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Odore di agnello arrosto al rosmarino
Odore di agnello arrosto al rosmarino
Odore di agnello arrosto al rosmarino
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Odore di agnello arrosto al rosmarino

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Il romanzo, che racconta gli eventi italiani del ventesimo secolo, trattati servendosi del palcoscenico milanese, si divide in due sezioni. La prima, riguarda il periodo della salita al potere del Fascismo con tutte le conseguenze derivanti dal paternalismo greve della dittatura. Ne esce un quadro che dipinge le varie anime di un popolino laborioso, vittima del potere anche per propria incapacità e paura a contrastarlo. La seconda, parte dagli inizi della guerra '40/'45, con il corollario di bombardamenti, morti, fame e disperazione e la rivalsa del artigianato. Fino alla costituzione della Repubblica Italiana. Racconto documentatissimo, scorrevole e reso interessante attraverso l'uso di modi di dire, anche in vernacolo e da figure meneghine, indigene o acquisite, di particolare vivacità. Su tutta la trama aleggia l'odore dell'arrosto, cibo di cui una giovane donna bellissima è golosa, e del quale avverte il profumo, ogniqualvolta sente nascere dentro di sé il desiderio sessuale.
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2012
ISBN9788866900030
Odore di agnello arrosto al rosmarino

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    Odore di agnello arrosto al rosmarino - Luigia Bimbi

    parole

    Prima parte

    Capitolo I

    Inverno 1938-39

    La Giovanna, la portinâra si è alzata come al solito verso le sei anche se fa un freddo cane ed è ancora buio pesto.

    Ha messo sul fornello il caffè, un miscuglio di surrogati vari, già infagottata nel vecchio paltò al quale ha accorciato le maniche e che le arriva alla caviglia.

    Lo portava il marito defunto. Sotto, sbucano due scarpacce sfondate e un pezzetto di calzerotti fatti a mano. In testa si è messa una larga sciarpa di rayon, fermata sotto il mento. Dopo aver bevuto il caffè, accende la stufetta parigina che sfiata attraverso un lungo tubo sospeso al soffitto e che lei ha preparato per l’accensione fin dalla sera prima. Poi solleva l’asse sistemata davanti alla portafinestra e apre l’uscio. Il portico è illuminato fiocamente da una lampadina che pende dal soffitto senza paralume, mentre lei viene investita da una corrente d’aria fredda e umida. Rabbrividendo, richiude la porta e infila i guanti di lana, privi della punta delle dita, adatti al lavoro che svolgerà fra poco. Mani e piedi sono tormentati dai geloni. La crema che il fratello le regalava, capace di lenire il dolore, è finita da parecchio tempo e i soldi per comprarla non ci sono mai. Ne ricorda con nostalgia il nome: Apeina. Inutile pensarci: è troppo cara e se ne deve dare parecchia per ottenere un minimo di risultato. Afferra la scopa ed esce impettita dalla portineria, decisa a ramazzare con tutta la forza di cui è capace, per vincere il freddo e scaldare le povere ossa doloranti. Nell’atrio aleggia un tanfo d’umidore e d’urina. La portinaia arriccia il naso e si dirige verso una colonna alla cui base serpeggia una traccia lucente e grigiastra, terminante nella pozza giallina di una poderosa pipì.

    Disgustata, borbotta fra sé e sé in meneghino: — Se el ciàpi quel lasàrôn che la nòtt el vên dênter a pisâ, ghe foo el coo gròss côme on bàlôn. — ( se prendo quel lazzarone che la notte viene a pisciare, gli faccio la testa grossa come un pallone).

    Non può nemmeno immaginare che sia uno della casa a compiere un atto così deprecabile, nemmeno il Sergio, quel boione.

    C’è sì, il Decimo, che sputacchia ovunque, ma pisciare no.

    E poi nel cortile c’è il cesso alla turca.

    Andiamo!

    La casa si sta svegliando sull’ennesima mattinata di questo inverno milanese, caliginoso e squallido, e gli inquilini scenderanno, un po’ alla volta, diretti ai loro obblighi quotidiani. La Giovanna ferma la scopa un attimo per ascoltare i primi passi sulle scale: è il sciôr Pino, quello del terzo piano, il marito della Maestra. A lei viene il batticuore. Appena lui compare nell’atrio e prende la bicicletta dalla rastrelliera, la portinaia butta indietro la sciarpa e sistema un po’ i capelli, ricci e grigiastri, preparandosi a sorridere.

    Ha un debole per il signor Pino; lo aspetta ogni mattina con ansia e quando lui arriva e la saluta con cortesia: — Buongiorno, sciôra Giovanna — lei si sdilinqua. Mentre le passa accanto sente il frusciare del giornale che lui ha infilato sotto la maglia per proteggere lo stomaco e il cuore dal freddo.

    Poco più tardi viene giù, dall’ultimo piano, quel peso massimo della Teresa; scaracolla per le scale con la bimbetta in braccio e il maschietto attaccato all’ampia sottana.

    — Giovanna — le fa — che giornâda schifosa! Povera Teresa!

    Alle sette e un quarto deve già essere all’osteria dove lavora come cuoca e donna tuttofare, con quei due figlioli mezzi addormentati, appiccicati addosso. Fa questa vita da quando è rimasta vedova. Verso le otto la moglie dell’oste porterà il bimbo a scuola, mentre la piccola di quattro anni rimarrà con la mamma nella cucina dell’osteria a giocare con una vecchia bambola di pezza e i pentolini. La Teresa pesa novanta chili, possiede una tartaruga centenaria e, a parte il peso considerevole, la tartaruga e i figli, non ha praticamente nulla.

