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L'Ombra sotto la carne
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L'Ombra sotto la carne
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L'Ombra sotto la carne

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About this ebook

Demetra ha diciassette anni e vive in una qualunque città media del centro-nord Italia. E'introversa, odia e teme gli altri e non vuole integrarsi; un vorace fermento interiore e una narcisistica immagine di sé le fanno da paracadute. Meno male che Cristiano, il suo migliore amico, le offre un affetto sincero; anche suo padre Gilberto non le è da meno e lo psicologo Melli accoglie la sua ombra interiore. Non sopporta invece una madre abbruttita dai fallimenti personali. Ma non può rimandare la missione di ogni persona su questa Terra: valicare il confine fra adolscenza e mondo adulto. Solo che vi entra dalla porta sbagliata, quella che apre la vita a scenari che frantumano l'anima in mille pezzi. Qualcuno, ricamando alle sue spalle, ha in serbo per lei un piano terribile. Vilipesa nelle sue fragilità, deve sovvertire le coordinate dell'esistenza per salvarsi e compiere il grande salto.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 18, 2013
ISBN9788891106698
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    L'Ombra sotto la carne - Alessio Bacchetta

    burrasca.

    CAPITOLO 1

    Brandelli di carne e frattaglie di intestini formavano la struttura di un tremendo lampadario; Demetra, con il cuore in gola, fece per accendere la luce quasi a dissipare quella spaventosa visione, ma la luminaria esplose in vari fiotti di sangue che pennellarono losche strisce sul muro. Non vi era altro da fare che cancellarle; radunò alla bene e meglio degli stracci di fortuna, ma più puliva e più aloni vermigli si dilatavano sul panna con cui un anno prima suo padre aveva fatto tinteggiare la stanza. Con uno sforzo abnorme cercò di emettere un grido, ma inspiegabilmente le corde vocali erano come sclerotizzate. La gola arroventata, vilipesa dall'impossibilità di comunicare; sensazione che non provava per la prima volta.

       Un sogno.

       «Magari mi accorgessi che non è realtà quando mi succede» pensò fra sé e sé mentre si rianimava e accoglieva la fioca luce dell'alba dalle feritoie della finestra.

       «Mi sa che dovrò parlarne a Melli appena lo vedo» ripensò non senza una certa spinta motivazionale.

       Melli, il suo psicologo: quarantacinque anni, un bell'uomo e un carattere gentile. Culturalmente raffinato, padroneggiava la sua materia con disinvoltura. Ma non la capiva fino in fondo. Racchiuso nel suo angusto studio, respirava la polvere e i concetti dei tanti libri che custodiva come reliquie sugli scaffali. Gli servivano davvero quei fiumi di parole teorici quando per protocollo doveva curare la patologia quotidiana dei suoi pazienti? Questo interrogativo le si poneva ogni volta che varcava il suo cancelletto d'entrata. Non era mai riuscita a formulare una risposta. Ma non ce l'aveva con lui; in cuor suo sapeva di non essere un caso facile per nessuno. Tecnici della mente e normali civili.

       D'altronde l'aveva studiato a scuola nelle ore di psicologia che l'adolescenza costituisce il periodo più burrascoso e instabile della vita di un essere umano. E bastava guardarsi intorno per mischiarsi ad una pletora di coetanei in fregola per il sesso, la ricerca di presunti amori impetuosi, il divertimento più sfrenato. Non che lei si considerasse troppo diversa da quella gente, ma almeno ambiva alla consapevolezza di sé e di ciò che le danzava intorno. Le sue diciassette primavere non potevano farle concepire l'esistenza come gli adulti comunque. Tanto meno come i suoi genitori, in particolare sua madre, dalla cui influenza cercava di tenersi lontano come chi cammina e vede all'ultimo istante un escremento di cane sul marciapiede. 

       «Bella metafora; forse questa però è meglio che non la dica a Melli» ridacchiò internamente e tentò di riaddormentarsi senza riuscirsi. La testa ronzava come un pallone aerostatico sospeso senza meta precisa in chissà quale atmosfera. Saltellava di palo in frasca come una farfalla con le ali bagnate, perseguiva una direzione ma poi la cambiava, bramava un punto di ristoro ma nulla la convinceva. Le venne in mente quello che aveva sentito giorni prima a scuola all'intervallo mentre andava nei bagni. Uno studente del quinto anno sosteneva con aria da professorino palle mosce che un essere umano utilizza mediamente il 15% del potenziale del suo cervello. Affrontando il dormiveglia, incipit battesimale della sua giornata, decise che era una cosa buona; se il suo intelletto fosse stato usato nella sua interezza, chissà che emicranie avrebbe patito. 

