. Ottobre era il mese più pazzo dell’anno. Sapeva essere squallido e incolore, una fastidiosa mezza stagione, ma guardandolo con gli occhi limpidi della speranza mutava colore.
Portava con sé un’atmosfera affascinante, gli alberi dalle foglie lievemente ingiallite si distendevano lungo i confini del villaggio, ombreggiando vaste zolle d’erba, e le giornate si accorciavano e si ingrigivano, ma l’aria fresca ti riempiva i polmoni e la testa, schiarendo le idee essiccate dal sole estivo.
Sorrisi al cielo ed emisi un sospiro lungo e angoscioso.
Il cielo era percorso da profonde cicatrici grigie cariche di lacrime, e la luna era ridotta ad un sottile spicchio. Chissà quando avremmo rivisto quei monti e quelle radure, sentito quelle voci e quei canti, assaporato la freschezza di quella lieve brezza. Ma il cielo, quello era sempre lassù a vegliare su di noi, e tutti eravamo figli della stesso cielo, che fosse vuoto o stracolmo di divinità, che fosse caldo come un sorriso o gelido come una lacrima, era lì ad aspettare.
Sybil mi cinse il collo con le spalle e sentii la sua guancia poggiarsi sulla mia schiena, e quel gelo che mi si era insinuato nelle vene sembrò riscaldarsi al sole. E fu in quell’istante che anche le mie incertezze si sciolsero e capii di doverla proteggere, di doverla seguire anche nella più insensata delle pazzie, di dover asciugare le sue lacrime e sollevare le sue ginocchia quando il dolore le schiacciava a terra.
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Era segno di resa, e lei lo sapeva, ma si limitò a stringermi con più fervore e ad inumidirmi la maglia con la debolezza delle sue lacrime nascoste. Io non mi voltai, lasciai che ritrovasse da sola la forza e lei non tardò a risollevare lo sguardo, più orgoglioso che mai.
Prese le borse da terra e mi fece segno di aprire la finestra, dopo le gettò una dietro l’altra e con un tonfo sordo atterrarono sull’erba. Mi porse una mano e io rilanciai una rapida occhiata alla stanza, probabilmente l’ultima, per poi prenderla sulle spalle e saltare giù, con le idee annebbiate dai desideri.
Non chiedevo più conferma della sua sicurezza, perché bastava il suo sguardo di pietra a darmela, ma era della mia che desideravo avere certezza.
Lei mi mise sulle spalle una delle sacche e prendendo la sua in grembo aspettò che la sollevassi da terra, e io lo feci. Prendendola tra le braccia cominciai a correre ancor più velocemente di quanto non facessi di solito, con la paura che se avessi rallentato il passo mi sarei pentito del viaggio o che se solo avessi lanciato un’ultima occhiata al villaggio dormiente i miei piedi non sarebbero più riusciti a lasciarselo alle spalle.
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La sentivo muovere sotto le braccia e i muscoli che guizzavano lungo le spalle larghe erano in tensione. Era una pazzia, il cammino era lungo e stancante, la costa infinita attraversava decine di città umane e per evitarle avremmo dovuto allungare la strada, e quel silenzio asfissiante rendeva ancora più insopportabile la corsa.
Il suo astenuto silenzio e quello sguardo deciso mi innervosivano, neppure il vento fresco che riecheggiava nelle orecchie e ci accarezzava il viso riusciva a allentare i miei nervi tesi, ma il singhiozzare di un ruscello lontano ci cullava colmando il silenzio che ci aveva investito.
Corsi per ore, la mattinata trascorse tranquillamente, e furono davvero poche le parole che ci rivolgemmo per tutto il viaggio. La sua ostinazione mi feriva, perché non riusciva ad essermi grata né per aver inghiottito il mio dissenso né per essere divenuto il suo comodo mezzo di trasporto.
Lei non parve avere fame per tutto il giorno e si addormentò tra le mie braccia per ore, riuscendo a distrarmi dalla corsa per guardarla molto più di quanto non avessi fatto mentre era sveglia. Eravamo ancora lontani dalla meta, cercavo di non allungare troppo il percorso ma ero costretto a stare in guardia anche quando eravamo distanti dai centri abitati. Il solo pensiero di essere nella loro terra mi rendeva nervoso, ma adesso che la guardavo dormire placida tra le mie braccia, con un mezzo sorriso ad illuminarle il viso pallido, capivo perché facevo tutto questo.
Le cicatrici del cielo però riaprirono subdole le loro ferite e la pioggia cominciò a ticchettare delicata sulla nostra pelle. Sybil però si era assopita in modo così profondo che neanche quando la pioggia cominciò ad infittirsi si ridestò.
Subito si accartocciò contro il mio petto mentre io cercavo un riparo che la tenesse al caldo, ma più correvo più la pioggia sembrava pervadere la pelle come spilli, tanto sottili quanto affilati.
Lungo un enorme scoglio notai si apriva una rientranza capace di tenerci se non caldi, almeno asciutti. Non tardai a raggiungerlo e la adagiai con delicatezza sul terreno umido, lei appoggiò la schiena contro la pietra dura e sospirò pesantemente, in bilico tra una realtà troppo affilata e un sonno troppo irreale.
Le mani le tremavano violentemente per il freddo e per la paura e per la prima volta sotto la sua scorza di orgoglio riuscii a percepire la fragilità nella quale stava lentamente annegando, senza che io riuscissi a tirarla su, ormai intrappolata nel fondo degli abissi della sua incoscienza.
Una lacrima le percorse lenta una guancia, mentre con le dita congelate scavava nel terreno cercando disperatamente un appiglio, qualcosa per cui valesse la pena continuare a lottare.