    Il marito se n’è andato due anni innanzi, dopo un periodo di malattia che ha prosciugato i pochi risparmi della famiglia e lei si è dovuta adattare ad un lavoro qualunque che le permetta di sopravvivere con le sue creature. La Giovanna le vuole bene e cerca di aiutarla in tutti i modi possibili, soprattutto quando i bimbi sono malati e la madre è costretta a lasciarli a casa.

    Passata la Teresa, arriva il Sergio.

    È un ragazzo di diciassette anni e lavora in una ditta di biciclette. Corre fuori come un matto perché è in ritardo come al solito. La notte fa le ore piccole in giro per Milano con altri balordi, tanto che al mattino non s’alzerebbe mai.

    — Bàlord! — gli borbotta dietro la Giovanna — fâcia de tôla — (faccia da pallottola).

    Lui non la saluta né le parla da quel giorno della scorsa estate in cui ha dovuto pulire i muri delle scale dalle scritte che un buontempone ha ripetuto diverse volte col carbone e che si riferivano decisamente a lui: il Sergio ama la Cicci.

    La Cicci è la figlia della Maestra e del signor Pino. Fra qualche mese avrà dodici anni. Una bella bambina coi capelli raccolti in due treccine castano rossicce e grandi occhi nel faccino minuto. È timida e gentile, mentre lui è un ragazzotto grosso e volgare che le corre dietro urlandole qualche apprezzamento non proprio civile.

    Qualcuno, forse un amico burlone, ha imbrattato con quella scritta i muri della casa durante la notte, tanto il portone non chiude più da parecchi anni.

    La portinaia, che già da tempo ha in antipatia il Sergio, si è precipitata da suo padre e gli ha detto di far pulire subito le pareti imbrattate altrimenti il padrone di casa l’avrebbe fatto fare a qualcuno, addebitandone a lui la spesa.

    L’uomo ha preso il figlio per il collo e l’ha obbligato a pulire tutto con acqua e sapone, fra le risate dell’intero caseggiato.

    Sont mînga ‘sta mi! (non sono stato io!) — urlava il ragazzo, ma non c’era stato niente da fare.

    Adesso il Sergio odia la portinaia e la strozzerebbe volentieri.

    Lei è sicura che è stato lui ad organizzare lo scherzo della sveglia.

    E sì, perché alla Giovanna, dopo quel fatto, hanno rubato la sveglia da sopra la credenza della cucina.

    È andata così: si è presentato alla portineria un ragazzo con in mano una busta chiusa da recapitare al signor Colombo, il vecchio dell’ultimo piano che abita di fronte alla Teresa. — Sciôra portinâra — le ha detto educatamente — ciò una lettera da dare al signor Colombo. Dôe el sta? (dove sta?)

    Lei ha risposto: — Al settimo piano, l’ultimo.

    Oh signôr! ho male ad una gamba e non posso fare le scale.

    — Va bé — fa la Giovanna — da’ qua che gliel’allungo quando al ven giô. (viene giù)

    — Ma no — rimbecca l’altro — ci vuole la risposta subito, che la devo portare all’ufficio che ha mandato la lettera. Mi han detto che è roba di soldi d’avere e il Colombo deve rispondere coi suoi dati. Una faccenda importânta e ürgênta, per lui.

    La Giovanna sa, come del resto tutto il vicinato, che il Colombo, che ha fatto l’imbianchino da giovane, oggi, che è vecchio e malato, farebbe la fame se non avesse un aiuto dal figlio e allora, buona di cuore com’è, si mette sulle spalle lo scialle, prende la lettera e, borbottando, lascia il ragazzo in portineria e sale le scale fino all’ultimo piano dove consegna la missiva al destinatario.

    Quello l’apre, legge e ride.

    Sul biglietto c’è scritto: — Portinâra ven debàss che la sveglia la và a spàss (portinaia vieni giù che la sveglia va a spasso). Naturalmente il ragazzo se n’è andato e la sveglia pure.

    — È stato quel porco del Sergio — nessuno glielo leva dalla testa alla Giovanna.

    Adesso scende l’Isotta.

    Risuona per le scale il tacchettio della scarpette, veloce e disinvolto, e la portinaia ferma la ramazzata e aspetta, appoggiata alla scopa. Si prepara a salutare e a sorridere. È forse l’unica donna, nel rione, che prova una forte simpatia per lei. Intanto si chiede: — Come farà ad attraversare i bastioni ghiacciati con quei tacchi?

    Poi le viene in mente che una volta glielo ha chiesto e lei le ha spiegato che si toglie le scarpe all’inizio della traversata e indossa sui piedi un paio di calzette di lana, quelle che pizzicano ma sono robuste, per togliersele poi dall’altra parte e rimettersi le scarpe che ha tenuto in mano. — Un po’ laborioso — le ha detto — ma certamente più sicuro. In ogni caso — ha aggiunto — se cado finisco sul sedere e, visto che è bello grosso, è difficile che mi faccia male. — Ha buttato là una risata squillante con quella bocca a cuore e i denti bianchi e perfetti.

    Com’è bella l’Isotta! Suscita l’invidia di tutte le altre donne.

    Ha il corpo pieno di curve messe al posto giusto, i capelli fiammeggianti e un certo portamento da sembrare una regina. L’Isotta potrebbe fare l’attrice. Invece, poverina, è sposata al Giannetto, il facchino, ed è costretta a lavorare per arrotondare lo stipendio del marito. È una donna gentile e tanto seria, nonostante i mosconi che le ronzano intorno.

    La Giovanna la saluta in meneghino: — Ciâo, bêla dôna.

    E l’altra risponde. — Buona giornata Signora Giovanna.

    Quel signora le scalda il cuore e le pare che, nonostante il freddo e i geloni che le torturano mani e piedi, la fatica di oggi sia più sopportabile.