       Già pensava troppo. Quello forse il suo problema.

       Meglio non giocare con le verità della vita. Sì, perché lei non si limitava a porsi delle domande all'acqua di rose; tentava di fare il colpo gobbo arrogandosi il diritto di sapere tutto ciò che c'è da sapere sull'uomo, l'esistenza, i fenomeni. Ma aveva sempre diciassette anni; e le piacevano anche le cose che a diciassette anni fanno girare la testa: ragazzi, tecnologia, uscire qualche volta. Non era alla canna del gas insomma. Ma un po' di tranquillità in più non le avrebbe guastato.

       Mentre era prossima a riabbracciare Morfeo, la madre bussò   senza ritegno alla porta.

       «Deme, è ora di svegliarsi».

       Quel timbro vocale le apparve una lama conficcata nell'addome, un taglierino che, sibilando, sconfessava la sua stessa pelle. Fece per un attimo finta di non sentire, ma in cuor suo sapeva che non poteva aggirare l'ostacolo. Mentre aprivano la porta, si fece forza saltando giù dal letto. Non una parola, subito in bagno.

       Clarissa era una donna di quarantasei anni; una volta anche bella, ma oggi portava i segni di un parto travagliato e difficile, un rapporto complicato con l'unica figlia, un lavoro poco stimolante e un marito sì intelligente, ma che non si era mai troppo accorto della sua femminilità. 

       «Deme, vuoi il latte?» chiese parlando alla porta del bagno.

       «No, magari prendo qualcosa a scuola».

       «Approfitta, dai; c'è già il latte caldo sul fuoco, almeno qui mangi più naturale e non quelle schifezze delle macchinette».

       Demetra pensò che una macchinetta dei cibi avesse molta più dignità della madre; entrambe erano macchine, ma una delle due rompeva le palle e l'altra no.

       «Che ne sai te di quello che servono a scuola? E comunque adesso non ho fame» tagliò corto stizzita.

       Clarissa lemme lemme riguadagnò la cucina; la ragazza pensò che fame avrebbe anche potuto averla se non fosse per quei crampi allo stomaco che ogni mattina si impadronivano di lei. Dolore strano da descrivere: un esiziale e sordido misto di nausea, pesantezza. Andare a scuola non le piaceva più. La vita non le piaceva più. O forse non le erano mai piaciute né una né l'altra. Ma che cavolo stava al mondo a fare? Ragionevolmente una larva denotava vitalità maggiore e comunque una larva viene messa al mondo con una precisa funzione evolutiva. Lei no. 

       Mentre quegli insidiosi interrogativi le solleticavano la mente, andò a vestirsi. Aprendo l'armadio, fu travolta da una sensazione di superficialità.

       «Ma a che servono tutti questi abiti?» sussurrò sillabando. Scelse una camicetta a tinta salmone da abbinare ai pantaloni marroni che aveva già indossato ieri. Ecco un paradosso della vita: essere attratti dalle cose materiali, ma in fondo percepirne l'evanescenza, la quantità esagerata. I vestiti mica le dispiacevano: delle volte gironzolava nei negozi di abbigliamento a provarsi questo e quello, a sognare di comprare tutto. Eppure disprezzava profondamente alcune sue conoscenze soprattutto femminili che facevano del vezzo estetico una sorta di ragione di vita.

       Si guardò allo specchio con la camicetta: non era necessario mettersi altro. Maggio stava già offrendo un tepore primaverile davvero piacevole; fu combattuta se lasciare aperto il bottone in alto, ma poi lo affrancò procrastinando la decisione su come gestirlo una volta arrivata a scuola. Un altro aspetto della vita che la teneva in bilico: la cupidigia indotta da una scollatura anche castigata negli occhi dei compagni maschi. Di per sé qualcosa di abominevole il fatto che i maschietti si comportassero come dei trogloditi imbalsamati in certi casi. D'altro canto era sempre una giovane donna che si affacciava al mondo con inclinazione, ancorché moderata, alla vanità. In fondo però non gliene fregava niente; che si trastullassero pure il serpentone nelle loro stanzette gli sfigati dei suoi compagni, lei aveva altro a cui pensare. E comunque la porzione concava delle sue tette avrebbe nel caso deliziato tutto il mondo, ma non uno dei suoi abitanti: Cristiano. Tutti ma non lui. Non perché brutto o scemo, anzi raccoglieva un certo consenso con la popolazione femminile. Ma solo in quanto caro amico. L'unico amico che avesse mai annoverato nel suo bagaglio esperienziale. E l'amicizia avrà pur un valore, no? Delle volte pensava a lui come a un cyborg programmato per non suscitare desiderio nelle donne, la sola persona al mondo per cui valesse la pena di alzarsi dal letto. Troppo forte Cristiano, con quell'aria da uomo prima del tempo e sicuro di sé. Sicuro poi un paio di palle: un essere fragile, ma non lo dava a vedere. E ci riusciva pure. Il suo animo irrorato di saporito humus, l'intelligenza ai fiori d'arancio con una sensibilità preziosa, un modo di valutare i fatti che rimandava al fiabesco. Ed era fortunata a conoscere questi suoi lati. Perché Cristiano li mostrava solo a lei.