I sogni a volte sono più crudeli della realtà. Possono illuderti con le loro fattezze magiche e irreali o atterrirti con la loro mostruosità quando scavando nella realtà fanno riaffiorare immagini che con la mente lucida continui a scacciare dalla memoria.
Le strinsi una mano e mentre un lampo squarciava la sera tormentata da un vento gelido e una pioggia battente, sentii che il battito accelerato del suo cuore rallentava la corsa e il suo respiro affannato si tranquillizzava.
Il sole in lontananza si tuffava in mare mentre turbini tempestosi agitavano le acque rendendo quasi insopportabile il fragore delle onde che si infrangevano negli scogli. I suoni, il vento gelido, i colori sbiaditi davano al paesaggio un’aria terribilmente tetra e ostile, sentivo ostilità nello scrosciare della pioggia, nell’ululare del vento, nelle urla delle onde.
Stavamo sfidando il tempo, stavamo correndo controvento e questo mi faceva paura. Sembrava che il cielo piangesse le nostre stupide scelte, ma al contempo sembrava non perdonare la stoltezza delle nostre azioni.
Tesi le mie braccia verso di lei e la strinsi con vigore cercando di soffocare l’ombra delle mie paure. Lei si lasciò cullare fragile e tremante, mentre i sogni la stringevano in una morsa prepotente che le sfilava via il sorriso.
Mi chiesi se era giusto assecondarla nel torto e nelle pazzie, se avrebbe vissuto ugualmente questo terribile sonno se solo fossimo rimasti a riparo nella sua camera ad ascoltare il lontano abbattersi della pioggia sulle finestre. Ma poi mi convincevo che non sarei sopravvissuto un giorno, un’ora, un minuto vedendo nei suoi occhi delusione, disprezzo, tristezza.
Era il suo modo, orgoglioso e avventato, di chiedermi aiuto. Era il suo modo di farmi capire quanto fosse importante cambiare aria, viaggiare, scavare nella sua vita e non pensare a nient’altro. Non potevo intrappolarla nella sua tristezza, dovevo tirarla fuori dal presente, ma non avevo idea di come proteggerla dal passato.
Mi estraniavo dall’oscurità della sera e ascoltavo incantato il ticchettio irregolare del suo cuore che inveiva contro il suo fragile petto. Ne contavo i battiti e mi riempivo la testa del loro suono, mentre mi distruggevo guardando il suo viso esangue attraversato da gocce di dolore. Tremava ancora e io, bagnato fradicio, non potevo riscaldarla.
Dentro di lei c’era un demone malvagio, nero come l’inchiostro, che le bruciava il cuore lentamente, quasi senza che se ne accorgesse, e io non potevo fare altro che vederla scivolare nell’oblio.
C’era qualcosa in lei che le succhiava via la felicità a poco a poco, ma lei era troppo forte perché il suo spirito cedesse all’oscurità, era troppo forte perché il nero inglobasse il bianco, il male distruggesse il bene e il demone s’impadronisse di lei.
La guardai impietrito mentre mi rendevo conto che le sue labbra si facevano sempre più livide e il petto sotto le mie braccia era scosso da violenti sussulti.
Cacciai dalla mia mente ogni genere di malizia e mi concentrai sul suo viso pallido come un cadavere e sui suoi capelli zuppi d’acqua. Le sfilai con delicatezza la maglia e quando sfiorai i suoi fianchi mi parve che per un attimo il suo corpo smise di tremare, ma riprese poi con più violenza.
La guardai con desiderio, ma mi morsi le labbra e distolsi lo sguardo frugando velocemente nella sua sacca in cerca di un maglione asciutto. Lo trovai in cima ad una pila di vestiti e continuando a reprimere i pensieri che si rincorrevano nella testa glielo misi in fretta, un po’ per allontanare il gelo che le intrappolava il corpo, un po’ per placare la sete che mi scavava la mente, e che nulla aveva a che fare con il sangue.
Smise quasi subito di tremare e avvolta nel suo maglione caldo sembrò assopirsi in sonni più tranquilli. La malizia continuò a pizzicarmi il cuore, ma adesso che le sue guance stavano riprendendo colore e il vento stava placando la sua ira, anche i tentacoli dei miei pensieri si ritirarono lentamente lasciando il posto solo ad un senso di tenerezza.
Si svegliò in mattinata, quando il cielo era di nuovo terso e la temperatura mite. Aprì un occhio e mi guardò, steso sugli scogli a prendere il sole e subito un largo sorriso le illuminò il viso. Anche lei era stesa al sole, e accanto la sua maglia era ormai quasi asciutta. Si accorse solo dopo cinque minuti buoni di avere indosso un maglione pesante e le sue guance si tinsero di porpora. Abbassò presto lo sguardo e l’imbarazzo le arrochì la voce limpida.
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Lei distolse lo sguardo e accarezzò con distrazione la maglia, poi la piegò e la impilò insieme alle altre.
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Io feci un passo indietro atterrito. Ero offeso dalla sua collera, ma ormai non potevo che rassegnarmi alla verità. Avevo deciso di seguirla ovunque, nell’istante stesso in cui il suo sorriso aveva cicatrizzato il mio cuore ferito.
Ma non potevo trascinarla nel dolore di una vita che ormai era stata sepolta nel sangue.
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Io rimasi attonito, non avevo parole per rasserenare quel viso stravolto dalla collera e dalla maledetta paura di rimanere sola, ma anche le avessi avute la rabbia le avrebbe distolte a tal punto che avrei desiderato tacere.
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