    L’Isotta si è appena allontanata, che arriva, a passettini brevi e guardinghi, l’Erminia, una compagna di partita a carte della portinaia. Si vede che oggi, in clinica, ha il turno del pomeriggio, cosa che accade di rado. Si accosta alla Giovanna e le mormora: — Te vist la Rossa, côme a l’è tüta in ghingheri? (hai visto la Rossa com’è tutta in ghingheri?).

    L’altra la guarda di brutto e fa: — E àlôra? Côsa a ghé? (e allora cosa c’è?) — Nàgòta, nàgòta, (niente) ma io dico che quella lì ci ha uno che le compra la roba.

    E si mette a recitare un proverbio meneghino: — El püsee bôn di rôss l’hà trà el sò pà in del pôss. (il più buono dei rossi ha buttato il padre nel pozzo).

    La portinaia diventa verde dalla bile: — La tôa a l’è tüta invîdia. Perché a l’è bêla e ti, invêci…(la tua è tutta invidia, perché è bella e tu invece.) ci hai tre capelli in testa e un fisico de rengh. ( d’aringa )

    Litigano e l’Erminia se ne va impettita.

    Ma il suo rancore è di breve durata. Domani sera tornerà alla portineria della Giovanna per giocare a carte con le amiche ed ascoltare le canzonette alla radio o qualche discorso di Mussolini che le donne seguono, ognuna, con diversa considerazione. Infatti, delle quattro che di solito si riuniscono per la partita, due, fra cui la Giovanna, trovano gli interventi del Duce estremamente pomposi, mentre le altre si incendiano di sacro fuoco patriottico. Così, alle partite di rubamazzetto e di scopa, si alternano baruffe concitate e parolacce in puro meneghino. Niente di tutto questo riesce però riesce a scalfire la loro amicizia, basata soprattutto sul bisogno di incontrarsi per respirare una ventata di libertà dopo la lunga giornata di lavoro e di sacrificio spesso misconosciuti.

    Alle otto o giù di lì, quelli che dovevano uscire sono passati tutti, anche il marito della Luigina, la materassaia, quello che scaracchia dappertutto.

    Lei l’ha detto alla Luigina per la quale ha una vera simpatia: — A me mi fa un po’ schifo, te lo devo dire, e poi mi tocca di pulire. Non si deve fare, non è igiene. Se lo dico al sorveliânt, ci fa la multa.

    — Oh signôr! mica denunciarlo il mio Decimo. Che quello fa un casino che lo mettono in galera! io ce l’ho detto, ma lui mi ha menato e basta. Va là, Giovanna, porta pazienza che quando ho venduto questo materasso, te foo on regàl (ti faccio un regalo).

    E allora la Giovanna pulisce e sopporta.

    Capitolo II

    Estate 1939

    Milano è già sotto una cappa di calura e d’afa nella quale lievita, dagli scantinati i cui muri sono tappezzati di blatte, il fetore dei rifiuti che vengono raccolti dai netturbini una volta alla settimana.

    All’alba prevale il profumo del pane appena sfornato e, più tardi, quello dei cappuccini preparati nei bar. Ma quando il sole dardeggia sulle case, le vie sono invase dalla puzza delle immondizie accatastate. Nessuno, specialmente fra il popolino, ci fa granché caso; basta che l’inverno sia finito, col suo carico di neve, di ghiaccio, di freddo che penetrava nelle case mal riscaldate e aggrediva per le strade le persone vestite alla meglio; basta che i malanni invernali, curati, il più delle volte, con la sola aspirina, siano un ricordo lontano. Adesso i corpi sudati e poco puliti (la buona parte della gente non possiede servizi igienici degni di tale nome ) diffondono intorno i loro sgradevoli odori ai quali tutti finiscono col fare l’abitudine.

    In aprile, con la vittoria dei falangisti e dei fascisti, si è concluso il terribile conflitto spagnolo, una guerra fratricida che i vinti avevano combattuto con l’appoggio di tutto il mondo libero, contro gli usurpatori di un governo legittimo. C’erano stati morti, tanto sangue e dolore, sia da una parte che dall’altra e, alla fine, avevano vinto gli usurpatori. Le guerre sono così. Succede spesso che esse siano sfavorevoli ai difensori del diritto. Sono come un assegno firmato in bianco. Non sai mai come va a finire. Fra la gente della Milano sempre in bilico fra la fame e la sazietà, il conflitto era passato quasi sotto silenzio, salvo per le famiglie che avevano avuto qualche parente in guerra. La radio si ascoltava nell’osteria e poiché i notiziari di politica erano infarciti di verbosità e roboanti inni al valore delle schiere fasciste, capitava sempre più spesso che si girasse la manopola alla ricerca dello sport e della musica. D’altra parte, per i poveretti, c’erano già abbastanza guai senza doversi immergere nell’ascolto e nella lettura dei tragici fatti di una guerra lontana che non li riguardava. Anche il giornale, deposto su di un tavolo, alla portata di tutti, era consultato sui medesimi argomenti, ai quali si aggiungeva la cronaca rosa o quella nera, riguardante, il più della volte, la grassa borghesia. I ricchi facevano notizia e i poveri, apprendendone le gesta, si sentivano spiritualmente coinvolti in quel mondo di ricchezza che loro non avrebbero mai posseduto. Alla redazioni dei giornali arrivavano le veline del regime il quale, attraverso il ministero della cultura popolare (MINCULPOP), emanava il diktat sulle notizie che si potevano pubblicare e sul modo di farlo.

    Lo sapevano anche i più ignoranti. E ce n’erano tanti.