       In macchina verso la scuola Clarissa parlava a vanvera; Demetra fu tentata di indossare le cuffiette e sentire un po' di musica con lo smartphone. Ma non voleva darle la sensazione di essere considerata e allora, con un certo fastidio, fece finta di starla a sentire. 

       «Gilberto arriva questo fine settimana, non dimenticarlo».

       Gilberto. Ma perché mai continuava a non chiamarlo papà? 

       «Questa donna deve scopare di più invece di cercare questa ironia di merda» le venne in mente.

       Un momento: suo padre tornava a casa per il weekend? Fico. Non le dispiaceva rivedere il suo vecchio, che, con tutti i suoi limiti, era di certo più interessante della moglie. Anzi, per il papà provava qualcosa che non si era mai riuscita a spiegare: una tenerezza mista ad ammirazione. Ma non si abbeverava mai a questi pensieri per non affogare nella melassa del patetico. Almeno così le veniva da pensare. In fondo era sempre un genitore e dai genitori vanno tenute debite distanze.

       Arrivati davanti all'istituto di scienze umane «Primo Levi», Clarissa pretese come ogni sacrosanta mattina il bacio di saluto. Glielo concesse con uno schifo malcelato, ma non perse tempo a rammentare che non era più una poppante e poteva condurre serenamente la sua giornata senza quell'avvicinamento di mucose. 

       «Ehi bionda! Ciao» le fece Cristiano dandole tre bacini sulle guance.

       «Finalmente qualcosa di gradito, Cri; sono appena reduce dal bacio di Giuda di mia madre». 

       «Dai, sei la sua progenie» sottolineò lui.

       Progenie? Ma come cazzo parlava? Si era abituata al linguaggio forbito e non si stupiva più. Anzi cercava di imparare da quei termini. Come si era abituata ma con un certo disappunto alle motivazioni con cui lui perorava la causa di Clarissa.

       «Ti conosco da anni, ma non capirò mai perché ti intestardisci a difendere la signora. Secondo me te la faresti...» sghignazzò mentre tirava fuori il libro di storia. 

       La bella giornata di sole, contrappuntata da un placido venticello, poteva essere rovinata solo dalla possibile interrogazione del prof. Politi, un omone buono come il pane, ma ligio alla consuetudine didattica. Il suo divertimento più grande, che reputava un dovere istituzionale e morale, consisteva nell'appurare se gli studenti avessero recepito le sue spiegazioni. Poi durante le domande aiutava e stava sempre dalla tua parte, però meglio non andare alla cattedra. Più produttivo invece sonnecchiare sul banco magari pensando ai fatti propri. 

       «Oh ma quanto sei casta oggi, Deme - esclamò Cristiano - e slaccia 'sta camicetta, mi sembri impagliata!».

       Lo guardò con amorevole odio reputandolo l'unico ragazzo con cui si sentiva davvero a suo agio, a cui poteva dire tutto, con cui poteva essere autentica. Una volta dormirono assieme durante la gita scolastica dello scorso anno in costiera amalfitana; il resto della classe in visibilio ipotizzando orge bacchiche e altisonanti momenti libidinosi. In realtà passarono l'intera notte a ridere, prendere per il culo i compagni gelosi e fintamente maschi e raccontarsi di tutto e di più sulla vita. A Cristiano uscirono anche mugolii di godimento, iniziativa che la ribaltò letteralmente dal ridere. Proprio in quell'occasione, nell'assordante silenzio dell'impersonale camera di albergo, compresero quanto di meraviglioso li legasse. Non se lo comunicarono, come non se lo dicevano adesso. La verità a volte non va spiegata, ma esperita e vissuta sulla pelle. I brividi la dicono molto di più di mille discorsi. E Demetra quella notte ne aveva provati molti: i brividi della complicità, della sintonia che fa entrare dentro una persona senza muoversi. Le sembrò un uomo tanto profondo da voler annegare dentro il suo sangue, sicura di non morire soffocata. Si era detta che dieci orgasmi non avrebbero sortito lo stesso effetto. E talvolta, nei suoi momenti no, si raccontava di ritenersi fortunata che lui fosse entrato nella sua esistenza.