    Pochissimi, ad esempio, ricordavano o conoscevano quanto era accaduto nel paese basco di Guernica, sventrato dall’aviazione tedesca, coi suoi 1654 morti. Il primo bombardamento a tappeto della storia.

    In una mattina calda e appiccicosa di questo mese di luglio, la Giovanna, dopo aver provveduto a pulire scale ed atrio, mentre si accinge a rientrare in guardiola, vede comparire, sotto l’arco del portone, due carabinieri. Uno è alto e biondo, mentre l’altro, nero di capelli e scuro di carnagione, è decisamente basso. Avanzano impettiti e a passo marziale. El büscion (il tappo), come lo definisce subito la Giovanna, riferendosi al bassetto, l’apostrofa con voce tonante: — Siete voi la Giovanna Cerutti?

    Il voi, che già da tempo si usava nelle campagne italiane, era diventato obbligatorio nei rapporti e nella corrispondenza ufficiale ed era stato esteso, a volte con scarso successo, alla parlata comune; fra i cittadini faticò molto ad attecchire, tanto che prevaleva spesso il lei, l’allocuzione proibita perché ritenuta straniera.

    La Giovanna rimane un attimo col fiato sospeso, poi si riprende rispondendo: — Sì, sont mi, perché?

    Quello biondo, che sembra guardare al di là della testa della portinaia, ordina, con spiccato accento veneto: — Dovete seguirci. Obbedite senza fare domande.

    — Obbedite obbedite — borbotta la Giovanna — potrò sapere almeno perché. Io non ho mica fatto niente di male.

    Il biondo scrolla la testa: — Su, su, andiamo, non fate storie.

    La donna, indispettita, si avvia alla guardiola mormorando: — Non posso mica venire in ciabatte e grembiule! aspettate che adesso mi vesto.

    I due si fanno sulla porta della portineria, mentre la Giovanna si avvia alla camera da letto, borbottando fra sé — Quelli lì sembrano i padroni del vapore. Ma a me non mi fanno mica paura.

    Indossa un vestitino di cotonina, mette un buffo cappello in testa e, intanto che calza le scarpe della festa che le fanno male ai piedi, è presa da un’improvvisa paura: — Cosa vorranno questi qui? non mi metteranno mica in galera, eh?

    Uscendo, si trova in mezzo ai due, con le gambe che le fanno giacomo, giacomo. Il piccoletto la spinge nella camionetta che il biondo si accinge a guidare. Lungo la strada la donna chiede e richiede, lamentosa, dove diavolo la portano e alla fine il biondo, seccato, le dice che sono diretti alla camera mortuaria e le impone di stare zitta. E allora, alla mente della Giovanna, riaffiora un ricordo doloroso che aveva cercato, per quattro anni, di seppellire nel fondo della sua memoria. Proprio quattro anni prima, in una giornata autunnale che c’era una nebbia da tagliare col coltello, era venuto a cercarla un fascista graduato e se l’era tirata dietro fino alla camera mortuaria del Cimitero Monumentale. L’uomo l’aveva spinta in malo modo all’interno dell’obitorio, fin davanti ad un tavolaccio dov’era steso un cadavere. — È tuo fratello? — le aveva chiesto. La Giovanna, guardandolo, aveva gettato un grido ed era svenuta. Il morto era suo fratello ma, della testa, era rimasta solo la metà sinistra, poiché l’altra pareva un piccolo ammasso grumoso di carne scoperta e di sangue. Si era risvegliata, ancora stesa in terra, con addosso l’alito pesante del fascistone, chino su di lei mentre le chiedeva se, adesso, era in grado di riconoscere il cadavere.

    L’aveva già riconosciuto, s’era per quello.

    Quando la riportarono al tavolaccio, si mise le mani sulla faccia e urlò: — Sì. A l’è el me fràdèll! Ma chi l’ha consciâ in quêla mànêra lì? — (è mio fratello! Ma chi l’ha ridotto così?). La risata del graduato aveva sbattuto contro il suo dolore come una porta chiusa violentemente in faccia; la tenne dentro la memoria, lugubre e lontana, insieme al volto spiaccicato del fratello.

    — E chi lo sa — sghignazzò l’uomo.

    Non lo si seppe mai.

    Adesso era di nuovo diretta ad un luogo di morte, ma non aveva più paura. Anzi. Si è messa comoda, godendosi la passeggiata in macchina. La violenta reazione che l’aveva colta anni prima alla vista del fratello cadavere e col volto mutilato, era stata generata dall’amore che gli portava, un amore corrisposto, per il quale una mano omicida aveva redatto il terrificante epilogo. Certamente ora le avrebbero fatto identificare un altro cadavere. Forse si sarebbe un po’ spaventata, meravigliata, addolorata forse, ma di morti, ormai, ne aveva visti tanti! Era solo un poco curiosa. Chissà chi era?

    La camionetta procede senza fretta, con qualche fermata che vede uno o l’altro dei due militari impegnato a comperare sigari da un tabacchino o a ritirare documenti in una sede di polizia. Ed ecco che, dalla nebbia del passato, tornano alla sua mente i ricordi, i fatti e le emozioni della giovinezza, sepolti in fondo all’anima.

    Era l’anno 1905, all’inizio dell’estate, quando entrava nella sua vita il fratello Giustino. Arrivava dalla campagna al casale, dove abitava la famiglia, dentro una carriola, avvolto in un vecchio scialle macchiato di sangue. La mamma le aveva ordinato di lavarlo e portarglielo poi a letto per la titta. L’aveva partorito qualche ora prima, assistita da una vecchia donna, fra le spighe di frumento quasi mature. La Giovanna, a 12 anni, sapeva già che la mamma era incinta e come nascevano i bambini; in campagna i bimbi crescevano in fretta e conoscevano i fatti della vita molto più di quelli di città. Appena tolta dallo scialle quella piccola bambola viva e urlante, dotata di pisello, seppe che aveva un fratello e lo amò subito.

    Quando la madre, una settimana dopo, riprese il lavoro, lei si trovò ad accudire al piccolo, così come accudiva ai lavori domestici, alla mungitura dell’unica mucca, al pollaio, alla lavatura dei panni nella roggia (canale) e al nonno, il padre di suo padre, vecchio e malato.

    La Giovanna aveva frequentato le elementari fino alla quarta, perciò sapeva scrivere, leggere e far di conto, al contrario dei genitori che erano analfabeti. Per questo, oltre alle solite fatiche, era tenuta anche ad aggiornare il conteggio del misero bilancio familiare, oppure a scrivere un biglietto, qualora fosse stato necessario, o leggere ai genitori la rara posta che arrivava. Aveva anche il compito di raccogliere i bastoncini per la prima accensione del fuoco, nonché i funghi e i frutti del bosco per le marmellate. Tempo per i giochi non ce n’era. L’unico passatempo era rappresentato, in una certa stagione, dalla passeggiata ai mulini col babbo e il somaro carico di sacchi di frumento da macinare. Sullo sterrato dinanzi ai mulini, era un allegro avvicendarsi di uomini, donne e bambini che venivano dai vari paesi dei dintorni. E allora le voci si accavallavano allegre e le ruote cigolavano, ansimando nell’acqua. Era una festa anche per i somari ai quali veniva data la semola in premio per la loro fatica e sembravano ringraziare, ragliando festosamente.

    Per la Giovanna anche la mungitura rappresentava un piacere: spremere delicatamente e con ritmo le mammelle della mucca e vedere uscire il latte tiepido e profumato, era uno spasso. Le era capitato di vedere su di un libro la figura di una suonatrice d’arpa e a lei, mungendo, sembrava di suonare quello stesso strumento e il ploffare del liquido nel secchio aveva quasi il suono di una musica.

    Fino a quando…

    La mamma smise presto di allattare il Giustino, perché non ebbe più latte. E allora ci pensò la mucca a crescerlo, anche se, nei primi tempi, il piccolo vomitava e soffriva di diarrea. Più avanti la Giovanna incominciò a nutrirlo col semolino o la pasta e il riso cotti e masticati da lei per renderli digeribili al fratellino. Intanto la madre, solitamente taciturna, si faceva sempre più cupa e pallida. La donna era nata e cresciuta a Milano ed era andata sposa, a 23 anni, ad un contadino della bassa bergamasca, che l’aveva portata in quel casale sperduto nei campi. Insieme ad altri, lavoravano tutt’e due, per un tozzo di pane, la campagna di una ricca famiglia di proprietari terrieri, dall’alba al tramonto, quando, dopo una cena silenziosa, il marito se ne andava all’osteria del paese e rientrava solo nella notte. La mamma della Giovanna non aveva quasi nessun rapporto con le altre comari, un po’ per naturale inclinazione alla solitudine, un po’ perché aveva sempre avuto altre abitudini e inoltre le riusciva difficile capire il dialetto del luogo così come, alle donne del posto, risultava ostico il suo meneghino.

    Una sera d’estate, quando il Giustino era alle soglie dei cinque anni, la Giovanna vide tornare la mamma dal lavoro un po’ più presto del solito. Erano poco più delle diciotto di una di quelle sere afose, quando il sole picchia ancora gagliardo sull’aia cacciando all’ombra delle case e degli alberi le razzolanti galline. Una di quelle tante sere estive nelle quali l’odore della minestra, cucinata nelle grandi pentole di rame appese all’uncino del camino, faceva accorrere in cucina sciami di mosche golose. La madre entrò, silenziosa come sempre, si avvicinò al lettino del piccolo che dormiva nudo, sollevò il telo che lo riparava dalle mosche, lo guardò a lungo, poi gli fece una breve carezza. Quindi si volse verso la figlia e le sorrise: — Grazie — disse — te sett ôna bràva tôsa (sei una brava ragazza). La Giovanna la guardò stupita: — Grazie di che? — e corse al fuoco dove la minestra poteva bruciarsi. L’assaggiò. Era pronta, cotta a puntino. Che fatica per le magre braccia staccare il paiolo dal gancio e posarlo a terra sul treppiede! Più tardi, al ritorno del padre, avrebbero consumato un piatto di minestrone tiepido e saporito e forse il papà avrebbe detto: — Brava, è buono. La Giovanna ci sperava sempre. In quel momento il Giustino si svegliò, lanciando un piccolo grido festoso. Quel ragazzo era l’allegria in persona. La Giovanna l’aiutò a vestirsi e poi lo spinse in cortile, raccomandandogli di non sporcarsi troppo. Era giunta l’ora della mungitura: prese il secchio e si avviò alla stalla. Quando ne aprì la porta, un raggio di sole disegnò sul muro l’ombra di una donna appesa ad una corda che scendeva dal trave del soffitto.

    Sua madre si era impiccata.

    Capitolo III

    La stalla e il compito al quale la Giovanna era adibita ogni sera avevano già perso il loro fascino l’inverno precedente, quando era morto il nonno. E non tanto per la sua dipartita, che, in fondo, era un vecchio brontolone e bilioso e la bimba non provava per lui alcun sentimento di affetto, ma piuttosto per le circostanze che avevano fatto seguito alla sua morte. Era un inverno gelido; faceva così freddo che l’abbeveratoio delle bestie rimaneva coperto da una lastra di ghiaccio anche durante il giorno quando splendeva il sole. Dalle grondaie scendevano le stalattiti, lunghe e appuntite come coltelli. Soffiava a volte un vento di tramontana capace di scoperchiare un tetto. Il ponte di legno che univa il casale al resto del paese si era lesionato, tanto da impedire di passarci sopra coi carri.