       Politi non interrogò nessuno; ci teneva a discutere con i ragazzi di come la storia antica possa ancora al giorno d'oggi indirizzare le strategie amministrative. Le due ore non presero le sembianze di una palla al piede; Politi univa competenza e attaccamento alla declinazione della sua materia quale viatico interpretativo della realtà. Con tale approccio sostanziava la fredda catalogazione delle date nel significato degli avvenimenti passati.

       Demetra però ricercava il senso del presente, lei effimera equilibrista fra un passato senza arte né parte e un futuro più nebuloso di una pioggia radioattiva.

       E sapeva che Melli l'attendeva nel suo studio al pomeriggio.

    CAPITOLO 2

    All'uscita di scuola Cristiano si attardò con un paio di compagni; i due parlavano gesticolando visibilmente, lui sorrideva in modo  tiepido e pacioso senza mostrarsi troppo interessato alla discussione. Demetra, zainetto in spalla e l'aria di quella che non ha bisogno di nessuno, osservava la scena. I ragazzi discorrevano ciascuno a voce sostenuta quasi a primeggiare con la forza nel branco; degli attori di un teatrino immaginario nella cui platea  figurano salme fittizie e altrettanto immaginarie. L'argomento virava sull'orgasmo femminile e veniva dibattuto su quale fosse la tecnica più funzionale per far godere una donna con la bocca e la lingua fino a condurla all'acme del piacere. 

       De Martino, giubbotto in pelle e un'aura da finto maledetto e vissuto, asseriva con certezza che occorre entrare con le fauci il più possibile tra le gambe della partner e spingere fino al godimento massimo.

       Palestri, il cui ciuffo ingellato pareva un orpello posticciamente impiantato su un cranio ossuto, vaneggiava di aver sottratto un porno film in un cassetto dell'officina di suo padre. Secondo questa documentazione, che aveva veduto in rigoroso silenzio nella sua camera e in tutta fretta per riportarla prontamente nel luogo da cui l'aveva presa, si evinceva che solo una donna sa dosare adeguatamente i movimenti per indurre in un'altra un orgasmo come si deve.

       Lo sguardo di Cristiano era tutto da vedere: sornione, disponibile ma non del tutto partecipe, arguto e pronto a scendere in campo, ma non prodigo di iniziativa. De Martino e Palestri erano circondati da un nugolo torrenziale di studenti che uscivano dall'istituto e un confuso accavallarsi di voci. Non dimostravano il minimo pudore nel confrontarsi su tematiche del genere e alla fine Cristiano decretò una sorta di partita patta quando esclamò accolto da un sonoro applauso: «Io non perdo tempo a farla godere, lo tiro fuori e glielo metto in mano».

       Ecco ciò che Demetra adorava più in lui: la capacità di entrare nelle situazioni in punta di piedi, di essere credibile e simpatico, ma di non integrarsi mai troppo. Era un'attitudine che il suo carattere più istintivo e senza mezze misure non riusciva proprio a mettere in pratica. Da un lato se ne fregava; in fondo era fatta così e non desiderava sporcarsi con quella congerie di buzzurri che le stavano attorno. Dall'altro le piaceva ridere e l'unico modo per ridere è stare con gli altri.

       Ridere. Che bel verbo. E che bella sensazione soprattutto. 

       Ma quando fuori rideva, qualcosa dentro la fermava. Non era mai stata in grado di godersi appieno la profondità e la completezza di un momento allegro; come afflitta da un senso di colpa legato all'impossibilità di protendersi verso orizzonti rilassanti, ogni volta doveva famigliarizzare con i chiaroscuri di una personalità frammentata.

       Già, così aveva formalizzato Melli: «Personalità frammentata». L'ultima volta in studio capì la metà della spiegazione.

       «Non sono pazza, vero dottore?» aveva timidamente messo le mani avanti.

       «No signorina, i pazzi sono altri; la sua personalità è un po' frammentata, fragile, in bilico. Ma ce la faremo».

       Sempre positivo, mai parco di ottimismo. Peccato lei non avesse notato il minimo miglioramento in mesi di incontri.