    Quando il nonno morì, lo misero nella stalla, in attesa di aggiustare il ponte. Ci rimase per dieci giorni. Mungendo la mucca, la Giovanna dava di spalle al cadavere, ma le pareva di sentirlo muovere e avvicinarsi a lei. Ogni tanto alzava la lampada e gettava luce sul corpo che si rivelava immobile. Ma a lei non bastava. Non osava dire a nessuno delle sue paure. Quando finalmente il cadavere fu portato via continuò ad immaginare che fosse ancora lì e ad averne timore. Ed ora il corpo di sua madre appeso al trave, che dondolava come in una macabra danza di morte.

    Due anni dopo il padre morì di polmonite. I padroni misero il Giustino in un orfanotrofio milanese e accasarono la Giovanna ad un ragazzo della sua stessa età che al paese era considerato un eroe per aver combattuto in Tripolitania e aver ricevuto la medaglia al valore nel 1911. Gli sposi andarono a vivere a Milano e a lavorare in una industria di cavi elettrici. A parità di prestazioni e orario di lavoro, la Giovanna riceveva una paga inferiore a quella del marito, già mal pagato, perché femmina. La faticosa vita di fabbrica e più ancora quella familiare, accanto al coniuge che si era rivelato crapulone e manesco, riuscirono a farle rimpiangere persino la passata esistenza campestre. Quando, nel giugno del 1915, una tradotta militare si portò al fronte il Domenico, suo marito, lei sperò caldamente che ci lasciasse la buccia. Pregava Sant’Àmbroêus (S.Ambrogio), Patrono di Milano, perché la liberasse da quell’uomo volgare e picchiatore che le procurava solo dispiaceri e lividi. A volte se lo immaginava in un lago di sangue, mentre una bella crocerossina raccoglieva le sue ultime parole. Nell’immaginazione, gli concedeva il conforto della presenza di una bella donna al suo fianco, mentre esalava l’ultimo respiro, per sentirsi meno colpevole per quel suo desiderio di morte.

    Figli non ce n’erano, perciò…

    Nella fabbrica della Giovanna, dove il lavoro era stato trasformato in parte come produzione di guerra, gli operai erano ormai quasi tutte donne. I padroni facevano soldi a palate sulla pelle delle dipendenti. Un altoparlante, situato nel locale dove si svolgeva la maggior parte dell’attività, incitava il personale a produrre sempre di più e con alacrità, per il bene della Patria in guerra. Le donne si abbrutivano nella loro quotidiana e incalzante fatica, borbottando maledizioni all’indirizzo di quell’arnese vociante. La Giovanna non si lamentava, perché, al ritorno nella sua modesta abitazione, trovava finalmente la pace e poteva raggiungere il fratello ogni volta che le pareva. Le visite dei familiari erano ammesse fino alle 21 dei giorni feriali e l’intera domenica. Portava al Giustino del cibo di cui si privava volentieri e abiti caldi quando, d’inverno, all’Orfanotrofio si gelava. Il fratello cresceva bene, nonostante tutto, studiava volentieri e imparava qualche mestiere, sempre allegro e disponibile. Con lei era affettuoso e riconoscente.

    Verso la fine della guerra il Domenico tornò. S. Ambrogio non aveva fatto il miracolo. Tornò zoppo per una granata scoppiata poco lontano da lui, e più cattivo che mai. La Giovanna raccontava alle amiche che lei, per un motivo o per l’altro, andava ogni giorno in Câ Bûsca, cioè le buscava, anche quando le pareva di aver accontentato il marito in tutto e per tutto. Nel 1921 il Domenico si iscrisse al novello Partito Nazionale Fascista e nel ’22 partecipò alla Marcia su Roma. Dopo, pur essendo uno dei tanti reduci disoccupati, aveva sempre le saccocce piene di soldi di cui la moglie non conosceva la provenienza. Li spendeva in puttane e bagordi. Faceva parte di una squadraccia di picchiatori che elargivano, con manganellate e olio di ricino, una ideologia oscura, ben accetta ai ceti ricchi e conservatori perché diretta ad imporre un ordine contrario a qualsiasi rivendicazione. Nel 1923, quando fu creata la Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale, (MVSN), il Domenico ne indossò prontamente la divisa ed entrò, non si sa come, nella polizia ferroviaria. Da allora stava più fuori che in casa, con grande piacere per la Giovanna. Ogni tanto però, si portava a casa dei vecchi camerati e qualche donnetta da trivio e obbligava la moglie a preparare la cena per tutti. Bivaccavano l’intera notte nel salotto buono, abbuffandosi, bevendo senza ritegno e cantando canzonacce fasciste, intercalate dal racconto di bravate torbide e volgari. Una sera sentì dire dal marito che aveva bruciato il sedere di un omosessuale con un tizzone ardente, lasciando il poveraccio a terra più morto che vivo. Nel pieno dei bagordi poteva finalmente ritirarsi in camera da letto dove si tappava le orecchie con la cera. Prima di addormentarsi mandava il suo accidente al marito, sempre quello: — Crepa, s’ciopa e fà ôna bêla bôta (crepa, scoppia e fa’ una bella botta).

    Nel 1929, in una sera nebbiosa d’autunno, il Domenico, mentre si avviava al solito casino, inciampò nel marciapiede e cadde urlando. Portò la mano destra al petto e mormorò in dialetto: — Che maa! Che maa! Ciâmee la Gioàna! (che male! chiamate la Giovanna). Quando la Giovanna arrivò all’ospedale, dove i camerati l’avevano portato, il marito era già morto. Tornando a casa la donna entrò in una chiesa, si genuflesse e giungendo le mani, ringraziò S. Ambrogio, riconoscente. I funerali furono pagati dal Partito e, alla vedova inconsolabile, fu assegnata la custodia di una portineria nella zona di Porta Volta, per premiare, a posteriori, i grandi meriti politici del Domenico.

    Cessato il faticoso e mal retribuito lavoro della fabbrica, anche se quest’altro non era certo pagato bene, e morto e seppellito il marito, iniziava finalmente per la Giovanna un’era di esistenza tranquilla, non fosse stato per la lontananza del fratello, che la addolorava. Questi aveva lasciato da tempo l’orfanotrofio e se n’era andato in giro per l’Italia a fare non so che e a lei arrivano sporadiche cartoline con saluti e baci. Ed ecco che un giorno, sul finire del 1930, Giustino ricomparve. La sorella se lo trovò dinanzi, al di là della porta finestra, sorridente e immobile. Per lei fu come se fosse comparso il Bambin Gesù. Baci e abbracci a non finire, fra le lacrime della donna e il suo affannoso chiedere: — Ma te sett prôpi ti? (ma sei proprio tu?). — Già — rispondeva l’altro — sono il tuo Giustino in persona. La sorella lo accolse nella portineria e gli diede ospitalità nel grande letto matrimoniale, anche se borbottava: — Chisà côsa la bàgolàrâ la gent!, che nûn dormem in de l’istèss côbi! (chissà come malignerà la gente perché dormiamo nello stesso letto). Ma poi faceva spallucce; dato che lui non sapeva dove andare era logico che lo tenesse con sé. Per oltre due anni il fratello non si mosse dalla portineria se non per slavoracchiare qua e là e passare qualche serata al bar con strani amici, oppure a giocare a scopone con le vecchie compagne della Giovanna alle quali non lesinava affettuosità e complimenti. A volte capitava che parlasse male delle teste da morto come chiamava lui i fascisti, e allora le donne si impaurivano. L’Erminia lo redarguiva come poteva: — Ôn de ‘sti dì te dan i bott e te manden in gàlera (uno di questi giorni ti picchiano e ti mandano in galera). — Magari mi ammazzano pure — rispondeva lui ridendo. E un giorno scomparve, fino a quando la Giovanna lo ritrovò col viso deturpato, cadavere, su quel tavolaccio dell’obitorio. Aveva solo trent’anni.

    La camionetta si è fermata davanti alla porta della Camera mortuaria del cimitero di Musocco. Durante il tragitto la Giovanna ha raccolto tutti i suoi ricordi ed ora le gravano addosso come macigni. La tirano fuori dalla macchina quasi di peso e lei si avvia, frastornata, pensando sempre al Giustino, morto forse per aver espresso un opinione non gradita al potere. In mezzo ai due carabinieri, avanza nell’atrio di quest’altro Obitorio, dove c’è un tavolino con sopra una macchina da scrivere sulla quale tampicchia un impiegato anziano. Si fa avanti, da una zona d’ombra, la figura di un uomo abbastanza giovane, ben vestito e coi capelli impomatati. I militari gli si fanno vicini, parlottano e gli consegnano i sigari che gli hanno comperato. Lui accende lentamente un sigaro, poi si volge sorridente alla povera Giovanna che non sa cosa fare. L’uomo le si avvicina, rassicurandola: — Dovete riconoscere un cadavere. Non temete, non fa paura, è soltanto brutto, ma quello è un difetto di natura. Venite con me.

    Un altro tavolaccio, un altro morto.

    Quanti sono stati i morti della sua piccola vita? La Giovanna guarda e sbarra gli occhi: — Ma l’è il Gedeone! — esclama.

    — Chi? — fa l’altro.

    — Il Gedeone Rossi, il padrone di casa.

    L’uomo schiaccia il sigaro mezzo fumato in fondo al tavolaccio, sullo zinco e vicino ai piedi del cadavere.

    Poi guarda la donna — Siete sicura? — chiede.

    — Che mi venga un accidente se non sono sicura. Cosa gli è successo?

    — L’hanno ammazzato.

    — Perché? — chiede la Giovanna.

    — Mia cara signora, sapere il perché non sarà facile. Voi ci potete dire qualcosa in merito?

    — No. Era matto, ma direi innocuo. Ma voi lo sapete…coi matti!

    — Matto come? — insiste l’altro.

    La Giovanna, che non è una stupida, capisce che immaginano che lei sappia qualcosa della faccenda.

    Siccome invece non sa niente e non vuole rogne, si rivolge decisa all’uomo gentile ma sospettoso: — Io ho detto matto perché parlava da solo e ce l’aveva con tutti. Ma non so proprio niente di lui. Era uno che stava sulle sue e non ti dava confidenza. Piuttosto vorrei sapere perché mi avete portato qui. Sapevate già chi era, visto che avete cercato la portinaia del suo palazzo. E àlôra mi côsa ghe entravi in bàll? (e allora io cosa c’entravo?).

    L’uomo le concede un sorriso affabile: — Il poveretto aveva in tasca una carta di identità sulla quale era stampigliato l’ultimo indirizzo, ma la foto, probabilmente vecchia, lo ritrae giovane e bello, tanto da non sembrare nemmeno lontanamente questo morto qui.

    — Io l’ho conosciuto come lo vede adesso. Ma mi hanno detto che una volta faceva voltare le donne per strada tant’era bello. L’ha rovinato la malattia.

    La Giovanna fa per avviarsi, ma poi torna a guardare il tavolaccio, un momento prima che ricoprano il viso del cadavere.