       Intanto Cristiano arrivava. Si accese una Winston blu e aspirò profondamente. Il suo ghigno? Puro spettacolo.

       «Ma perché li prendevi per il culo?» gli fece notare.

       «Ma quando mai...».

       «Prima, con i due buzzurri. Si vedeva lontano un chilometro che non te ne fregava niente di quello che dicevano».

       «Buzzurri... Ancora con codesto sostantivo» sottolineò istrionicamente il ragazzo.

       «Sì, lo sai che mi piace chiamare così alcune persone».

       «Per te sono tutti buzzurri, non solo quei due».

       «Non è vero. Alcuni sono più buzzurri di altri e comunque che c'entri te con loro?».

       «Niente, chiacchiere fra amici».

       «Ah, mo' sono pure amici, andiamo bene...».

       «Se analizzi l'etimo della parola amico e ne cogli il senso di favorevole, ben accetto, allora sì, sono amici, mi va di favorirli, di accettarli anche se sono dei perfetti coglioni».

       «La pianti di parlare difficile?» si impose Demetra spintonandolo fra morbide risate.

       «So che alcuni sofismi ti sfuggono, ma, se ti applichi un po', anche un cervellino piccolo come il tuo ci può arrivare».

       Lei fece finta di arrabbiarsi, si comportava sempre così quando desiderava un po' di considerazione.

       Alzò il dito medio e si girò senza guardarlo pulendosi la manica della camicia che si era un po' sporcata di gesso di lavagna.

       «Sei veramente odioso; non studi mai, sempre con la testa sulle nuvole, eppure hai otto in tutte le materie e sei uno dei pochi che non si sta sbattendo per recuperare le insufficienze».

       «Si vede che su quelle nuvole io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare!».

       La guardò solo come lui sapeva guardarla, la prese a braccetto e cominciarono a camminare verso la fermata del pullman.

       «E comunque prima non mi hai risposto» incalzò Demetra.

       «A che proposito?».

       Le macchine passavano spostando l'aria quel tanto che bastava per smuovere la maglietta larga che Cristiano indossava. Una maglia senza grandi pretese, ma convincente un po' per tutti. Di un verde alquanto acceso; Cri non amava i colori scuri, sosteneva ingrigissero la sua personalità già grigia di suo.

       «Perché devi fingere interesse per discorsi e persone che non ti stimolano?» continuò lei.

       «Credi che io sia finocchio?».

       Lo guardò attonita mentre si ritrasse prontamente per l'arrivo di un'auto a velocità sostenuta.

       «Ma che dici? E se anche lo fossi, che me frega, mica ti devo sposare!».

       «Intendevo dire: secondo te a me non piace parlare di donne e di sesso?».

       «Non voglio sapere assolutamente che porcate vi raccontate voi maschi nei bagni della scuola e quando rimanete da soli. Il mio discorso era un altro e lo sai».

       «Sì che lo so, ti conosco abbastanza bene ormai».

       «E allora perché non mi rispondi?». 

       Cominciava seriamente a inalberarsi; Cristiano era un suo grande amico, ma quando scherzava troppo e non veniva al nocciolo della questione, le dava sui nervi.

       «E dai, mica sono cattivi ragazzi quei due» fece lui con le movenze effeminate e la bocca a papera.

       «Sei il solito evasivo! E non ti sopporto». 

       «Evasivo? Evviva, la nostra Demetra si dà ai vocaboli forbiti!».

       «Basta così, mi stai rompendo e non voglio litigare proprio oggi che devo andare da Melli».

    Cristiano ricambiava l'affetto che Demetra provava. Il loro? Un sentimento bilaterale. Anche lui la adorava e, sebbene gli garbassero le ragazze e anche molto, non aveva mai pensato a lei come possibile fidanzata o anche solo protagonista di un fugace sodalizio libidico.

       «Ah già, me lo avevi detto ieri, oggi terapia».

       I suoi occhi si erano fatti languidi e umidi; le sembrava di osservare il musetto di un cerbiatto. 

       «Già».

       «Comunque, tornando a prima, ho voluto scherzarci su perché non intendevo affrontare con te il solito argomento».

       «Forse, affrontandolo, potresti aiutarmi a superare il solito problema».

       I due avevano spesso parlato dell'inclinazione di Demetra a fare terra bruciata intorno a sé, scartare le amicizie con la stessa velocità di un battito di ciglia, non concedere il beneficio del dubbio a qualcuno appena si sentiva tradita. Tradita.

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