    Lo osserva, ed esclama: — Ma va là! questa a l’è bôna! Il Gedeone, da vivo, non l’ho mai visto sorridere. Invece, guardatelo adesso che è morto: pare che rida!

    Capitolo IV

    Bello era bello davvero il Gedeone, detto alla francese, Gedeò.

    Era nato nel 1875 da una coppia benestante e male assortita. Lui, il padre, di nome Frigerio, era di origine comacina; uomo maturo e sanguigno, allenato ai giochi amorosi con le donne di facili costumi, interessate più al suo denaro che a lui, mentre la madre veniva da una provincia del Sud, si chiamava Assunta, era giovane, bellissima, incolta e bigotta. Il Frigerio, alle soglie dei quarant’anni, l’aveva voluta a tutti i costi, ammaliato dalla sua bellezza. Faceva il rappresentante di vini in Italia e all’estero, guadagnava bene, amava il buon cibo, il vino generoso e le belle donne. In uno dei suoi viaggi al Sud, quando viaggiare, anche con parecchio denaro, costava molta fatica, se l’era trovata davanti nel momento in cui la stanchezza, il pranzo pesante e la ricca libagione l’avevano reso più debole e più sensibile al richiamo dei sensi. Tempo prima aveva avuto modo di gustare un vino liquoroso prodotto dalle vigne di un siciliano, proprietario di una tenuta alle porte di Messina. Gli parve adatto al palato femminile, perciò propose alla ditta di acquistarlo. E adesso era lì, stanco e sudato, non ben disposto verso questa gente che riteneva chiusa in un mondo arcaico, così lontano dalle abitudini evolute della Milano nella quale abitava da anni. Avviandosi verso il porticato del patio di una casa siciliana, ricco di fontane e piante fiorite, sentiva il sole picchiare inesorabile sulla testa. Lo accolse la frescura invitante del portico, insieme alla poltrona a dondolo che gli offrirono e il bicchiere colmo di limonata odorosa. Una donna vestita di nero, che si rivelò essere la vecchia fantesca di casa, dopo averlo servito, gli sorrise, dicendogli qualcosa nel suo dialetto che a lui sembrò un invito ad attendere con pazienza l’arrivo del padrone di casa. Nell’attesa si guardò intorno ed ebbe modo di vedere, al di là del patio, una vasta distesa di alberi da frutta, lunghi filari di viti, fichi d’India e mandorli in fiore. Si appisolò un poco. Aprendo gli occhi, si trovò dinanzi tre uomini, un adulto maturo e due ragazzi che indossavano lo stesso abbigliamento: un abito scuro, alti calzari e, in testa, una berretta con la nappa alla sommità. Erano padre e figli. Il più giovane, di statura al di sotto della media, così abbigliato pareva un vero nanetto. Quest’ultimo risultò essere l’unico a parlare l’italiano, poiché gli altri due si esprimevano solo nel dialetto locale. Da un precedente scambio epistolare, gli ospiti erano venuti a conoscenza della ragione per la quale l’uomo del Nord li onorava della sua visita. Traducendo le parole del padre, il giovane, che sembrava avere sugli undici o dodici anni, invitò cortesemente il Frigerio alla cena familiare che si sarebbe consumata di lì a poco e, se gli faceva piacere, ad una nottata di riposo nella loro casa. L’indomani avrebbe potuto visitare la vigna e decidere l’eventuale acquisto dei vini. Poi se ne andarono, lasciandolo alle cure della donna sorridente. Ora il Frigerio si sentiva meglio, vista l’accoglienza di cui era stato fatto oggetto, però era frastornato: troppo sole, troppa stanchezza, troppi odori forti e pungenti. La cena fu medicea, innaffiata da un vino pastoso che gli rammolliva le gambe e gli rendeva euforica la mente. Fu in quel momento che apparve l’Assuntina, bella e flessuosa come un giunco, lunghi capelli corvini, stretti in un nastro cremisi, la pelle di un pallore trasparente, gli occhi simili a due olive nere, l’abito scuro che le ondeggiava intorno ad ogni passo. Il Frigerio si sentì le viscere in subbuglio e il sangue che saliva allo zenit. Nessuna donna era mai riuscita a fargli quell’effetto. La volle. Essendo l’unica figlia femmina del boss, le trattative furono estenuanti. Dopo vari viaggi, dal Nord al Sud e ritorno, dopo stabilita l’entità della dote e gli obblighi reciproci, si arrivò finalmente alle nozze.

    Il Frigerio non stava più nella pelle, mentre la futura sposa, sempre circondata da tutti i familiari, ogni volta che si incontravano se ne stava a capo chino, indice di timidezza e di sottomissione ( secondo il parere del futuro marito). L’uomo, preso dalla fregola, si vedeva già sposo felice, accanto alla moglie da lui iniziata ai giochi erotici che lo rendevano tanto appagato, abbigliata come una signora alla moda e carica di gioielli, motivo costante di invidia per amici e nemici. Non andò così.

    L’Assuntina, soffocata dal busto che la moda imponeva, obbligata a camminare sui tacchi che la facevano dondolare come un’oca a passeggio, schiacciata sotto il peso di ampi cappelli carichi di piume e fiori, perdeva tutta la sua grazia e somigliava più ad un manichino che ad una donna. Nei salotti bene finì col diventare motivo di derisione. Fra l’altro, si esprimeva male, era incolta, non capiva le battute spiritose e, se per caso le capiva, se ne adontava; a teatro si appisolava, costringendo il marito a svegliarla, amava solo stare in casa o fare spese con le popolane che incontrava al mercato. Il dovere coniugale, che il marito cercava di rendere più gustoso con giochetti di varia natura erotica, la mettevano in uno stato d’agitazione che si manifestava con svenimenti, pianti e fughe per la casa. Una sera, durante il

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